Il Sole Domenica 10.7.16
La rivoluzione di Koyré
Nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche, il primo autore citato da Thomas Kuhn è uno dei suoi professori, Alexandre Koyré
di Alessandro Pagnini
Una
biografia intellettuale ricca di notizie di prima mano che non parla
soltanto dello storico della scienza ma lo inserisce tra i grandi del
«secolo breve»
Nella Struttura delle rivoluzioni scientifiche, il
primo autore citato da Thomas Kuhn è uno dei suoi professori, Alexandre
Koyré, cui viene riconosciuto il merito di aver fatto capire, a
proposito della rivoluzione galileiano-cartesiana, «che cosa
significasse pensare scientificamente in un periodo in cui i canoni del
pensiero scientifico erano molto diversi da quelli in uso al giorno
d’oggi». Koyré, per Kuhn, aveva inaugurato una storia della scienza che
avrebbe cambiato anche la nostra visione filosofica della scienza stessa
(in senso “kantiano”, e anche un po’ platonico): non più una storia di
“precursori”, né di ricercatori dediti esclusivamente all’osservazione e
all’accumulazione di dati tramite l’applicazione di un “Metodo” sicuro,
ma una storia nientaffatto lineare di idee e di teorie in conflitto, di
problemi e di criteri che mutano, di visioni del mondo e di idealità
che, nel loro avvicendarsi, è come se di epoca in epoca ci facessero
abitare mondi diversi. Tra gli anni ’50 e ’60, Koyré diviene la figura
più influente e “rivoluzionaria” nella storia della scienza, proponendo
un nuovo genere di analisi concettuale non incentrata sul singolo
scienziato, ma sul più generale contesto scientifico, metafisico e
soprattutto religioso, che fa da cornice e presupposto alle teorie.
Ma
la biografia intellettuale che ci presenta Paola Zambelli, ricca di
informazioni di prima mano tratte da un lavoro d’archivio costantemente
ispirato da curiosità (e “impertinenza”) filosofica, non ci parla
soltanto dello storico, e ritrae un Koyré in cui si specchiano le
vicende e le preoccupazioni di un intero secolo. Koyré nasce nel 1892
nella Russia zarista da una ricca famiglia di commercianti, studia a
Rostov, Tiblisi e Odessa, in gioventù è di idee grosso modo trotzkiste e
viene arrestato due volte, una perché sospettato di essere un
terrorista. Nel 1908 è a Gottinga a seguire le lezioni di Husserl, e dal
1912 si stabilirà definitivamente a Parigi, anche se continuerà a
spostarsi in tutta Europa (e al Cairo, e in Siria), e poi negli Stati
Uniti, prima di tornare a Parigi dove morirà nel 1964. Hannah Arendt,
con cui Koyré ebbe una tenera amicizia negli anni dell’esilio americano,
lo definì «un ebreo russo, sbattuto in Francia e del tutto
francesizzato, eppure ancora interamente ebreo russo». La sua filosofia è
all’insegna dell’indelebile lezione del suo maestro Husserl (ma anche
di Scheler e di Gilson, di Lévi-Bruhl e di Durkheim, di Meyerson e di
Bachelard); i suoi interessi intellettuali sono i più diversi, da quelli
degli anni della sua formazione in cui si occupava di fondamenti della
matematica a quelli per le grandi novità della fisica del Novecento
(ispirati da un serrato confronto con Bergson e con Minkowski), a quelli
sui mistici e «sui miracoli e le qualità occulte» che gli ispireranno
la sua originale presa di posizione sull’eredità della filosofia
classica tedesca, da Boehme a Hegel, che influenzerà profondamente i
lavori “hegeliano-esistenzialisti” degli amici Wahl e Kojève. Dun
que,
non solo storia della scienza e della filosofia e presenza costante di
Koyré nei dibattiti filosofici dell’epoca; ma anche tormentati rapporti,
esistenzialmente sofferti, con i “socialisti rivoluzionari” russi, con
gli ebrei (sionisti e non), con il gaullismo, con le due guerre. E
