mercoledì 6 luglio 2016

Il Sole 6.7.13
La strada stretta per correre ai ripari
di Adriana Cerretelli

L’economia è globalizzata, il Doha Round è morto insieme alle intese commerciali multilaterali, ormai dovunque sostituite in modo sistematico dai grandi accordi regionali bilaterali.
Dopo aver battuto con convinzione questa nuova strada, come gli Stati Uniti, incredibile ma vero ora l’Europa innesta la marcia indietro e rema contro la storia. Una farsa? No.
Per scardinare la sua politica commerciale comune, comincia dalla rinazionalizzazione delle ratifiche parlamentari. Ma, per farsi ancora più male, sceglie forse il miglior accordo di libero scambio mai stipulato finora: quello con il Canada, il Ceta, con il rischio di avviarlo su un binario morto dopo cinque anni di negoziati e risultati molto soddisfacenti.
Azzeramento di quasi tutti i dazi industriali, apertura del mercato dei servizi e degli appalti pubblici a tutti i livelli di governo, mutuo riconoscimento delle qualifiche professionali, alto livello di protezione per ben 140 indicazioni geografiche europee, come per gli investimenti. Regole a tutela dei diritti del lavoro e dell’ambiente: queste alcune delle grandi promesse di un’intesa provvidenziale per un’Unione che non cresce abbastanza e ha vitale bisogno di nuovi mercati di sbocco per le sue esportazioni.
Invece no. «Per ragioni democratiche», in parole meno ermetiche per non spiacere a anti-mondialisti e populisti vari, sul piede di guerra contro il Ceta per colpire il Ttip, cioè l’analoga ma molto più complessa operazione di liberalizzazione degli scambi con gli Stati Uniti (che comunque è arenata sul disaccordo), la maggioranza dei Paesi Ue, compresi i grossi calibri come Germania, Francia, Olanda, Austria e Belgio, ha scelto di assecondare gli istinti più irrazionali di una parte della propria opinione pubblica, anche a costo di mandare in fumo un accordo molto proficuo. L’anno prossimo ci saranno elezioni difficili all’Aja, a Parigi e a Berlino: nessun governo può permettersi di perdere voti. Quindi non guarda al prezzo: che è collettivo sotto tutti gli aspetti ma evidentemente in questo caso non importa.
In gioco c’è anche la credibilità dell’Europa come interlocutore di peso sulla scena internazionale, c’è la certezza dei patti che negozia e stipula con i suoi potenziali partner. Una perdita di tempo? Non è escluso.
Aveva difeso a spada tratta, all’ultimo vertice di Bruxelles, i suoi poteri in materia commerciale come le regole per la ratifica degli accordi: avrebbe dovuto essere tutta europea, cioè limitata a Consiglio dei ministri Ue e europarlamento. Ieri invece la Commissione Juncker, nonostante sia il garante del rispetto dei Trattati, non ha avuto il coraggio di tirare dritto di fronte all’assalto dei pesi massimi.
Ha quindi abbozzato proponendo la ratifica “mista”, cioè la formula che richiede l’unanimità dei consensi, non di 28 ma di ben 38 parlamenti nazionali, compresi quelli regionali, 6 per il Belgio. La Vallonia ha già annunciato il suo no. Bulgaria e Romania faranno lo stesso se non otterranno dal Canada visti liberi per i loro cittadini. Rinazionalizzando le ratifiche, dunque, non solo si espone l’accordo a una procedura incerta e lunghissima ma si affidano al caos le sorti e il futuro della politica commerciale comune europea. Una conquista.
Non se ne sentiva davvero il bisogno con Brexit che trascina l’Europa nel suo gioco al salto senza rete e senza limiti nei tempi e nei modi. Non se ne sentiva il bisogno perché, dopo un altro referendum consultivo ai primi di aprile, già l’Olanda aveva pensato bene di votare no al Trattato Ue di associazione con l’Ucraina già ratificato dai 28 parlamenti dell’Unione, compreso il suo.
Altro durissimo colpo alla credibilità dei patti internazionali e alla certezza del diritto in Europa. Nonostante la bassa affluenza, il governo Rutte ha infatti deciso di piegarsi al verdetto popolare. L’accordo con Kiev è però entrato in vigore in via provvisoria, in attesa di trovare una soluzione al pasticcio giuridico che si è creato.
Ora la Commissione spera di ricorrere allo stesso espediente per tenere in vita l’intesa con il Canada, che dovrebbe essere firmata in ottobre. Per riuscirci ha però bisogno del voto a maggioranza dei ministri del Commercio dei 28. Ci sarà?
Nell’attesa, resta la pessima figura, perfino reiterata, di un’Europa che si piega davanti ai propri populismi senza nemmeno tentare di contrastarne, prove alla mano, posizioni spesso demagogiche, infondate, frutto di partiti presi o di plateali falsità. E poi ci si lamenta della levità politica dell’Unione, della sua voce atona nei consessi mondiali.