il manifesto 9.7.16
«Migrare è una scelta obbligata»
Spagna. Luc André Diouf, consulente del partito socialista per l’immigrazione
di Adelaide Erta
MADRID
Riunione urgente al numero 70 della calle Ferraz, la sede del Psoe. Luc
André Diouff è appena atterrato a Madrid dalle Canarie, dov’è
coordinatore della Sezione afrosocialista. Senegalese, classe 65’, volò
per la prima volta alle Canarie nel 92’, quando abbandonò la sua terra e
gli studi in economia. Un passato da sans papier e una pneumonia
beccata dopo un mese trascorso a dormire fra la sabbia de las Canteras.
Poi un nuovo inizio nel sindacato – Comisión Obrera – fino ad approdare,
dopo una chiamata del segretario Pedro Sanchez, nel «grupo de expertos»
del Psoe occupandosi di immigrazione.
Il Psoe sfugge quando si parla di chiusura dei Cie, si limita a parlare della necessità di rivedere la legge.
Anche
Obama promise la chiusura di Guantanamo e già siamo alla fine della
legislatura con un nulla di fatto. Per cambiare la legge serve la
maggioranza in parlamento. Da oltre cinque anni, come segretario delle
migrazioni in Ccoo (Comisión Obrera) ho chiesto la chiusura di queste
strutture. Con il giudice istruttore Victoria Rossell abbiamo visitato
il Cie delle Canarie e denunciato il trattamento disumano dei migranti.
La Spagna finora si è sottratta alle sue responsabilità, accogliendo un numero irrisorio di rifugiati siriani…
Il
partito socialista a Bruxelles si è battuto per l’accoglienza. Quello
che succede in Siria, in Afghanistan, in Mali o in Congo prima o poi
busserà alle porte dell’Europa. Se l’Europa è un’Europa di diritto,
d’impegno e di libertà, non può voltare le spalle a chi fugge dalla
guerra o dalla fame. Ha firmato protocolli legali per l’accoglienza dei
rifugiati, deve rispettarli.
La miseria, anche estrema, difficilmente da diritto allo status di rifugiato.
Io
non voglio fare questa distinzione. L’impossibilità di coltivare la
terra obbliga alla fuga, è solo un’altra sfaccettatura. Pensiamo ai
campi minati dopo la fine dei conflitti: negli ultimi anni sono state
“seminate” mine in Mali per impedire l’avanzata dell’esercito jihadista.
Auspica un cambio del paradigma europeo?
Il
modello europeo sarà cambiato forzosamente. L’Europa è vecchia, ha
bisogno di forza lavoro. La Germania l’ha capito e ha aperto le porte ai
rifugiati.
Ma poi ha delegato il controllo dei flussi migratori alla Turchia.
Il
prossimo anno in Germania ci saranno le elezioni ed è un terreno che
scotta. Lo stesso è successo in Inghilterra ed è finita con la Brexit.
Lo spauracchio delle migrazioni è stato utilizzato ed ora i fautori
dell’uscita della Gran Bretagna dall’Ue sono scesi dalla nave come topi.
Hanno rotto un Paese. L’Inghilterra è nel limbo, ha votato contro i
giovani.
Lei parla spesso di cooperazione con i paesi d’origine.
Non
ci si può relazionare con i migranti senza conoscere i loro paesi,
senza sedersi ai tavoli con i loro rappresentanti. Ci dovremmo chiedere
dove finiscono i fondi per la cooperazione dell’Unione europea. Occorre
strutturare i progetti e decentrarli affinché arrivino davvero alla
gente.
Nel 2002 il Consiglio europeo di Siviglia ha vincolato la
cooperazione alla gestione dei flussi migratori e la riammissione
obbligatoria in caso d’immigrazione clandestina. Che ne pensa?
E’
una forma di cooperazione negativa che non condivido. Ogni emigrante è
un mondo a sé, lo stato d’origine spesso non conosce la sua realtà
migratoria. Per esempio, sono stati utilizzati questi accordi per
rimpatriare maliani o guineani in Senegal.
Una legge da cambiare?
Tutto
è migliorabile. A Dakar, in Senegal, la coda per richiedere un visto
inizia la notte precedente. Cento persone davanti al consolato e ne
ricevono venti, e molto raramente lo concedono. La conseguenza è
l’immigrazione irregolare. Servono cooperazione e politiche migratorie
affinché i movimenti siano fluidi, in entrata e in uscita. La
globalizzazione deve essere completa, non solo economica.
La città
di Melilla – enclave spagnola in territorio marocchino – è circondata
da una recinzione di filo spinato dove sono state inserite lame per
evitare il “salto” della valla.
Human Right Watch e altre
associazioni hanno denunciato l’illegalità di questi strumenti per le
profonde ferite da taglio provocate. Non dovrebbero esistere né lame, né
le devoluciones en caliente – rimpatri alla frontiera – legalizzate dal
PP.