il manifesto 8.7.16
Deleuze, il movimento reale del molteplice
Il
saggio «Gilles Deleuze» (DeriveApprodi) di Michael Hardt libera il
campo dalla lettura neoliberista del filosofo francese. E svela la
politicità dell’opera, considerandola come un nodo nella trama critica
dello status quo
di Giso Amendola
All’inizio
degli anni Novanta, nel 1993, due anni prima della morte di Gilles
Deleuze, Michael Hardt pubblica uno dei primi lavori monografici in
lingua inglese dedicati al filosofo di Logica del senso e Differenza e
ripetizione: oggi Gilles Deleuze. Un apprendistato in filosofia torna
disponibile grazie a DeriveApprodi e alla “neonata” collana Operaviva
(l’edizione italiana è a cura di Girolamo De Michele, la traduzione è di
Cecilia Savi). Quando esce originariamente il libro di Hardt, la
recezione di Deleuze nei paesi anglosassoni sta avvenendo a seguito di
quell’ondata di interesse per il pensiero radicale continentale che ci
avrebbe fatto parlare poi di una French Theory. Il libro di Michael
Hardt ha davanti originariamente questo panorama: il poststrutturalismo è
stato sì accolto nel panorama americano, ma è stato letto soprattutto
come una sorta di più o meno ironica e disincantata critica del
fondamento, un abbandono lineare e senza scosse della tradizione
filosofica, senza che questo congedo riesca a sviluppare una reale
potenza costruttiva e critica. L’obiettivo dichiarato di Hardt è quello
di ribaltare questa visione del poststrutturalismo: si tratta di
rivendicare al poststrutturalismo la capacità di attraversare la
modernità cercandone le “filiazioni alternative”, e di affrontare la
questione del fondamento evitando di rimanere impigliati nella
meditazione perpetua sulla sua eclissi.
Le tappe di un percorso
Oggi
le carte in tavola sono cambiate: più che mirare a spegnere la sua
forza critica edulacorandola, l’attacco al poststrutturalismo, e a
Foucault e Deleuze in particolare, tende esplicitamente ad accusarlo per
una sorta di complicità, più o meno consapevole, con lo stesso
neoliberalismo. Il desiderio in Deleuze? Cedimento alle passioni
“appropriative” del neoliberalismo. L’attenzione alle soggettività, alla
pluralità, al divenire e alla trasformazione? Apologia, più o meno
mascherata, dell’individualismo, del soggetto-impresa. Davanti a questa
nuova, fastidiosa chiacchiera, la ripubblicazione del libro di Hardt è
una boccata d’aria salubre, e, insieme, una sfida quasi provocatoria a
tutti i discorsi sull’ambiguità politica del poststrutturalismo. La
lettura che Hardt offre di Deleuze, e più precisamente dei suoi primi
grandi incontri filosofici con Bergson, Nietzsche e Spinoza, si separa
infatti da qualsiasi concessione alle retoriche di un facile
“postfondazionismo”: è anzi una rivendicazione fortissima del nesso tra
ontologia, etica e politica nel discorso deleuziano. La forza di queste
pagine, oggi forse ancor meglio apprezzabile, è mostrare come il
poststrutturalismo, per quanto ci si affanni a mostrarlo come un astruso
gioco culturale, se non “culturalista”, sia in realtà ben impiantato
nel campo della produzione: produzione dell’essere, della soggettività, e
infine dell’organizzazione.
