Il Sole 10.7.16
Europa dopo Brexit
La visione federale contro il rischio disintegrazione
di Sergio Fabbrini
Brexit
sta portando la Gran Bretagna all’anarchia (come ha scritto
l’Economist), ma sta anche dividendo l’Unione europea. L’anarchia
britannica è evidente, con le dimissioni in serie di leader politici e
la confusione del Paese sulle strategie da perseguire per avviare
l’uscita dall’Ue. Ma evidenti sono anche le divisioni esplose nell’Ue.
Queste divisioni non coincidono con la semplice frattura tra europeisti e
nazionalisti. Riflettono piuttosto combinazioni diverse di unione e
nazione.
Una prima prospettiva sull’Europa del dopo-Brexit è
quella perseguita da Paesi (dell’Est europeo o del Nord scandinavo) che
vogliono rimanere nel mercato comune a condizione che il suo
funzionamento non metta in discussione le loro sovranità nazionali.
Questa prospettiva si alimenta certamente dei sentimenti nazionalisti,
ma non propone il semplice ritorno allo Stato nazionale del passato.
L’idea è quella di trasformare l’Ue in una comunità economica con
limitate regolamentazioni sovranazionali. Dopo tutto, contrariamente
alla Gran Bretagna, nessuno di quei Paesi dispone di un centro
finanziario globale come la City, o di una rete di relazioni economiche
post-coloniali come il Commonwealth, o di università internazionali come
Oxford e Cambridge. Per crescere, essi hanno bisogno del mercato
europeo, dei finanziamenti europei, delle imprese europee, delle
università europee. L’Ue, insieme alla Nato, ha fornito loro una
sicurezza economica e militare a cui non possono rinunciare. Tuttavia,
seppure riconoscano la loro dipendenza dall’Ue, non accettano che
quest’ultima prenda decisioni che condizionino la loro politica interna.
Quando ciò avviene, rivendicano il potere di nullificarle. L’Ungheria
organizzerà un referendum il 2 ottobre prossimo sulla decisione Ue di
collocare una quota di rifugiati politici nel suo territorio; la
Repubblica Ceca e la Slovacchia hanno minacciato di fare altrettanto; la
Polonia sta preparando azioni di ritorsione contro il Parlamento
europeo e la Commissione europea che hanno criticato le sue scelte
illiberali se non autoritarie.
L’Austria ha rivendicato
l’autonomia di decidere sulla chiusura delle proprie frontiere; la
Danimarca e la Svezia continuano la loro politica di “opt-outs” di fatto
dalle principali politiche decise a Bruxelles.
Nel 1832 la
Carolina del Sud approvò un Atto di Nullificazione contro l’applicazione
(nello Stato) della legge sulle tariffe decisa dal congresso federale.
Fu il segnale della tempesta che si stava avvicinando sull’unione
americana. Tempesta esplosa con la Guerra Civile (1861-65). Questa
prospettiva è tanto mobilitante sul piano politico quanto inconsistente
su quello economico. Non può esistere un mercato comune senza
regolamentazioni sovranazionali. Altrimenti bisogna accontentarsi di una
zona di libero scambio senza fondi strutturali. Se si vuole la botte
piena, è bene che la moglie non si ubriachi.
È di tipo
intergovernativo la più vociferante alternativa alla prospettiva di
un’Ue intesa come pura organizzazione economica. In un’intervista
rilasciata pochi giorni fa alla stampa tedesca, il ministro delle
finanze tedesco Wolfgang Schäuble si candida, e candida il suo Paese, ad
essere il leader della coalizione che vuole fare dell’Ue un’unione
intergovernativa. Per i sostenitori di questa prospettiva
(tradizionalmente la Francia, ma anche Olanda, Finlandia, Portogallo e,
si pensi un po’, la Grecia) l’integrazione deve procedere (e non già
arretrare) senza tuttavia rafforzare le istituzioni e gli attori
sovranazionali. Dice Schäuble: «L’approccio intergovernativo si è
dimostrato efficace durante la crisi dell’Eurozona». Dunque, seguiamo
questo approccio e «se la Commissione non collabora, allora ci
occuperemo noi delle questioni, risolvendo i problemi tra i governi».
La
Germania comunitaria di Adenauer e Kohl è servita: basta con gli
idealisti o con coloro che vogliono rafforzare le istituzioni comuni. Ma
se a decidere sono i governi nazionali, chi li controlla? La risposta
di Schäuble è impietosa: «La domanda se il Parlamento europeo abbia o
meno un ruolo decisivo non è quella che preoccupa la gente». Ma se i
governi nazionali prendono decisioni a nome dell’Ue, come può bastare la
legittimazione individuale che ognuno di essi ha ricevuto dai
rispettivi parlamenti nazionali? Per Schäuble la legittimazione è come
un taxi, che parte da Berlino e giunge a Bruxelles. La prospettiva
intergovernativa ha quindi trascinato con sé la visione
interparlamentare. La decisione del Consiglio e della Commissione di
lunedì scorso, di sottoporre all’approvazione di ben 38 camere
legislative nazionali l’accordo commerciale concluso nel dicembre scorso
con il Canada (il Comprehensive Economic and Trade Agreement o Ceta), è
la conseguenza di tutto ciò.
Ma della prospettiva
intergovernativa fa parte anche la proposta di affidare ad un’agenzia
indipendente (il cosiddetto European Fiscal Council) il controllo delle
politiche fiscali degli Stati membri, sottraendo quel controllo alla
Commissione che recentemente aveva cercato di rivendicare un ruolo
autonomo nell’interpretazione dei trattati e dei patti. E così ne fa
parte la proposta di istituire un ministro europeo delle finanze, scelto
dai ministri nazionali che costituiscono l’Eurogruppo e responsabile
solamente nei loro confronti. Un ministro incaricato di rappresentare,
sulla base di un esclusivo mandato intergovernativo, i cittadini
dell’intera Eurozona in organismi internazionali come il Fondo monetario
internazionale. Quel ministro andrà periodicamente al Parlamento
europeo per informarlo sulle scelte fatte. Ma quest’ultimo non avrà
alcun potere di sanzione nei suoi confronti.
Eppure, fior fiore di
federalisti si sono entusiasmati all’idea di un ministro europeo delle
finanze, senza rendersi conto del tranello in cui si infilavano. Oppure
si sono entusiasmati all’idea del ruolo “europeo” dei Parlamenti
nazionali, senza rendersi conto che la conseguenza è un indebolimento
del Parlamento europeo e la paralisi del sistema decisionale dell’Ue
(come sicuramente avverrà nel caso dell’accordo con il Canada). Per
dirla fuori dai denti, l’unione intergovernativa di Schäuble è
un’organizzazione in cui i governi e i parlamenti dei Paesi più forti
dominano quelli dei Paesi più deboli. Una buona ricetta per la
disintegrazione.
Non si può lasciare il futuro dell’Europa del
dopo-Brexit al confronto tra economicisti e intergovernativi. Mi rendo
conto che il vento non gonfia più le vele della Commissione e del
Parlamento europeo. Mi rendo conto anche che l’inerzia amministrativa
dell’Ue tenderà ad ostacolare drammatici passi indietro. Eppure se non
si sentirà la voce dei leader europei e nazionali con una visione
federale, sarà difficile arrestare la disintegrazione.