domenica 10 luglio 2016

Il Sole Domenica 10.7.16
La religiosità in Shakespeare
William il misericordioso
Alcuni suoi personaggi insegnano che l’uomo è capace d’amore e pietà, benché la condizione umana sia miseria, vizio, angoscia e solitudine
di Gianfranco Ravasi s.j.

Mi è stato chiesto da alcuni perché non sono intervenuto in quest’anno shakespeariano sul «grande che fa sentire grande ogni uomo», come lo definiva Chesterton. La domanda ha un senso perché è indubbio che nel cuore delle sue opere pulsa anche un’anima religiosa, di là dalla sua appartenenza o meno al cattolicesimo, secondo alcuni attestata dal fatto che fu sepolto in un cimitero cattolico e convalidata, in maniera più sottile, dal ricorso – nelle sue composizioni più tarde – forse alla versione inglese di una Bibbia cattolica, quella di Douai-Reims, stando almeno all’ipotesi di quello straordinario anglista, filologo e interprete che è Piero Boitani. È proprio a questo maestro che dobbiamo uno splendido libro come il Vangelo secondo Shakespeare (Il Mulino 2009), al quale sarei in grado solo di attingere e non certo di aggiungere altro.
Ho, però, pensato di raccogliere lo stesso la sollecitazione, anche perché in passato avevo fatto una piccola incursione nel Re Lear per una sua comparazione con un altro capolavoro, il biblico libro di Giobbe. Tuttavia, sono consapevole dell’immensità di un simile autore, davanti al quale si smarrisce anche il teologo. Egli, infatti, ci ha lasciato una sorta di oceano testuale ove si agitano le onde del bene e del male, del comico e del tragico, dell’amore e dell’odio, dello splendore e della tenebra, del riso e delle lacrime. Per questo è arduo cercare di definire il volto spirituale di Shakespeare, sia pure descrivendone un solo lineamento, perché si corre sempre il rischio di balbettare di fronte a una tale vastità di pensieri, emozioni, azioni, simboli.
Egli è consapevole – come confessa il suo Amleto – che l’uomo è «un’opera d’arte»: «Come è nobile in virtù della ragione! Quali infinite facoltà possiede! Come somiglia a un angelo per le azioni e a un dio per la facoltà di discernere! È per la bellezza del mondo ed è il paragone degli animali. Eppure per me non è che quintessenza di polvere. L’uomo non mi attrae». Dalle vette dell’esaltazione si scivola, così, nel grembo oscuro del non-senso. È ciò che viene aspramente dichiarato da Macbeth in una delle più potenti e drammatiche rappresentazioni dell’esistenza umana: «La vita non è che un’ombra che cammina. Un povero attore che si agita e si pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di fervore e senza alcun significato». Eppure la persona umana ha una straordinaria capacità di trascendere il suo limite attraverso l’amore, come proclama Giulietta al suo Romeo: «Il mio cuore ... il mio amore ... più te ne concedo più ne possiedo, perché l’uno e l’altro sono infiniti».
Ho, così, pensato di evocare in questo centenario shakespeariano che cade nell’anno giubilare della misericordia proprio questa virtù, che agli occhi del poeta di Stratford-upon-Avon ha un profilo persino eroico, pur nella sua silenziosa manifestazione: chi non ricorda la nascosta e sobria testimonianza di amore della Cordelia del Re Lear, o la discreta e incompresa tenerezza della Desdemona dell’Otello? Certo, lo sguardo di Shakespeare penetra soprattutto nel groviglio velenoso delle serpi dell’odio perché – come afferma il duca Prospero della Tempesta – «più raramente ci si risolve al perdono che non alla vendetta». E terribile è il dialogo nel Riccardo III tra il protagonista e la regina Anna. Costei implora: «Per Dio, anche le belve sanno in certi momenti provare pietà». E Riccardo: «Ma proprio perché io non sono una belva, quel sentimento non mi tocca».
Eppure l’uomo, come insegnano non pochi personaggi che affollano le scene create da Shakespeare, può essere capace di donazione e d’amore, nonostante il forte accento che il poeta riserva sempre alla miseria umana, all’angoscia, al vizio, alla solitudine. D’altronde, la storia ci insegna che «le cattive azioni degli uomini vivono nel bronzo, mentre quelle virtuose le scriviamo nell’acqua» (così nell’Enrico VIII), eppure esse sono molte di più, anche se nascoste e dimenticate. Ecco perché la giustizia divina spesso irrompe nella storia, come attestano molte trame dei drammi shakespeariani. Questa giustizia ha, però, un ultimo grado d’appello. È ciò che viene proclamato soprattutto nel IV atto del Mercante di Venezia: «La misericordia è sopra il potere degli scettri. Essa ha il suo trono nel cuore dei re ed è un attributo di Dio stesso. Il potere terreno appare più simile a quello divino quando la misericordia tempera il giudizio».
Da un lato, infatti, l’ebreo Shylock, implacabile nell’esigere la libbra di carne del nemico Antonio, incarna la norma etico-legale del taglione, lapidaria nella sua stessa formulazione biblica: «Vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido» (Esodo 21,23-25). Una norma “giusta”, checché se ne dica e nonostante il suo dettato brutale, perché basata sulla giustizia retributiva. Ma, d’altro lato, Shakespeare è consapevole che esiste un primato morale e religioso che trascende la stessa giustizia e la legge. È ciò che afferma Porzia, travestita da avvocato difensore col nome di Baldassarre, rivolgendosi proprio a Shylock: «Anche se è giustizia quello che chiedi, considera questo: seguendo la sola giustizia, nessuno di noi conoscerebbe la salvezza. Noi chiediamo misericordia e questa invocazione insegna a noi tutti a praticarne gli atti».
Ecco, dunque, la quality of mercy, quel perdono che è l’anima della misericordia e che Shakespeare celebra ponendo sempre sulle labbra di Porzia/Baldassarre questa sorta di canto: «La natura della misericordia è spontanea; cade come la dolce pioggia dal cielo in basso sulla terra; è due volte benedetta perché benedice colui che la esercita e colui che la riceve; è più potente dei potenti e si addice al re in trono più della sua corona». Se Dio dovesse adottare il metro esclusivo della giustizia, noi saremmo annientati. È ciò che il grande drammaturgo professa in un passo di un’opera meno nota, Misura per misura, più o meno contemporanea della suprema trilogia Otello - Re Lear - Macbeth (1604-06): «Cosa sareste voi se Dio, al culmine della giustizia, dovesse giudicarvi quali siete? Pensate a questo e la misericordia respirerà dalle vostre labbra come l’uomo appena creato».
Quella grandiosa architettura narrativa e tematica che è la Tempesta – quasi certamente tra le ultime opere di Shakespeare – alla fine si risolve in un atto di conversione e di perdono perché il prevaricatore Antonio si pente e il fratello Prospero lo perdona così da impedire che la vendetta conduca alla disperazione e alla morte. È interessante notare che uno dei più originali registi del teatro inglese, in particolare shakespeariano (come non ricordare la sua anticonvenzionale messa in scena del Sogno di una notte di mezza estate del 1968?), Peter Brook, abbia intitolato un suo saggio proprio con quella quality of mercy che abbiamo visto essere il filo rosso che dipana il dramma veneziano e la sua dialettica tra giustizia e misericordia.