martedì 5 luglio 2016

il manifesto 5.7.16
Partigiana nella vita ordinaria
La figura della resistente, neuropsichiatra Claudia Ruggerini
di Marco Rovelli


Claudia Ruggerini era una bellissima ragazza che a ventun anni decise di gettarsi nella lotta partigiana. E bellissima ragazza è rimasta fino alla fine della sua vita, che ha concluso ieri, a Milano, dove era nata nel 1922. È stata una donna che ha mostrato nella sua esistenza che scegliere è sempre possibile: non solo nei momenti dove la Storia si addensa, come appunto quelli della guerra e della Resistenza, ma anche dopo, quando la vita si fa quotidiana e ordinaria. Una testimonianza di vita, la sua, incredibilmente densa, e fatta di una sostanza etica che ci riguarda tutti, e che tutti dovrebbe continuare a toccare.
Claudia Ruggerini nacque in via Padova 36, che via di immigrati era già negli anni Venti. La sua famiglia veniva da vicino, dalla Brianza: sua nonna era una trovatella, e sua madre aveva fatto la massaggiatrice. Famiglia matrilineare, ché anche il padre socialista non era molto presente: tanto più che quando Claudia aveva dodici anni, lui morì, massacrato di botte dei fascisti davanti a casa. E lei vide il pestaggio dalla finestra.
Nonostante questo, non si sbandò: anzi, era molto studiosa, «una secchiona», come raccontava lei stessa. E fu proprio l’amore per l’arte a costituire l’innesco che determinò la consapevolezza del suo antifascismo: a Venezia, dove sua madresi recava per massaggiare i clienti ricchi, andava nelle chiese, alla Biennale d’arte, e a vedere i film del festival del cinema, che nell’Italietta fascista e provinciale non potevano circolare. Le si dischiusero allora allo sguardo mondi nuovi, nuove possibilità di vita. E quando all’università incontrò Hans, che fu il suo «fidanzatino», e (come avrebbe scoperto solo dopo la guerra) era emigrato da Vienna perché ebreo, tutto fu compiuto: perciò fu naturale, dopo l’8 settembre, diventare la partigiana Marisa. Prima fece la staffetta con la borsa carica d’armi e di documenti verso la val d’Ossola, e poi, aggregata alla brigata Garibaldi, la quinta colonna per conto del Cln dentro San Vittore.
Hans, infatti, era stato rinchiuso lì, e per una serie fortuita di eventi Claudia conquistò la fiducia dei tedeschi che gestivano il carcere. «Vivevo nello spavento», mi raccontò: nonostante lo spavento non mollò, rischiando il peggio. Poi entrò a far parte, unica donna, del comitato di iniziativa fra gli intellettuali che il comunista D’Ambrosio, membro del Cln, aveva messo in piedi. Claudia conobbe bene Vittorini, divenne amica di Alfonso Gatto, e con loro occupò la redazione del Corriere della Sera il 25 aprile, per fare uscire il primo numero del giornale non più fascista.
«L’ultima missione politica – raccontava Claudia – l’ho fatta nel ’53. Quando con D’Ambrosio e Reale siamo andati in Costa Azzurra da Picasso, per convincerlo a prestare Guernica a Milano per la mostra che gli dedicavano a Palazzo Reale. A un certo momento arrivò anche Jean Cocteau. Fu una giornata meravigliosa».
Dopo la guerra, Claudia si laureò con Cesare Musatti, e si avviò alla carriera di neuropsichiatra, per diventare primario di neurologia a Rho. Dove avrebbe fatto un’altra battaglia a tutti gli effetti partigiana, contro le scuole speciali, dove sarebbero dovute andare solo persone con problemi mentali gravi, e dove invece venivano segregati i bambini che arrivavano dal sud che secondo l’amministrazione scolastica non avevano i prerequisiti scolastici. Claudia fece sì che quella pratica di segregazione terminasse, e si praticasse quella che oggi si chiamerebbe «integrazione». «Devi fare il sociale nella comunità: questa è politica. E l’ho sempre fatta. Quindi sì, è stata lotta partigiana anche cercare di far sì che i genitori comprendessero i figli, che i mariti comprendessero le mogli… è stata lotta partigiana benedire le corna della gente senza colpevolizzarle… Avevo una capacità, che è la cosa che ho conquistato: la capacità che la gente fa quello che si sente di fare, che è libera di fare quello che fa, basta che se ne prenda la responsabilità. Io, per me, me la sono sempre presa la responsabilità».
Claudia ci lascia questa eredità: si è partigiani quando si rischia la vita lottando contro i tedeschi, ma anche quando si fa una battaglia educativa antirazzista. Perché l’esperienza del partigianato, tra le tante cose, fu una straordinaria esperienza di fraternità.
Per chi volesse salutarla, i funerali di Claudia si terranno oggi alle 15 nella chiesa di via Previati a Milano.