soprattutto un itinerario della mente e dell’anima (termine che Koyré,
come Dilthey, preferiva a spirito, troppo compromesso col razionalismo,
troppo poco passionale) che, dai primi studi in Russia, ai quattro anni
trascorsi all’università di Gottinga, ai soggiorni e all’insegnamento a
Parigi, fino all’esilio in America, mappa l’intera storia e geografia
culturale del “secolo breve”. Un ebreo errante, ci dice Zambelli, un
cosmopolita dall’identità sfuggente; sia perché quelli entre duex
guerres furono anni difficili per un emigrante, segnati da intolleranze
politiche e ideologiche che potevano consigliarlo talvolta a procedere
larvatus, sia perché il suo pensiero è in continua evoluzione, si imbeve
di conoscenze e dell’insegnamento vivo delle figure più grandi del suo
secolo, purtuttavia sempre nell’originalità e nell’indipendenza del
proprio giudizio. Lo dimostra il suo rapporto con Heidegger, che pure
aveva contribuito a far conoscere in Francia, ma del quale denunciò
subito anche il nazismo; e in merito alla cui filosofia poi, quando
l’attrazione per il suo l’“esoterismo” nella coscienza dei contemporanei
gli parve passare il segno, scrisse, ammonendo a futura memoria, che
spesso «la diffusione di una dottrina filosofica è funzione diretta del
numero di controsensi che si possono commettere a suo proposito». E
neanche da Bergson, il filosofo più noto al suo tempo, si lasciò
attrarre incondizionatamente. Mostrò di apprezzarne il linguaggio nuovo e
l’innegabile contributo a sradicare la definizione aristotelica di
tempo e spazio dal senso comune e dalle categorie del pensiero
scientifico e filosofico corrente, ma non fu bergsoniano; lo fa capire
Zambelli sottolineando che quando Koyré sarà attivo in Francia negli
anni della prima guerra mondiale, «non figurerà nel gruppo bergsoniano
(come Le Roy, ma anche Peguy, Proust e altri letterati), bensì in quello
dei sociologi che si richiamavano a Durkheim e facevano capo a
Lévi-Bruhl».
E ritengo che sia stato questo suo non appartenere a
nessuna scuola o tradizione, questo suo riuscire a “tradurre” (da
intendere anche alla lettera, perché Koyré tradusse dal tedesco al
francese, e viceversa) e far comunicare tra loro le filosofie con cui si
confrontava, a farlo chiamare alla New School for Social Research di
New York, in una «piazzaforte del pragmatismo», dove la sua alacre
attività avrebbe poi favorito l’innesto di una vera e propria scuola
fenomenologica. Ce lo rivela Alvin Johnson, il direttore della scuola
(che pure aveva intimato neppure tanto scherzosamente ad Alfred Schutz
«don’t try to teach my children phenomenology!»), in una lettera di
grande onestà: «Può darsi che noi esageriamo pesantemente [ad assumere]
filosofi, ma siamo una nazione terribilmente debole in questo campo.
Tutti questi tedeschi, francesi, belgi, polacchi, russi pieni di
dinamismo metteranno qui in scena una vera rinascita della filosofia»;
riconoscendo poi a Koyré una qualità fondamentale per gli americani: di
esser «chiaro come il cristallo se lo confrontiamo con i fenomenologi
tedeschi»! E Koyré si troverà benissimo prima a New York e poi a
Princeton, tanto da confessare che se non avesse avuto «una specie di
legame che lo obbligava a non lasciare Parigi», sarebbe rimasto là.
Viene da riflettere su come le ibridazioni, le commistioni anche
spregiudicate di tradizioni, più che la coltivazione conservativa della
propria, siano state sempre il motore della crescita intellettuale nel
segno di una autentica modernità. Una modernità che Koyré ha saputo
teorizzare, insegnare e esemplarmente vivere.
Paola Zambelli, Alexandre Koyré in incognito , Firenze, Olschki, pagg. 290, € 32