Il Sole 14.7.16
Accordi sospesi, garanzie bloccate: tradite le promesse del disgelo con l’Iran
L’anniversario
dell’accordo sul nucleare. Il timore che un cambio di presidenza negli
Stati Uniti riporti le sanzioni sta frenando i progetti nati dalla
riapertura delle relazioni economiche
di Alberto Negri
Teheran.
Le aspettative erano alte, forse troppo. A prima vista l’accordo sul
nucleare firmato a Vienna il 14 luglio di un anno fa dal Cinque più Uno
ha deluso un po’ tutti. Con la fine delle sanzioni gli iraniani,
nonostante il raddoppio dell’export di petrolio, speravano in un decollo
economico che non è ancora arrivato; l’America di Obama pensava di
trovare una nuova sponda in Medio Oriente superando l’opposizione dei
falchi del Congresso, Israele e Arabia Saudita; i businessmen europei
anelavano a un nuovo Eldorado di affari che compensasse le perdite del
mercato russo.
Non è stato così e per una ragione fondamentale.
Tutti temono che con il cambio di presidenza in Usa vengano reimposte
sanzioni finanziarie alla Repubblica islamica. Ma questa è una partita
doppia assai pericolosa, fuori e dentro l’Iran. «Dovremo lavorare molto
in questi mesi se vogliamo rivincere le prossime elezioni presidenziali e
portare a casa risultati convincenti: nelle piazze il populismo dell’ex
presidente Ahmadinejad, con gli ultraconservatori, è partito
all’attacco delle nostre posizioni moderate», dice Mohammed Mohammadi,
stretto consigliere del presidente Hassan Rohani.
Il sistema
bancario è sotto scacco: «Nessun istituto di credito occidentale ha
ancora finalizzato un accordo di finanziamento con le controparti
iraniane, e nessuna agenzia di credito all’esportazione ha definito con
Teheran un’intesa sulle garanzie sovrane che comprenda i rischi di nuove
sanzioni», fa notare l’ambasciatore italiano Mauro Conciatori, grande
tessitore dei rapporti con gli iraniani e speaker al seminario di
direttori di sistema di Confindustria in corso a Teheran. Per sbloccare
la situazione si sta preparando la strada a una missione in Iran del
ministro dell’Economia, Per Carlo Padoan.
Ecco perché le
mirabolanti cifre di cui si parla a proposito dei progetti in Iran
restano virtuali: ci sono grandi opportunità ma nessuno è scattato dai
blocchi di partenza. Così langue il mercato di un Paese di 80 milioni di
abitanti con 400 miliardi di dollari di Pil, superiore a quello di
Algeria, Libia, Marocco e Tunisia messe insieme e un potenziale per
l’export italiano dieci volte superiore quello attuale.
Il menù è
attraente: autostrade, ferrovie ad alta velocità, ospedali,
infrastrutture urbane. Una sorta di “master plan” per riammodernare il
Paese. Gli iraniani hanno approvato gran parte dei piani presentati
dalle aziende italiane, ma la sfera bancaria e finanziaria gira a una
velocità assai inferiore al libro dei sogni. Gli iraniani chiedono di
chiudere gli accordi ed evocano, per fare pressioni, la presenza dei
concorrenti internazionali (alcuni fantomatici, altri reali come i
cinesi). Gli europei vorrebbero firmare ma non hanno le garanzie
bancarie. Il nodo è la “sanction clause”: cosa accade se tornano le
sanzioni? L’erogazione dei crediti verrebbe sospesa ma sono incerti i
tempi di restituzione di crediti.
La questione è politica. Rohani
ha tracciato una linea rossa: nessun collegamento tra sanzioni e
recupero dei crediti, nessun meccanismo che possa facilitare il ritorno
di un embargo finanziario. Lo “snap back”, il ripristino delle sanzioni,
è possibile in ogni momento: basta che un membro permanente del
Consiglio di Sicurezza dell’Onu riporti una violazione e si torna al
sistema di prima. Il governo Rohani ha accettato la clausola ed è
esattamente il motivo per cui è tenuto sotto tiro dai conservatori più
radicali. Che stanno facendo ostruzionismo anche sui nuovi contratti
petroliferi che dovrebbero schiudere condizioni più favorevoli alle
compagnie, Eni compresa.
In poche parole chiunque nel Consiglio di
Sicurezza può strangolare l’Iran, soffocare gli investimenti stranieri e
le chance di restare in sella del governo moderato di Rohani che il
prossimo anno affronta nuove elezioni. Alle municipali di marzo il
presidente ha colto un’affermazione confortante che potrebbe rivelarsi
effimera in un Paese dove l’ala dura controlla le leve del potere, e i
Pasdaran coltivano ambizioni politiche, oltre che dirigere l’apparato
militare e di sicurezza.
Il caso Iran pone una questione: perché
il Medio Oriente genera più problemi che opportunità? È una domanda che
dovremmo girare ai protagonisti regionali ma anche agli Stati Uniti e a
una politica estera che ha provocato un disastro dopo l’altro, a partire
dalla guerra in Iraq del 2003. L’accordo con l’Iran sembrava segnare un
cambio di rotta. La Repubblica islamica ha certamente molte colpe, ma
gli Usa hanno appoggiato Stati anche peggiori come l’Arabia, che ha
fomentato con il wahabismo la più retrograda e radicale ideologia
islamica. Washington ha dato il via libera alla Turchia per riempire la
Siria di jihadisti, e ora dopo l’intervento di Mosca deve affannarsi per
salvare la faccia di un alleato della Nato spericolato e di una
dinastia saudita impantanata anche in Yemen.
Se dopo Rohani avremo
a Teheran qualche esponente più duro sappiamo a chi rivolgerci. La vera
colpa dell’Iran sciita non è solo aver sostenuto la Siria - unica
nazione araba che aiutò Teheran dopo l’attacco di Saddam nell’80 - ma di
opporsi a un sistema che prevede le capitolazioni, non l’indipendenza
degli Stati e la loro dignità. Rohani potrebbe essere la prossima
vittima di un’agenda dove alla disgregazione mediorientale in atto si
accompagna quella possibile dell’Europa.