Il Fatto 5.7.16
Raggi: “Avete aizzato Grillo, ora parlo solo con Di Maio”
Giunta più vicina, ma nei Cinque Stelle la tensione resta alta
La sindaca furibonda con i parlamentari romani del Movimento
di Luca De Carolis

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Il Fatto 5.7.16
Correnti, codici etici e rancori: dizionario della Roma a 5Stelle
Nodi e personaggi Dal mini-direttorio alla rabbia dei “lombardiani”, i punti della partita capitolina
di Luca De Carolis

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Il Sole 5.7.16
Il messaggio che il Pd manda al Paese
di Lina Palmerini

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Il Sole 5.7.16
La direzione Pd. Il premier: referendum cruciale per la credibilità della classe politica Franceschini: sì al premio di coalizione contro i populisti
«Se vince il No anche le Camere lascino»
Renzi: con me le correnti non torneranno a guidare il partito, chi mi vuole fuori vinca il congresso
di Emilia Patta


ROMA  «Se volete che lasci non avete che chiedere un congresso e vincerlo. Se volete dividere la carica di segretario da quella di candidato premier proponete una modifica statutaria... Finché il partito lo guido io le correnti non torneranno al comando, e lo dico innanzitutto ai renziani di stretta osservanza, della prima o seconda ora o a quelli last minute. Non c’è garanzia per nessuno in questo partito, a iniziare da me». E ancora: «La stagione in cui uno, dall’alto della sua intelligenza, pensava di abbattere i leader è finita. La strategia del Conte Ugolino non funziona. Se volete i caminetti prendetevi un altro segretario, perché con me si aprono finestre».
Matteo Renzi arriva alla direzione del Pd convocata per il dopo comunali e poi rimandata per la Brexit («ci vuole fantasia dice per dare una lettura nazionale di quel voto») con un certo carico di rabbia. Non c’è solo la minoranza del Pd nel mirino, anche se certo le parole sul Conte Ugolino sono dedicate a un Massimo D’Alema insolitamente presente. Nel mirino ci sono anche «i cosiddetti renziani». Quelli che in Transatlantico ragionano sui possibili scenari per il dopo-Renzi se a vincere fosse il No al referendum di ottobre sulla riforma del Senato. «Qualcuno dice che non c’è più il tocco magico rincara Renzi -. Lo sento dire nei balbettanti sussurrii che dal Transatlantico provengono soprattutto dai miei amici, i cosiddetti renziani. Ma il tocco magico non c’era neanche nel 2014 quando abbiamo perso città importanti come Livorno e Potenza mentre prendevamo il 41% alle europee». E ancora, con un affondo non usuale: «Radio Transatlantico dice che i renziani dell’ultima ora scendono dal carro... quando cercheranno di risalire troveranno occupato».
È come se il premier si sentisse accerchiato, e a tutti manda un messaggio forte: se fallisce il referendum, «cruciale per la credibilità della classe politica», non vado a casa solo io. Durante la sua relazione Renzi fa vedere il video del discorso della rielezione di Giorgio Napolitano, quando il Presidente sferzò i partiti che lo avevano richiamato al Colle per le mancate riforme. «C’eravate voi ad applaudire quel giorno, io ero a Palazzo Vecchio... C’è qualcuno tra voi che pensa sinceramente che, dopo che la legislatura è nata e ha fatto ciò che ha fatto, in caso di No al referendum il presidente del Consiglio e io penso anche il Parlamento, ma questo non riguarda me possa non prenderne atto?». Certo, spetta al Capo dello Stato decidere sullo scioglimento delle Camere, ma certo Renzi ha voluto far sapere ciò che ne pensa. Né sfugge il passo avanti del ministro Dario Franceschini, che nel suo intervento si esprime a favore del ritocco all’Italicum per reintrodurre il premio alla coalizione invece che alla lista. «In un mondo in cui destra e sinistra sono state sostituite da partiti populisti e partiti “sistemici”, occorre avere tutti gli strumenti per unire i partiti antipopulisti», è il ragionamento di Franceschini, che pensa alla odierna coalizione di governo come coalizione strutturale. Prendono la parola anche Graziano Delrio, che invece l’Italicum lo difende, e i “giovani turchi” Matteo Orfini e Andrea Orlando, che insistono sui temi sociali.
Per il resto della direzione di ieri resta agli atti lo scontro tra Renzi e Cuperlo, che accusa il premier di vivere nel «talent di un’Italia patinata», lontano cioè dal Paese reale. «Gianni io sono fuori dal “talent”, fuori dalla vostra macchiettistica è la risposta di Renzi -. Fuori dal racconto che una parte di noi fa: che cioè al governo ci sia un gruppo di arroganti chiuso nel giglio magico». E resta la bocciatura dell’ordine del giorno presentato dallo stesso Cuperlo e da Roberto Speranza che chiedeva “piena cittadinanza” a chi nel Pd voterà No al referendum. Come non detto, insomma, in una sorta di dialogo tra sordi. Ma mai Renzi era stato così duro, e non solo contro la minoranza, in una direzione del Pd. A fine giornata, poi, non aiuta ad acquietare le acque la decisione dell’ex ministro del governo Monti Fabrizio Barca di uscire dalla commissione che da mesi sta lavorando alla riorganizzazione del partito («non mi pare esista la volontà di avviare le revisioni che occorrono»).

