Il Sole 6.7.13
La strada stretta per correre ai ripari
di Adriana Cerretelli
L’economia
è globalizzata, il Doha Round è morto insieme alle intese commerciali
multilaterali, ormai dovunque sostituite in modo sistematico dai grandi
accordi regionali bilaterali.
Dopo aver battuto con convinzione
questa nuova strada, come gli Stati Uniti, incredibile ma vero ora
l’Europa innesta la marcia indietro e rema contro la storia. Una farsa?
No.
Per scardinare la sua politica commerciale comune, comincia
dalla rinazionalizzazione delle ratifiche parlamentari. Ma, per farsi
ancora più male, sceglie forse il miglior accordo di libero scambio mai
stipulato finora: quello con il Canada, il Ceta, con il rischio di
avviarlo su un binario morto dopo cinque anni di negoziati e risultati
molto soddisfacenti.
Azzeramento di quasi tutti i dazi
industriali, apertura del mercato dei servizi e degli appalti pubblici a
tutti i livelli di governo, mutuo riconoscimento delle qualifiche
professionali, alto livello di protezione per ben 140 indicazioni
geografiche europee, come per gli investimenti. Regole a tutela dei
diritti del lavoro e dell’ambiente: queste alcune delle grandi promesse
di un’intesa provvidenziale per un’Unione che non cresce abbastanza e ha
vitale bisogno di nuovi mercati di sbocco per le sue esportazioni.
Invece
no. «Per ragioni democratiche», in parole meno ermetiche per non
spiacere a anti-mondialisti e populisti vari, sul piede di guerra contro
il Ceta per colpire il Ttip, cioè l’analoga ma molto più complessa
operazione di liberalizzazione degli scambi con gli Stati Uniti (che
comunque è arenata sul disaccordo), la maggioranza dei Paesi Ue,
compresi i grossi calibri come Germania, Francia, Olanda, Austria e
Belgio, ha scelto di assecondare gli istinti più irrazionali di una
parte della propria opinione pubblica, anche a costo di mandare in fumo
un accordo molto proficuo. L’anno prossimo ci saranno elezioni difficili
all’Aja, a Parigi e a Berlino: nessun governo può permettersi di
perdere voti. Quindi non guarda al prezzo: che è collettivo sotto tutti
gli aspetti ma evidentemente in questo caso non importa.
In gioco
c’è anche la credibilità dell’Europa come interlocutore di peso sulla
scena internazionale, c’è la certezza dei patti che negozia e stipula
con i suoi potenziali partner. Una perdita di tempo? Non è escluso.
Aveva
difeso a spada tratta, all’ultimo vertice di Bruxelles, i suoi poteri
in materia commerciale come le regole per la ratifica degli accordi:
avrebbe dovuto essere tutta europea, cioè limitata a Consiglio dei
ministri Ue e europarlamento. Ieri invece la Commissione Juncker,
nonostante sia il garante del rispetto dei Trattati, non ha avuto il
coraggio di tirare dritto di fronte all’assalto dei pesi massimi.
Ha
quindi abbozzato proponendo la ratifica “mista”, cioè la formula che
richiede l’unanimità dei consensi, non di 28 ma di ben 38 parlamenti
nazionali, compresi quelli regionali, 6 per il Belgio. La Vallonia ha
già annunciato il suo no. Bulgaria e Romania faranno lo stesso se non
otterranno dal Canada visti liberi per i loro cittadini.
Rinazionalizzando le ratifiche, dunque, non solo si espone l’accordo a
una procedura incerta e lunghissima ma si affidano al caos le sorti e il
futuro della politica commerciale comune europea. Una conquista.
Non
se ne sentiva davvero il bisogno con Brexit che trascina l’Europa nel
suo gioco al salto senza rete e senza limiti nei tempi e nei modi. Non
se ne sentiva il bisogno perché, dopo un altro referendum consultivo ai
primi di aprile, già l’Olanda aveva pensato bene di votare no al
Trattato Ue di associazione con l’Ucraina già ratificato dai 28
parlamenti dell’Unione, compreso il suo.
Altro durissimo colpo
alla credibilità dei patti internazionali e alla certezza del diritto in
Europa. Nonostante la bassa affluenza, il governo Rutte ha infatti
deciso di piegarsi al verdetto popolare. L’accordo con Kiev è però
entrato in vigore in via provvisoria, in attesa di trovare una soluzione
al pasticcio giuridico che si è creato.
Ora la Commissione spera
di ricorrere allo stesso espediente per tenere in vita l’intesa con il
Canada, che dovrebbe essere firmata in ottobre. Per riuscirci ha però
bisogno del voto a maggioranza dei ministri del Commercio dei 28. Ci
sarà?
Nell’attesa, resta la pessima figura, perfino reiterata, di
un’Europa che si piega davanti ai propri populismi senza nemmeno tentare
di contrastarne, prove alla mano, posizioni spesso demagogiche,
infondate, frutto di partiti presi o di plateali falsità. E poi ci si
lamenta della levità politica dell’Unione, della sua voce atona nei
consessi mondiali.