Il Sole Domenica 17.7.16
Animali nella filosofia antica
Scardinare il pregiudizio
di Martino Menghi
Era
il 1992 quando Richard Sorabji pubblicava il suo bellissimo saggio
Animal Minds and Human Morals (Cornell University Press), sostenendo che
una ricostruzione del dibattito antico e medievale su come e dove
tracciare una linea di demarcazione tra mondo umano e mondo animale
avrebbe aperto nuovi, importanti orizzonti di riflessione. In effetti,
questioni come il vegetarianismo, la sperimentazione medica sugli
animali, o i costi e i benefici della conservazione delle specie trovano
tuttora uno spazio piuttosto limitato nel dibattito etico
contemporaneo. Ripartiamo allora dalla lezione degli antichi.
Platone,
con la scoperta di un’anima le cui parti (razionale, emotiva,
desiderante) erano in conflitto tra loro aveva assegnato alla ragione un
ruolo di tale importanza rispetto alle altre due dimensioni psichiche
da dare l’impressione di voler approfondire il divario tra l’uomo e il
resto degli esseri animati. D’altra parte, sono proprio i suoi frequenti
riferimenti alla teoria della trasmigrazione delle anime in altre
specie di viventi che finiscono col ridurre questo scarto e
rappresentare un ponte tra l’essere umano e quello animale.
Aristotele
è noto per aver attribuito il logos, la ragione, unicamente all’uomo, e
in particolare al maschio greco adulto e libero (donne, bambini e
schiavi ne partecipano in modo via via decrescente); tuttavia,
nell’insieme la sua teoria psicologica attribuisce al potere della
percezione (aisthesis), propria anche degli animali, un ruolo assai
maggiore rispetto a Platone. Ma qui entriamo già nell’ambito del
recentissimo contributo di Jean-François Lhermitte che con L’animal
vertueux dans la philosophie antique à l’époque impériale prosegue la
ricerca di Sorabji.
Anche per lui «il dibattito contemporaneo sul
nostro rapporto col mondo animale dipende grandemente dalle posizioni
filosofiche ereditate dagli antichi» (pagg. 485). La scelta poi di
focalizzare la sua ricerca sul periodo imperiale è dovuta al fatto che
proprio in quest’epoca tali posizioni si sono cristallizzate secondo due
linee di pensiero: quanti negano l’intelligenza animale e quanti invece
la sostengono. Al primo partito appartengono gli Stoici, per i quali
l’anima è solo ragione, frammento di quel Logos universale e
provvidenziale che regge il mondo. Tale prerogativa o privilegio,
naturalmente, riguarda l’uomo, mentre agli animali è riconosciuta solo
la dimensione sensitiva. Una posizione ereditata in età moderna da
Cartesio, che confinava il mondo animale nell’ambito della res extensa e
delle sue leggi meccanicistiche. Al polo opposto abbiamo invece i
partigiani dell’intelligenza animale: il poligrafo Plutarco (I-II sec.
d.C.) e lo storico e filosofo Eliano (II-III sec. d.C.), un raffinato
intellettuale autore di una Storia degli animali, che illustra le
abitudini di molti di questi esseri viventi in funzione di un discorso
etico. Sullo sfondo, come punto di riferimento per entrambi gli
schieramenti, la grande lezione di Aristotele, l’autore più citato dopo
Eliano.
Lhermitte comincia col porre al lettore alcuni quesiti di
base: come si sviluppano le facoltà mentali? Sono esse innate o
acquisite, e quali sono le loro funzioni sociali? O ancora, gli animali
hanno una loro giustizia e una loro organizzazione sociale? Infine, di
quali valori morali sono portatori? Le risposte, non definitive,
sembrano essere quelle fornite dalla moderna etologia cognitiva, che
propugna una visione del mondo animale libera da ogni pregiudiziale
antropocentrica.
Nella prima parte del libro la questione
fondamentale è se gli animali aspirino o meno alla virtù morale. Gli
Stoici sostenevano che essi sono dotati solamente del senso
dell’autoconservazione, non del bene morale. Il problema però si
complica se consideriamo l’ “intenzionalità” del movimento: in altre
parole, è possibile che la motivazione interiore sia “moralmente”
orientata indipendentemente dalla capacità di ragionare e di dare
l’assenso al proprio movimento? Per Eliano (e per l’etologia moderna)
sì.
Quanto alle emozioni, se Aristotele e gli Stoici separavano i
sentimenti dalla virtù morale, Eliano invece unifica emozioni, natura e
senso morale in un unico trinomio applicabile anche al mondo animale.
La seconda parte dell’opera affronta il problema delle comunità di tutti
gli esseri viventi e della giustizia. Quest’ultima non si fonda solo,
come per gli uomini, sul contratto sociale, ma anche sulla legge
naturale che gli animali seguono scrupolosamente facendo propri valori
quali la temperanza e l’amore per la loro prole. Insomma, se Aristotele
riconosceva un senso sociale a tutti i viventi, poiché si limitava ad
affermare che l’uomo è il più “politico” (ossia il più “sociale”) degli
esseri animati, questo studio raccoglie la sfida e ci mostra il senso
morale, le virtù e le regole delle comunità del mondo animale, con cui è
bene continuare a confrontarci.
Jean-François Lhermitte,
L’animal vertueux dans la philosophie antique à l’époque impériale ,
Classiques Garnier, Parigi, pagg. 545, € 69