il manifesto 5.7.16
La crociata di Renzi contro il reddito di cittadinanza
Renzi: «il reddito di cittadinanza è un messaggio devastante». Meglio infatti licenziare, demansionare e controllare a distanza i lavoratori con il Jobs act una riforma attenta ai diritti, com'è noto. Contraddizioni devastanti del lavorismo 2.0
di Roberto Ciccarelli


Alla direzione Pd Renzi ieri ha ribadito che «il reddito di cittadinanza è un messaggio devastante». Perché infatti i voucher, il controllo a distanza dei lavoratori, il demansionamento, il licenziamento senza giusta causa – il Jobs Act – oggi sono una speranza per chi non ha un lavoro, è in cassa integrazione, è costretto a cedere al ricatto di un salario da schiavo pur di lavorare.
Il costo di questo reddito per la tutela sociale della persona potrebbe essere inferiore agli sgravi contributivi alle imprese erogati in maniera «acondizionale», non legati alla produzione di nuovi posti di lavoro(11,8 miliardi). Sommati al costo del bonus Irpef degli 80 euro (6,1 miliardi di euro a 11,3 milioni di dipendenti), il loro totale potrebbe coprire i 1421 miliardi annui necessari per un vero «reddito minimo» in Italia. La stima è dell’Istat sulla base delle proposte di legge del Movimento Cinque Stelle e di Sel (Sinistra Italiana). Non avere pensato a tale possibilità, questo è «devastante».
«Il problema non è dare una mano a chi non ce la fa – ha detto Renzi – perché tutti i comuni e lo stato centrale cercano di farlo. È il principio che non funziona: non posso avere diritto a uno stipendio solo perché sono cittadino. Invece ho diritto a che ci si prenda cura di me, ad avere delle opportunità».
Non è la prima volta che Renzi espone questo mix di lavorismo e paternalismo neoliberale. Il 14 marzo 2014 sostenne che il «reddito di cittadinanza» è contrario all’articolo 1 della Costituzione. In realtà è un’erogazione monetaria cumulabile con altri redditi, indipendente dall’attività lavorativa (alla precarietà, alla disoccupazione) e rivolta ai cittadini e ai residenti da almeno un anno per garantirgli una vita dignitosa. Il «reddito di base universale» è diverso dal «reddito minimo»: garantirebbe una vita dignitosa contro il lavoro povero, favorirerebbe l’autodeterminazione, la solidarietà, il diritto all’esistenza. Tutti valori costituzionali, come sostiene Stefano Rodotà. Prospettiva, in effetti, «devastante» per chi sostiene il Jobs Act.
Il chiodo fisso del premier sono i Cinque Stelle che, erroneamente, definiscono la loro proposta un «reddito di cittadinanza», mentre è un «reddito minimo» condizionato all’accettazione di una proposta di lavoro per evitare penalità. Una confusione usata da Renzi per dimostrare l’irrealtà della loro proposta e per evidenziare come il «Sostegno inclusivo attivo» (Sia), previsto nella legge delega contro la povertà, sia un reddito minimo. Questa misura divide gli esclusi e non affronta le radici della crisi. In questo caos normativo e linguistico la Sicilia di Crocetta ieri ha annunciato il «reddito di cittadinanza». Dopo la Puglia di Emiliano, un’altra iniziativa incongrua e frammentaria contro la povertà.

