il manifesto 9.7.16
La provincia e l'orrore globale
di Giuseppe Buondonno
A
proposito di questa vicenda tragica, accaduta nel posto dove vivo, ha
ragione Don Vinicio Albanesi (della Comunità di Capodarco) quando dice
che spesso: «La provincia è infida», perché copre, smorza, nasconde
anche ambienti violenti, che andrebbero fatti emergere e contrastati con
decisione. Quegli ambienti in cui la sottocultura razzista e neonazista
viene spesso tollerata, considerata un puro fenomeno di costume. Finché
non uccide.
Non è il primo episodio nelle Marche, non lo è a
Fermo: nei mesi scorsi, le esplosioni davanti a chiese i cui parroci
sono impegnati in accoglienza e solidarietà; l’uccisione di due
lavoratori dell’est (che rivendicavano di essere pagati), da parte di un
imprenditore della zona (che poi si è tolto la vita in carcere); tre
anni fa, l’aggressione (sempre da parte di soggetti dello stesso
ambiente fascistoide) contro un ragazzo eritreo; ancor prima, le scritte
razziste contro la mensa della Caritas.
Un crescendo
preoccupante. Ma l’ambiente di provincia attenua, copre. Per questo sono
inopportuni gli inviti ad “abbassare i toni”, quando serve invece
affrontare le contraddizioni, farle emergere. Qualche anno fa ho
sentito, qui a Fermo, a proposito della penetrazione mafiosa, ripetere
da voce autorevole il luogo comune dell’«isola felice», degli «episodi».
Che
altro deve succedere ancora, per capire che, soprattutto nella società
globale, le isole felici non esistono e, semmai, l’ambiente di provincia
presenta più rischi di coltivazione, proprio perché i «toni bassi»
coprono e nascondono? Viene da dire che nelle nostre piccole città la
«banalità del male» è ancor più banale, perché più protetta,
imbozzolata. Di fronte agli episodi (che, quando sono più di uno,
cessano di essere tali), una parte della società civile reagisce, non
c’è dubbio, ma un’altra si precipita ad omaggiare Salvini, che aveva
appena attaccato i progetti Sprar e l’accoglienza dei rifugiati. C’è chi
ha ucciso Emmanuel, ma c’è chi ha soffiato per anni sul fuoco mediatico
e globale del razzismo. E ci sono ambienti sventati e malamente
ideologizzati, nutriti da questa sottocultura dell’intolleranza e,
appunto, della banalità disumanante, spesso «coccolati» da alcuni
ambienti politici; non lo scrivo solo sulla base di un’analisi generale,
ma perché conosco personalmente l’aggressore (in provincia ci si
conosce, quasi tutti).
Questi soggetti assorbono e agiscono, senza
avere gli strumenti per la mediazione necessaria; e se la
responsabilità giuridica è personale e grave, quella politica e morale
non è solo individuale. Nessuna città è, in sé, razzista; Fermo, in
particolare, è stata una culla di solidarietà, come la stessa Capodarco
dimostra; ma senza una controffensiva culturale dura e decisa (altro che
«abbassare i toni») tutte possono diventarlo; perché quella
sottocultura è egemone, e lo è diventata anche grazie ai cedimenti
progressivi e generali.
Mercoledì davanti al Seminario di Fermo,
alla veglia per Emmanuel, mentre Chimiary, distrutta da questa tragedia e
da quelle che l’hanno preceduta nella sua giovane vita, ha cantato in
lingua Igbo parole per il suo sposo ucciso, senza il quale non sa come
continuare a vivere, ho pensato che se gli aggressori di San Benedetto
del Tronto avessero chiesto a lei del Vangelo, avrebbe potuto
spiegarglielo in due o tre lingue. Quando al mattino, davanti al reparto
di rianimazione, l’ ho conosciuta e abbracciata, ho sentito addosso
tutta l’impotenza dell’Europa e della sua storia; ho toccato con mano,
sentendo quelle lacrime, ciò che già sapevo perfettamente: che questo
Paese è peggiorato tanto e continua a peggiorare. Vedo la rabbia
avvilita intorno a me, di quelli che tutti i giorni cercano di costruire
accoglienza e diritti, e sento che l’avvilimento sarà più forte della
rabbia (e persino della coscienza) se non si ricostruisce un fronte, uno
strumento politico vero.
Il pericolo che persino l’indignazione
diventi minoritaria è reale, spinta ai margini. Perché episodi come
quello di Fermo sono destinati a crescere, se la cultura dell’umanità e
dei diritti continua a farsi schiacciare in un angolo nobile, se non
reimpara ad educare le masse (parole vetuste, lo so, anzi arcaiche; ma
non è forse arcaica anche la violenza assassina?). Bisogna, forse,
imparare a passare dalla pancia, per arrivare di nuovo alle teste.
Con
la stessa forza (purtroppo impotente) con cui ho sperato che Emmanuel
sopravvivesse, spero ora che il suo sacrificio segni una linea. Ci sarà
il suo funerale domenica; stasera un presidio antirazzista nel luogo in
cui è stato ucciso; l’Anpi, il Sindacato e tante associazioni hanno
indetto una manifestazione di tutti i cittadini per martedì prossimo.
La gravità di un assassinio a sfondo razzista richiede che i toni li alzino, di livello, sia i cittadini che le istituzioni.
Cominciando
dall’antifascismo, che non è una espressione del sanscrito antico, ma
una cultura dei diritti, una necessità del presente, anzi del futuro,
con l’aria che tira da Fermo alle metropoli europee ed americane.
«Restiamo umani», condivido, ma non inermi o, peggio ancora, indignati
ma inerti.