Il Sole 15.7.16
Dalla Francia alla Siria. Da un patto militare contro l’Isis sia Mosca che Washington puntano a guadagnare qualcosa
L’importanza di una nuova Yalta
di Alberto Negri
Il
 dramma di Nizza ha colto Russia e Stati Uniti impegnati a rilanciare il
 Great Game, il grande gioco. Come a ricordare, una volta di più, quanto
 sia necessaria la collaborazione tra Mosca e Washington per tentare di 
aggredire il mostro del terrorismo.
Nelle 
ore in cui il segretario di Stato americano, John Kerry, si trovava a 
colloquio con Vladimir Putin al Cremlino, era presto per dire se tra 
russi e americani ci sarà una Yalta del Medio Oriente. Ma il sentore di 
spartizione in zone di influenza si sente da lontano. La Russia ha 
salvato la pelle ad Assad e aiutato l’Iran, alleato storico di Damasco, 
gli Stati Uniti devono salvare la faccia della Turchia e dell’Arabia 
Saudita, i veri perdenti della guerra in Siria: in termini brutali 
questo è il senso della trattativa Washington-Mosca, che in un possibile
 patto militare contro l’Isis puntano entrambi a guadagnarci qualche 
cosa, riposizionare gli alleati e soprattutto limitare le perdite 
militari.
Gli Stati Uniti non vogliono fare 
costose figuracce nel pieno della campagna presidenziale, la Russia 
vuole evitare di restare impantanata in un altro Afghanistan, ne ha 
avuto già uno e le è bastato. Ma sono soprattutto i popoli della regione
 che in questa partita si stanno giocando il futuro, cent'anni dopo gli 
accordi di Sykes-Picot tra britannici e francesi. Esisteranno ancora una
 Siria e un Iraq? Dove finiranno minoranze come cristiani e yezidi? Si 
troverà un modus vivendi tra sciiti e sunniti? E i curdi avranno qualche
 cosa di simile a uno stato? Mai come oggi il Grande Medio Oriente 
affronta la disgregazione in un labirinto di cambi di regime, primavere 
arabe fallite, jihadismi, resistenze autocratiche e velleitari giochi di
 potenza.
L’aspetto sensazionale della 
vicenda è che ci voleva una guerra “bollente” con 300mila morti, milioni
 di profughi e il terrorismo in casa anche in Europa per affrontare i 
nodi della nuova guerra “fredda” tra l’Ovest e la Russia. Ma era nella 
natura geopolitica delle cose: la Siria è una sorta di Jugoslavia araba,
 con basi russe da decenni, e Putin da subito ha reso chiaro che i tempi
 erano cambiati e non sarebbe finita come la Serbia di Milosevic. Non 
sempre un mondo ex come quello baathista e alauita di Assad, per quanto 
fuori dalla storia, sparisce solo perché lo hanno deciso dei ricchi 
emiri con l’assenso dei loro clienti occidentali. Ha anche un certo 
significato che sia stato annunciato a un anno esatto dall'accordo di 
Vienna sul nucleare con l’Iran che rischia di incepparsi per i timori 
che la nuova amministrazione Usa possa ripristinare le sanzioni.
E
 da notare che questa volta gli eventi non si succedono a sorpresa ma 
dopo una fitta trama diplomatica. Sono stati preceduti dalla ripresa 
delle relazioni Turchia-Israele e dalla distensione dei rapporti tra 
Erdogan e Putin mediata da Tel Aviv e dagli americani. Israele oggi 
tratta quotidianamente con Mosca perché la Russia è uno dei possibili 
garanti del contenimento di Teheran e degli Hezbollah libanesi. Non c’è 
più solo la “protezione” Usa in Medio Oriente, un fattore valutato 
attentamente anche dai sauditi e dagli egiziani mentre si prepara la 
conferenza sulla questione palestinese di fine anno.
Ancora
 più significativo è che russi e americani stiano trattando da mesi. I 
russi avevano già proposto agli americani di coordinare gli sforzi 
militari nel Nord della Siria ma gli Usa non avevano accettato. A loro 
volta gli americani hanno suggerito a Mosca una tacita separazione tra 
una zona di influenza Usa a Nord e una russa al Centro-Sud. Inoltre 
Washington avrebbe cercato di limitare la guerra al terrorismo soltanto 
al Califfato lasciando fuori al-Nusra e al-Qaeda, sostenuti da turchi e 
sauditi, per poi usare queste forze jihadiste in chiave anti-Assad e 
anti-Iran. Dinamiche che possono apparire secondarie ma entrano nel 
cuore della questione militare, degli assedi di Raqqa, Aleppo, Mosul, e 
che definiranno un giorno zone di influenza e soluzioni politiche.
Perché
 questo “Great Game” Usa-Russia ci interessa? Per ovvi motivi di 
sicurezza - come ricorda Nizza - migrazioni e vicinanza, perché l’Italia
 schiera contingenti in Iraq e in Libano, e ha canali aperti con Assad. 
Ma soprattutto perché il disgelo tra russi e americani sulla Siria può 
avere riflessi sulla Libia e sulla crisi con l’Egitto per il caso 
Regeni: per un Paese vulnerabile come il nostro si aprono opportunità 
diplomatiche da non sottovalutare.
 