Il Fatto 5.7.16
Pronto il decreto per Carrai: sarà a Palazzo Chigi con Renzi
007 a metà . Avrà la regia della cyber sicurezza e uno staff di 20 persone. C’è il via libera del Quirinale e degli Stati Uniti. La sua società Cys4 sarà liquidata per evitare polemiche
È quasi una riforma dei servizi segreti senza passare per il Parlamento
di Stefano Feltri e Carlo Tecce

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Il Fatto 5.7.16
L’ex ministro
Barca: “Non c’è voglia di cambiare”. E lascia commissione Statuto


NON C’È volontà di cambiamento, mi dimetto”. Così il dem Fabrizio Barca motiva il suo addio alla commissione Statuto del Pd, subito dopo la Direzione di ieri. “La relazione di Matteo Renzi alla direzione e lo svolgimento della discussione scrive Barca mostrano che non esiste la volontà di avviare quelle revisioni dell’organizzazione del partito che ben prima delle ultime vicende elettorali, nell’autunno del 2014, avevano indotto alla costituzione di una commissione di cui ero stato chiamato a fare parte”.Maillavorodeicommissari,sostiene l’ex ministro della Coesione territoriale, è finito nel dimenticatoio. “In particolare continua Barca le proposte operative di una riduzione del pletorico e paralizzante numero dei membri della Direzione e della creazione di una officina progettuale -peraltro già sperimentata nel paese e contenuta in un testo provvisorio elaborato in primavera dalla commissione risultano ignorate. Mi dimetto pertanto pubblicamente dalla suddetta commissione, che ha rivelato la sua assoluta inutilità”.

Il Sole 5.7.16
Brexit e Regno Unito
Il senso di Londra per il ridicolo (e il tragico)
di Leonardo Maisano


C’è un senso del ridicolo, e purtroppo del tragico, nella grande fuga di Londra. I cocci di Brexit cadono a pioggia su Gran Bretagna ed Europa. Intanto i protagonisti della storica svolta inglese sull’ignoto, si sfilano. Accompagnati alla porta per manifesta inadeguatezza, denunciata dal suo stesso luogotenente, come nel caso di Boris Johnson, oppure esuli per scelta «personale», come nel caso di Nigel Farage, attentissimo, però, a non abbandonare salari e prebende garantiti dalla riaffermata volontà di restare nel parlamento europeo. L’unico dove può sedere non essendo mai riuscito a conquistare un seggio a Westminster.
Miserie di una congiuntura, quella del dopo Brexit che non cessa di lasciarci senza parole per l’improvvisazione di un Paese che non sa nemmeno quale debba essere la procedura da seguire per sancire la frattura con Bruxelles voluta dal suo popolo. Il dito sul pulsante dell’articolo 50 ce l’ha il premier o il parlamento come vorrebbe una democrazia parlamentare? E se spetta al parlamento, tocca ad entrambe le camere oppure solo ai Comuni ? E se spetta ad entrambe nel caso di un “sì” alla Brexit da parte dei Comuni e un “no” dei Lords, l’upper chamber avrebbe titolo simile alla lower chamber oppure – come per la legislazione ordinaria – il pronunciamento dei Pari del Regno sarebbe sostanzialmente ininfluente? Non c’è nulla di amletico nel “multiplo” dilemma, se così si può dire, ma solo una procedura che si sperava fosse nota agli organizzatori della consultazione assai prima di annunciarla, o almeno nel durante, o di sicuro nell’immediatezza dell’esito.
E invece dieci giorni più tardi è un coro di sorprese che si sgrana ora al ritmo di un mercato immobiliare in allarme rosso come suggerisce lo stop imposto alle contrattazioni, e conseguentemente alle richieste di riscatto, del fondo commercial property di Standard Life. L’ultima volta che accadde una cosa del genere era il 2007, nel 2008 ricordiamo bene che cosa accadde. Tutti stanno con la bocca aperta a guardare il cielo, aspettando una parola risolutiva che, qualunque essa sia, è destinata a scaldare gli animi di un Paese diviso in due, minacciato ora anche dall’angoscia sul destino dell’immobiliare sulle cui spalle si regge, da sempre, la struttura economica del Regno Unito. Spaccato nei numeri, nelle nazioni che lo compongono, nella geografia socio-economica. Ci sono gli elementi di un quadro che, se eccessivamente esasperato, porterà la gente in piazza come si è visto, in una breve sequenza di quanto potrebbe accadere su vasta scala, sabato scorso nelle vie di Londra quando decine di migliaia di eurofili hanno chiesto di restare nell’Ue. Che cosa faranno gli elettori della Brexit se scoprissero – non gliel’ha mai detto nessuno – che il Parlamento di Westminster può ignorare la loro volontà perché il voto è “solo” consultivo? Possiamo solo immaginarlo, così come possiamo immaginare la reazione degli eurofili se scoprissero di non appartenere più a una democrazia parlamentare. La più antica, la più gloriosa come ci sentiamo ripetere da sempre. E al primo lezzo di cordite i generali si danno alla fuga, come ha denunciato con lucida freddezza Lord Heseltine che di complotti se ne intende da cospiratore quale fu contro Margaret Thatcher. Altri tempi, altri uomini. Oggi il premier si dimette smentendo tutto quanto aveva detto, promesso, giurato fino a un istante prima. Il volto più popolare fra Tory brexiter, il biondo e loquace Boris Johnson, accetta, vivamente incoraggiato, di farsi da parte e lo fa, crediamo, ben contento di non doversi misurare con il caos da lui stesso creato con tanta, irresponsabile leggiadria. L’ideologo del Grande Strappo, Nigel Farage, infine, abbandona il campo, dicendosi soddisfatto del traguardo raggiunto prima tappa dello sfondamento dell’Unione obbiettivo da lui stesso dichiarato. Missione compiuta, dice. Sarà davvero “accomplished” quando su Londra sarà sbocciata l’alba di una nuova civiltà, ma sulla Gran Bretagna pesa solo il caos. Nigel sa bene che la missione deve ancora cominciare, solo per questo se ne è andato.