Prima stazione del percorso: la
questione ontologica. Questione spinosa, a cominciare dallo stesso uso
del termine “ontologia”. Perché – ed Hardt ne è perfettamente
consapevole – la tradizione filosofica ha operato un vero e proprio
sequestro del discorso ontologico. La ripresa dell’ontologia nel
Novecento richiama immediatamente la concezione della differenza in
Heidegger, tutta nel segno del sottrarsi dell’essere, del ritirarsi del
fondamento: non a caso, è ontologia frequentata da tutte le meditazioni
sull’eclissi dell’essere, di indole sia tragica che ironica, che
popolano il postmoderno. Di ontologia in Deleuze, invece, si può parlare
a buon diritto proprio in quanto la si installa all’interno di
tutt’altra tradizione: quella affermativa e positiva che legge la
differenza come produzione interna dell’essere, e immanente all’essere
stesso. La differenza non “cade” dall’essere, non lo nasconde, non lo
cancella, come avviene nell’emanazionismo di marca neoplatonica: la
differenza non è destinata ad errare nel mondo delle ombre. Hegel
imputava una concezione di questo tipo, dove l’essere fa impallidire
ogni differenza, proprio a Spinoza: Deleuze invece ricolloca l’ontologia
spinoziana al posto che le pertiene, all’interno di una concezione, che
il filosofo francese chiarisce già nei suoi primi scritti su Bergson,
secondo la quale la differenza, anzi le differenze, sono movimento
dell’essere, non distanza e caduta dall’essere e suo infinito
consumarsi. Ma ancor più che contro la “differenza ontologica” di
Heidegger, l’ontologia deleuziana ha come suo nemico principale la
dialettica hegeliana. Per Hegel, la differenza non può che essere
concepita come determinazione: a sua volta, la determinazione è un
movimento di negazione. Ci si determina negando attivamente
l’indifferenziato, l’indeterminato, in ultima analisi negando quel nulla
che coincide con la purezza astratta dell’essere.
Oltre Hegel
È,
per l’appunto, l’attacco fondamentale di Hegel a Spinoza, poi ripetuto
da tutti coloro che vedranno nell’idea dell’essere produttivo sempre una
minaccia dell’informe, del caotico, del mancante di differenziazione.
La replica di Deleuze è molto decisa: la determinazione come atto di
negazione non fa altro che introdurre una dimensione radicalmente
esterna al movimento dell’essere. La negazione fa dipendere la
determinazione da una causa esterna: l’essere che si determina negandosi
è un essere eternamente dipendente, sempre bisognoso di qualcos’altro.
Hardt richiama giustamente l’attenzione sull’importanza che ha il
concetto di causa efficiente nell’ontologia deleuziana: la causa
necessaria, non contingente, non è mai la causa materiale, cui guardano
tutti i materialisti ingenui, che interviene in modo del tutto
contingente, e neppure la causa finale, amata dai platonici, che pone
l’ordine come fine trascendente: l’unico concetto di causa che può
muovere un materialismo fondato sulla potenza produttiva dell’essere, è
la causa efficiente, la causa sui degli scolastici. L’effetto non cade
mai al di fuori della causa, e, allo stesso modo, la differenza è sempre
produzione interna del movimento dell’essere: l’essere non manca di
nulla. Non opposita, sed diversa: non la determinazione per opposizione e
negazione, ma l’essere come matrice di produzione di differenze.
Superamento del negativo
Questa
opposizione netta all’idea di determinazione per negazione da un lato
segna tutta l’ontologia produttiva deleuziana, dall’altro apre alla sua
portata etica affermativa. Ci sono nel testo di Hardt alcune pagine
bellissime, sulla dialettica servo-padrone, che chiariscono come la
scelta deleuziana per il movimento positivo della differenza, contro la
determinazione attraverso il negativo, ci porti nel cuore di scelte
etico-politiche fondamentali. Cosa significa, concretamente, immaginare
la differenza come negazione? Significa per esempio, che il servo
hegeliano sceglie di determinarsi, di fronte all’assoluto indeterminato
che è la morte, rivolgendo la propria forza contro se stesso,
realizzando la propria autocoscienza attraverso l’educazione al lavoro.
Nei termini di Nietzsche, si tratta di una triste e infelice etica del
risentimento contro la propria stessa potenza. In termini hegeliani, è
attraverso il negativo, tenendo a freno il desiderio, che lo schiavo
conquista la sua essenza. Hardt ricorda qui l’Alfonso voce narrante e
protagonista del Vogliamo tutto di Nanni Balestrini, il giovane migrante
meridionale nelle fabbriche del Nord Italia degli anni Sessanta e
Settanta: “mai mi è venuto in mente di festeggiare il lavoro”, dice
Alfonso, quelli che individuavano pane e lavoro come propria essenza
erano irrecuperabili. Primo movimento: distruggere l’idea che ci si
determini nel trattenimento, in un dirigersi della propria forza contro
se stessi. Appunto, distruggere l’idea che “ogni determinazione è
negazione”. Contemporaneamente, si apre il secondo movimento: la
distruzione del negativo diventa scoperta felice che quella esigenza di
lotta, di liberazione della propria forza, è esigenza condivisa negli
incontri: “la gioia di essere finalmente forti. Di scoprire che ste
esigenze che avevano sta lotta che facevano erano le esigenze di tutti
era la lotta di tutti”, sempre per dirla con le parole di Alfonso.
