martedì 12 luglio 2016

Il Sole 12.7.16
Il trauma del 2008 non è superato
di Paolo Bricco

Il 2016 doveva essere l’anno della verità. E la verità, almenoper ora, non è né consolatoria né rassicurante. Gli ultimi dati Istat sulla produzione confermano, in merito allo scenario evolutivo del nostro sistema manifatturiero, lo scetticismo della ragione e lo spaesamento del cuore.
Il motore industriale del Paese continua a muoversi con estrema lentezza. In un numero limitato di segmenti accelera. Nella maggioranza dei casi resta impiantato e raggiunge a fatica un risultato onorevole, come la Ferrari di Sebastian Vettel sul circuito di Silverstone. Qualche volta addirittura frena, “scoda” e finisce fuori pista. Non vi è stato un recupero sostanziale, in un quadro segnato traumaticamente dalla perdita del potenziale produttivo italiano, stimata da Sergio De Nardis in un quinto dal 2007, ultimo anno prima della recessione. Certo, nelle statistiche congiunturali dell’Istat si trovano gli stessi segnali deboli – interessanti ma singoli, rasserenanti ma per certi versi “atomizzati” – che si colgono in non poche parti dei rapporti periodici dell’ufficio studi di Banca Intesa diretto da Gregorio De Felice, che sono focalizzati sulle economie di territorio, e nelle analisi della R&S Mediobanca guidata da Gabriele Barbaresco, che sono concentrate sulle medie imprese internazionalizzate, l’élite del nostro capitalismo. È vero. Alcune economie di territorio si sono riconvertite e, nonostante la compressione e l’azione disgregatrice della recessione, fanno bene sui mercati internazionali. Queste economie di territorio hanno poco a che fare con i vecchi distretti di stampo becattiniano: gli antichi legami sociali spesso sono allentati, l’atmosfera marshalliana non è più la stessa, le imprese leader sono connesse più alle catene globali del valore che non al campanile e alla comunità. Le medie imprese del Quarto Capitalismo, con la loro efficienza spesso pari e talvolta superiore agli standard tedeschi, formano gli snodi che sorreggono l’ordito. Il problema è che questo quadro, dinamico e articolato, non riesce – non è ancora riuscito - a farsi lievito e a diventare sistema, non ce la fa – non ce l’ha ancora fatta - a trasformare dall’interno un tessuto manifatturiero che, per non inabissarsi, negli ultimi otto anni ha tagliato i costi e ridotto gli investimenti e ha fatto un ricorso (diciamo) non episodico agli strumenti di gestione ordinaria e straordinaria delle crisi. La scorsa settimana l’Economist ha messo in copertina il problema delle banche italiane. Senza entrare nel merito di un occhio anglosassone che sulle nostre vicende è sovente insieme miope e presbite, di certo la violenta crisi sperimentata dai nostri istituti di credito rischia di formare l’arteria attraverso cui potrebbe diffondersi, nel nostro organismo industriale, il veleno della deflazione. Negli ultimi due anni, l’Indice di vulnerabilità alla deflazione elaborato dal Centro Europa Ricerche presieduto da Vladimiro Giacché ha identificato nella caduta degli impieghi la causa preponderante di una elevata probabilità che la febbre deflattiva inizi davvero a salire. Nel contesto delineato mese dopo mese dall’Istat, che attraverso l’indicatore della produzione mostra la difficoltà del sistema industriale nel suo insieme a rimettersi in moto, una riduzione del credito potrebbe davvero trasformarsi nell’acqua al posto del carburante, con un motore che alla fine si imballa. Non è un passaggio semplice. Serve consapevolezza, nella classe dirigente economica e politica. Serve identità. Tempi difficili. Ma, anche, grandi speranze per una industria che, nella sua storia, ha spesso volato come il calabrone quando non avrebbe dovuto farlo.