Il Sole 5.7.16
Brexit e mercati
I rischi che la Ue non vuole vedere
di Adriana Cerretelli


«Sono democratiche solo le decisioni prese dai parlamenti nazionali? Beh, allora siamo coerenti e chiudiamo l’Unione europea» sbotta un alto funzionario della Commissione Ue. Forse non sa o non vuol sapere, l’incauto, quanto la sua provocazione rischi di diventare prima o poi realtà.Continua da pagina 1 Non bastava Brexit a scrollare quasi tutte le certezze europee del dopoguerra. Non bastava il germe di una grande crisi bancaria europea, epicentro in Italia, a scatenare nuova destabilizzazione dentro l’eurozona e la neonata ma troppo imperfetta unione bancaria europea, che pure si continua a non voler completare.
Ci voleva anche il Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada, partorito dopo ben 5 anni di negoziati, a seminare confusione. E ad alimentare una feroce guerra inter-istituzionale, che potrebbe concludersi con il definitivo affossamento del modello disegnato dai Padri Fondatori e il principio di un’Europa tutta intergovernativa, depurata di ammortizzatori istituzionali capaci di distillare l’interesse comune dal caos degli interessi nazionali contrapposti, di un’Europa più squilibrata perché dominata dalla nuda legge dei più forti. Di direttorii più o meno conclamati.
La prospettiva è inquietante ma tutt'altro che peregrina.
I Trattati Ue fanno della Commissione il negoziatore degli accordi commerciali su mandato del Consiglio, cioè dei governi. Una volta raggiunti, gli accordi vanno approvati dal Consiglio e ratificati dall’europarlamento. Così dovrebbe andare anche per quello Ue-Canada. Invece no.
A parte l’Italia, che si batte per il rispetto della procedura classica, l’unica che può garantire tempi ragionevoli per l’entrata in vigore del nuovo accordo, la maggioranza, in testa Germania, Francia, Belgio e Austria, pretende invece di coinvolgere nella ratifica, per “ragioni democratiche”, anche i rispettivi parlamenti nazionali. In questo caso sarebbero ben 38 (regionali compresi) quelli chiamati a pronunciarsi.
La ratifica finirebbe alle Calende greche o magari su un binario morto. Motivo? Alla vigilia delle elezioni del 2017 in Olanda, Francia e Germania, nessun governo vuole inimicarsi euroscettici e anti-mondialisti che intendono colpire l’incolpevole Canada, dagli standard simili a quelli europei, per atterrare il Ttip, l’analogo accordo che l’Unione sta negoziando con gli Stati Uniti. Senza grandi speranze.
La Commissione Juncker oggi potrebbe decidere di tirare comunque dritto per la sua strada, costringendo i governi o ad allinearsi oppure a votare all’unanimità per poter decidere a modo loro. Avrà il coraggio di farlo?
La squadra Juncker è sotto attacco come mai era successo all’istituzione. La Germania chiede la testa del presidente, stanca delle sue sfide: sulla politica commerciale, non a caso in odore di parziale rinazionalizzazione, sulla gestione troppo flessibile del patto di stabilità che ne distorce le regole e nullifica le sanzioni (vedi Spagna e Portogallo), sulla politica migratoria come, a fasi alterne, anche sulla conduzione della politica di concorrenza.
Per questo da tempo Berlino medita di depotenziare ruolo e poteri della Commissione creando Agenzie indipendenti: una per l’Antitrust, un’altra per mettere al riparo da giudizi politici e sanzioni le performance economiche dei Paesi dell’euro. Medita anche di sottrarle, a favore del presidente del Consiglio Ue Donald Tusk, il ruolo di negoziatore su Brexit. Juncker sarebbe troppo vetero-europeista, integrazionista, federalista.
«Di fronte a demogogia e euroscetticismo è tempo di pragmatismo, non di grandi visioni, la situazione è grave come non mai. Invece di pensare a riforme e nuovi Trattati si devono fare progressi sulla crisi dei rifugiati, sulla disoccupazione giovanile e altri problemi concreti» avverte il tedesco Wolfgang Schäuble. E aggiunge: «Se all’inizio non tutti i 27 Paesi Ue vogliono mettersi insieme, cominceremo con pochi. Se la Commissione non ci sta, risolveremo i problemi fra governi».
La metamorfosi dell’Europa, dunque, minaccia di cominciare scardinando l’ordine costituito. Federalismo rischia di diventare una brutta parola, almeno fino a quando sistemi e rischi-Paese non torneranno a convergere in modo credibile. Per l’Italia in piena bufera bancaria, la sfida della modernizzazione e della competitività diventa ancora più cruciale da giocare e vincere per conquistarsi un posto stabile nella nuova Europa. Che potrà assomigliare alle sue aspirazioni soltanto se rimetterà ordine, e al più presto, in casa propria. In sintonia, si spera, con i partner. Nel mondo globale l’Europa post-Brexit ha bisogno di ricompattarsi, non di cedere alle sirene del rompete le righe.