L’incontro con Spinoza
Non
si potrebbe indicare meglio che con questa gioia di operai irriducibili
al lavoro che scoprono la pars construens della loro lotta, il
passaggio dall’ontologia all’etica: dall’essere come produzione,
all’essere come producibile, per dirla con Hardt. L’affermazione
ontologica dell’essere come produzione immanente, causa sui, distrugge
l’alterità del fondamento, la sua lontananza, e contemporaneamente,
afferma l’essere stesso come il risultato, sempre aperto, di un processo
di produzione da parte delle differenze. Hardt, indagando soprattutto
l’incontro di Deleuze con Spinoza, aiuta qui a fare piazza pulita di un
altro ritornello, spesso recitato dai custodi del “negativo”: quello per
cui questa visione dell’essere come produzione ci consegnerebbe a una
sorta di beatitudine statica, a un ottimismo metafisico paradossalmente
impotente. Il punto è che l’ontologia della produttività dell’essere ci
apre sì a un essere “mobile e malleabile”, dinamico e produttivo: ma,
allo stesso tempo, ricorda Hardt “alla potenza di esistere e di agire
corrisponde la potenza di essere affetto”. Deleuze trova specialmente in
Spinoza questa congiunzione tra produzione e affezione: affezioni
attive, che corrispondono all’essere causa di noi stessi, adeguati alla
nostra potenza attiva d’essere e produrre, ma anche affezioni passive,
da cause esterne, dove la potenza non coincide con la propria causa. E
questo incrocio materialistico di produzione e affezione apre tutto il
gioco degli incontri, felici o infelici, delle variazioni della potenza,
del suo accrescersi in combinazioni che corrispondono felicemente alla
struttura dei corpi, come del suo andare a male negli incontri
inappropriati. L’essere non solo non è il fondamento che, immoto, ci
sostiene, non solo è il processo sempre aperto che ci produce ma è, al
tempo stesso, anche il prodotto della nostra capacità, sempre
reversibile, di trasformarci attraverso affetti e passioni.
La politicità riscoperta
Da
questa etica della produzione della soggettività, ontologicamente
impiantata, si genera una politica degli assemblaggi e della
sperimentazione di organizzazione, a partire dal piano sempre aperto
della trasformazione sociale. Alla determinazione attraverso il negativo
corrisponde l’idea di un Ordine che si impone sempre come causa esterna
su un molteplice, letto inevitabilmente come campo del mancante e del
carente, bisognoso dei suoi pastori: l’ontologia produttiva apre invece
lo spazio di una politica che certo “benedice” il molteplice e la
pluralità, ma che non per questo ignora il nemico, le sanguisughe che
separano continuamente la potenza dalla sua causa, che provano a
recintarla attraverso le “strutture verticali dell’ordine”. Un campo
aperto: e certo aperto resta completamente il tema, intensamente
politico, dell’organizzazione e della costituzione, in altri termini il
problema di come evitare che questa incessante produttività della
società si affermi solo in un campo d’orizzontalità liscio, senza
riuscire a darsi consistenza e durata. Molti materiali, nel lavoro
remoto e recente sulla politica deleuziana, possono approfondire
concetti fondamentali come, per esempio, quello di istituzione: pensiamo
per esempio, alle ricerche che sull’istituzione in Deleuze ha condotto
negli anni Ubaldo Fadini, nel segno di uno sviluppo originale del tema
della “positività” in Deleuze, o a tutto il dibattito recente sulla
giurisprudenza in Deleuze come modello alternativo alle concezioni
legalistiche del diritto (ne è un esempio un libro di De Sutter su
Deleuze e il diritto di qualche anno fa). Intanto, questo solido
materialismo radicato nella produzione/produttività dell’essere può
lottare contro il neoliberalismo strappandogli il vero segreto della sua
potenza: l’infamia con cui traduce nel linguaggio della proprietà e
della valorizzazione capitalista la forza dell’autonomia della
cooperazione sociale, del pluralismo e dell’autorganizzazione. Altro che
alleati del neoliberalismo: questi poststrutturalisti che scansano
felicemente il negativo e benedicono il molteplice sono quelli che
insegnano come affrontare il nemico senza attestarsi su posizioni
reattive o nostalgiche, come non lasciare ai neoliberali la forza di un
sociale capace di affermazione e di trasformazione.