il manifesto 5.7.16
Centinaia di nuove case negli insediamenti ebraici ma ai coloni non basta
Israele/Territori Occupati. Il premier Netanyahu, prima di partire per l'Uganda, ha rilanciato la colonizzazione ma i settler e i loro rappresentanti politici protestano perchè il provvedimento prevede la costruzione di case anche per i palestinesi alla periferia di Gerusalemme
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Benyamin Netanyahu è partito per l’Uganda lasciandosi alle spalle il via libera, deciso assieme al ministro della difesa Lieberman, alla costruzione di quasi 800 nuovi appartamenti in cinque colonie ebraiche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Il passo è allo stesso tempo una rappresaglia per l’uccisione, la scorsa settimana, da parte palestinese di un colono di Otniel e di una ragazza 13enne, Hallel Yafa Ariel, a Kiryat Arba, e una risposta al rapporto presentato dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Ue e Onu) che denuncia la colonizzazione come l’ostacolo principale alla soluzione dei “Due Stati”, Israele e Palestina. Un documento che il premier israeliano non ha digerito e che, per motivi opposti, non è piaciuto neppure al presidente palestinese Abu Mazen, che di fatto viene accusato di istigare alla violenza contro Israele. «Siamo in una lotta prolungata contro il terrorismo e stiamo usando misure aggressive che non sono state usate in passato», ha avvertito Netanyahu preannunciando la presentazione di un piano speciale per la colonia di Kiryat Arba. Confermata anche la chiusura del distretto di Hebron, con pesanti limitazioni ai movimenti degli abitanti della città (in particolare nella zona H2 sotto il controllo israeliano), e l’invio di altri due battaglioni di soldati con l’incarico di sorvegliare le arterie stradali.
Queste misure non bastano ai coloni e ai loro rappresentanti ai vertici della politica. Anzi si dicono addirittura scontenti. I provvedimenti del governo infatti contengono anche l’approvazione alla costruzione di alcune centinaia di case arabe a Beit Safafa, un sobborgo di Gerusalemme Est al centro di un ampio piano di trasformazione avviato dalle autorità israeliane. Secondo il ministro dell’istruzione Naftali Bennett, leader del partito nazionalista religioso Casa Ebraica, la mossa creerebbe un blocco contiguo di aree palestinesi, una sorta di «corridoio» che arriverebbe sino al centro della città. In sostanza andrebbe contro i piani attuati a partire dall’occupazione nel 1967 volti a frantumare la parte araba (Est) di Gerusalemme in vari quartieri palestinesi separati tra di loro, come oggi è ben visibile a sud della città dove, ad esempio, il villaggio di Jabal al Mukhaber è stato isolato dalla colonia di Armon HaNetsiv.
«Le costruzioni arabe a Givat Hamatos (Beit Safafa) creerà un territorio palestinese contiguo fino a Malha, dividerà Gerusalemme, di fatto è una freccia palestinese nel cuore di Gerusalemme» ha protestato Bennett. Il suo collega Zeev Elkin ha chiesto che sia subito approvata la costruzione di centinaia di case per israeliani ebrei per compensare quelle destinate ai palestinesi. In realtà è già previsto. Nel 2014 la commissione comunale per la pianificazione edilizia a Gerusalemme ha approvato 2.600 nuove unità abitative per Givat Hamatos, in gran parte per i coloni. In pratica i ministri dell’ultradestra provano ad ottenere da Netanyahu altre case per gli israeliani nella zona araba di Gerusalemme approfittando delle circostanze favorevoli. Immancabile l’intervento del sindaco israeliano di Gerusalemme Nir Barkat. «A Gerusalemme vi è e continuerà ad esserci una maggioranza ebraica…È sbagliato approvare nuove costruzioni solo dopo un attacco terroristico. Abbiamo bisogno di costruire a Gerusalemme sempre», ha protestato Barkat che da tempo invoca una colonizzazione più intensa. Il sindaco ha promesso che il comune continuerà a portare avanti lo sviluppo edilizio di Gerusalemme sulla base del piano regolatore approvato dalla sua amministrazione. «Ai nostri amici negli Stati Uniti e in Europa dico che noi non approveremo le nuove costruzioni sulla base della religione e della nazionalità. Non si può costruire per gli arabi e congelare le costruzioni per gli ebrei». Il proclama di Barkat di uno sviluppo per tutti gli abitanti della città, ebrei e palestinesi, è ad uso diplomatico e mira a mascherare la realtà di un controllo israeliano sulla zona araba di Gerusalemme non riconosciuto e di leggi internazionali che vietano a Israele di insediare la sua popolazione civile nelle aree che ha occupato militarmente 49 anni fa.

il manifesto 5.7.16
A 40 anni dalla «Dichiarazione universale dei diritti dei popoli»
Diritti globali. Due giornate presso la Fondazione Lelio Basso
Manifestazione contro la dittatura argentina e il rapimento dei figli dei desaparecidos
di Geraldina Colotti


Giuristi, economisti, religiosi, analisti internazionali. Due giornate di intenso confronto per ricordare i 40 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dei popoli (il cui testo è ora pubblicato da Nottetempo), organizzate a Roma dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco.
La Conferenza di Algeri, promossa dalla Fondazione Lelio Basso per il diritto dei popoli insieme alla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli, nacque dalla collaborazione di giuristi economisti e personalità politiche, sia dei paesi industrializzati che del Sud del Mondo, da un gran numero di rappresentanti dei movimenti per la liberazione dei popoli, da numerose organizzazioni non governative.
Algeri era allora un punto di riferimento strategico per i paesi non allineati, «capitale di una nazione che aveva duramente lottato per affrancarsi dalla dominazione coloniale, in un continente che contava molti paesi in lotta per l’indipendenza politica ed economica».
La Dichiarazione restituisce il clima del grande Novecento, concludendo così il Preambolo: «Che tutti coloro che nel mondo conducono a volte con le armi in pugno, la grande lotta per la libertà di tutti i popoli trovino in questa dichiarazione la conferma della legittimità della loro lotta».
Ha ancora senso ribadire quei principi in un mondo infranto e balcanizzato in cui i diritti elementari vengono annichiliti proprio dalla retorica sui diritti imposta da chi li calpesta? Diversi interventi hanno preso di petto la questione.
L’economista indiana Mary E. John ha parlato dei diritti di genere, della negazione del salario vitale come violenza e delle trappole in cui vengono attirate le donne per asservirle al profitto.
Una di queste – ha detto – è costituita dal microcredito, un massiccio programma rivolto alle donne dei settori popolari che è servito ad aumentare la concorrenza e non i diritti universali.
Ma l’idea forte del convegno – ha sottolineato Elena Paciotti, presidente della Fondazione Basso, è quella di «rinnovare il legame tra i diritti delle persone e quelle dei popoli, anche quando essi confliggono con gli Stati, che non devono avere il predominio della forza». Un concetto articolato dal giurista Luigi Ferrajoli, che ha declinato la nozione di «popolo» nell’era della globalizzazione «La vera novità rispetto a 40 anni fa – ha detto – è che le ingerenze esterne a tal punto invadenti da essere in grado di imporre la demolizione delle garanzie dei diritti sociali e dei diritti dei lavoratori, sono soprattutto quelle esercitate da quei sovrani globali, invisibili e selvaggi, che sono i poteri economici e finanziari globali». Una «violenza anonima che si manifesta nella crescita esponenziale della disuguaglianza e della povertà».
Diritti negati anche per «omissione di soccorso» – ha suggerito dal pubblico Vera Pegna, ricordando la Palestina sotto occupazione, per cui nessun organismo internazionale ha ritenuto opportuno intervenire.
Pegna ha poi raccontato un incontro internazionale a cui ha partecipato come traduttrice, subito dopo la caduta dell’Unione sovietica. I produttori di armi, preoccupati per il cambiamento intervenuto, avevano chiesto consiglio a Henry Kissinger su come proteggere i propri affari.
E la risposta fu: «Non vi preoccupate, i conflitti regionali sono facili da fomentare». Oggi, ha ricordato Pegna, «quei conflitti sono più di 1500».

il manifesto 5.7.16
La condizione animale del desiderio
Saggi. L'ultimo saggio di Roberto Marchesini «Etologia filosofica», uscito per Mimesis
di Alessandra Pigliaru


L’intento dell’ultimo saggio di Roberto Marchesini è certamente filosofico. Per sua stessa ammissione infatti l’atto deliberato con cui ha pensato di costruire Etologia filosofica (Mimesis, pp. 121, euro 12) è quello di indagare «l’ontologia animale» partendo dal congedo dell’ipotesi meccanicistica e quella basata sulla inconoscibilità animale da parte di un eterospecifico. In relazione alla soggettività animale, su cui ruota questa breve ma tagliente dissertazione, Marchesini sostiene l’inconcludenza dell’algoritmo meccanicistico. D’altra parte, sporge e propone un’etologia filosofica capace di riflettere sulla «condizione di animalità come meta-componente che va oltre l’appartenere a una particolare specie».
Con questo, Marchesini considera anche di riportare il termine cognitivo al suo precipuo significato-valore etimologico di «mappa della conoscenza» che si rende disponibile a più utilizzi. Per farlo si devono assumere almeno due presupposti; il primo è che non può esserci analogia con la macchina agognata da Descartes per definire la condizione animale; il secondo punto è che bisogna trovare un paradigma all’altezza dello scardinamento del dualismo cartesiano. Ciò che preme all’autore non è tuttavia soffermarsi sulla giustapposizione di una res cogitans alla res extensa, bensì soffermarsi su quest’ultima – chiaramente rinominandola.
Pensiamo perché desideriamo e non il contrario, ed è su questa constatazione che Marchesini chiama il primo movimento della cognizione. «Essere animale – prosegue Marchesini – significa desiderare: pensare, sognare, agire, comunicare perché si desidera».
Fronteggiare questi elementi sotto il profilo filosofico significa allora ordinare un’etologia che faccia ritorno a Lorenz, senza per questo cedere a presupposti descrittivi. Nei tre secchi capitoli che compongono il volume, Marchesini va dunque a interrogare numerosi luoghi concettuali anzitutto filosofici. Dal fantasma della macchina alla titolarità dell’esistenza animale non più legata a un principio tradizionalmente trascendente e ordinatore. Si schiude quindi una condizione dell’essere-animale come meta-predicativa e la centralità di riappropriarsi di una sovranità del soggetto, lambirne almeno lo statuto, dichiararsene partecipi.
La postfazione di Felice Cimatti a Etologia filosofica è in forma di elogio. Un elogio, anche qui, dotto di riferimenti che tuttavia distillano i passaggi della filosofia classica intorno all’animalità e all’animismo. Se è quindi plausibile oltre che veritiero rendere conto della soggettività animale come vivente desiderante, Cimatti radicalizza il quesito spostandolo anche alle cose, sostenendo che «la distinzione, a cui siamo così tenacemente attaccati, fra vivente e non vivente, fra chi sente e ciò che non sente, forse non è che l’ultimo baluardo dell’antropocentrismo».

Il Fatto 5.7.16
l’Espresso, il nuovo direttore è Cerno

Il settimanale l’Espresso l’anno scorso ha compiuto sessant’anni. Quest’anno è toccato anche a Luigi Vicinanza, direttore dal 9 ottobre 2014, un compleanno così significativo. Per l’Espresso il 2016 è un anno di estrema importanza. Per due episodi che s’incrociano. Il cambio ai vertici: dopo neanche un biennio, l’azienda sostituisce Vicinanza con Tommaso Cerno, direttore del Messaggero Veneto, quotidiano del gruppo Espresso. Per Cerno è un ritorno di prestigio, per Vicinanza un classico addio. Il secondo episodio: da agosto l’Espresso sarà venduto in abbinamento obbligatorio con Repubblica.
Gli esperimenti regionali, in Sardegna e in Sicilia in particolare, hanno funzionato. Dopo quasi mezzo secolo, finisce la divisione tra il quotidiano e il settimanale del gruppo della famiglia De Benedetti, un doppio sistema e una doppia identità che hanno sempre rappresentato una garanzia di varietà, cioè anche di pluralità informativa.
Cerno era già in uscita dal Messaggero e, prima di tornare all’Espresso, dove ha lavorato fino al 2014 (l’uscita coincise con l’arrivo di Vicinanza), sembrava destinato alla Rai. Anche per consentire a Vicinanza la gestione della saldatura con Repubblica. Poi qualcosa è saltato, e Cerno rientra subito a Largo Fochetti. Da direttore.