Corriere 5.7.16
La partigiana Marisa che liberò il «Corriere» il 25 aprile 1945
di Davide Casati
Al numero 28 di via Solferino, nella sua Milano, ci era tornata per la prima volta solo lo scorso anno. Aveva misurato, lenta, il corridoio che 70 anni prima aveva percorso di fretta, davanti a Elio Vittorini, Alfonso Gatto, Antonio D’Ambrosio. Aveva scovato nella memoria la disposizione originaria delle stanze — «Qui era diverso, noi ci eravamo seduti qui» — e accolto con un sorriso l’applauso della redazione, nella stanza dove ogni giorno nasce la versione digitale del giornale. Era tornata con il suo nome — Claudia Ruggerini — nel quotidiano che con il nome di battaglia aveva liberato il 25 aprile del 1945. Alle prime luci del mattino era arrivata; alle prime luci dell’alba, ieri, la partigiana «Marisa» se n’è andata. Chi le è stato vicino fino agli ultimi istanti la racconta ormai stanca, ma ancora in grado di sorridere quando le si ricordava del «suo» Corriere . A cui era tornata a raccontare — con il tono di chi parla di qualcosa di assolutamente ordinario — una vita, la sua, straordinaria e piena. Una coscienza politica maturata in fretta, per ragioni culturali ma anche e prima di tutto personali (il padre, ferroviere socialista, fu licenziato per motivi politici e poi massacrato di botte da una ronda fascista, lasciandola orfana all’età di 12 anni), Claudia Ruggerini si era iscritta all’università di Chimica industriale, salvo poi passare — nel 1942 — alla facoltà di Medicina, più vicina ai suoi interessi. Un passaggio decisivo: perché lì avrebbe maturato le competenze che l’avrebbero resa, nell’Italia liberata, una delle pioniere nel campo della neuropsichiatria infantile; e perché all’università degli Studi Claudia ebbe l’occasione di avvicinarsi al Comitato iniziative intellettuali, il cui compito era immaginare i passaggi per una ripresa culturale dell’Italia, una volta scrollato di dosso il peso del nazifascismo. Aveva partecipato come staffetta alla Resistenza in val d’Ossola, e poi era entrata nella 107ª Brigata Garibaldi. Fu lei — sfidando i pericoli — a riconoscere il corpo di Eugenio Curiel, tra i fondatori del Fronte della Gioventù, ucciso il 24 febbraio 1945, e a ottenere che venisse conservato nell’obitorio della Facoltà di Medicina, al sicuro: «Dissi all’addetto che la salma doveva essere conservata lì fino al giorno della Liberazione, che non era lontano. Così avvenne». Dopo la Resistenza, il suo ultimo servizio «politico», nel 1953, fu quello di convincere Pablo Picasso ad autorizzare il trasferimento di «Guernica» dagli Stati Uniti a Milano. Durante la guerra, le venne affidato quello di distribuire la stampa clandestina. «Era importante, il Corriere : ma ancor più importante era la libertà dei giornalisti», aveva raccontato lo scorso anno, in un’intervista disponibile su corriere.it . Quella libertà non era, per Claudia, una conquista messa al riparo una volta per tutte: anzi. «Perché la libertà va coltivata con coscienza, conoscenza, rispetto degli altri e della loro, di libertà. Non è licenza, né liceità. La Resistenza, la liberazione del Corriere , è stata nient’altro che questo: una questione di libertà».
Repubblica 5.7.16
Vatileaks, I Pm: “Assolvere Fittipaldi”
“Condannate Chaouqui Balda, Maio e Nuzzi”
di Corrado Zunino
ROMA. Per il processo “Vatileaks due” arrivano le richieste di condanna.
Riguardano gli autori delle violazioni dei segreti pontifici, monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Francesca Immacolata Chaouqui, e uno solo dei due giornalisti sotto accusa: Gianluigi Nuzzi, autore del libro “Via Crucis”. Per Emiliano Fittipaldi, lui autore di “Avarizia”, i due promotori di giustizia (pm vaticani) hanno chiesto l’assoluzione per insufficienza di prove.
La richiesta più pesante è arrivata per la Chaouqui, che si è presentata alla 18a udienza spingendo il carrozzino del figlio di venti giorni: 3 anni e 9 mesi. «È stata ispiratrice delle condotte criminose». Per Balda chiesti 3 anni e un mese. Un anno e 9 mesi per il loro collaboratore Nicola Maio.
A tutti e tre, e in associazione, è stata contestata la divulgazione di notizie riservate. Un anno la richiesta per il giornalista Nuzzi, che aveva ottenuto da Balda la password dei file segreti: “Concorso morale e pressione psicologica”. Assoluzione, invece, per Emiliano Fittipaldi, cui sono state intercettate solo alcune mail inviate dal monsignore. Ha detto il pg Roberto Zannotti in aula: «Chi riceve notizie non è punibile, lo diventa se rafforza il proposito di chi le rivela». Nuzzi all’uscita: «Il Papa cacci i faraoni dal tempio». Fittipaldi: «Questo processo è un attacco specifico alla libertà di stampa».
Mercoledì o giovedì è prevista la sentenza.
Repubblica 5.7.16
Pensioni d’oro per la Consulta prelievo legittimo
La Corte orientata verso una decisione che chiude alle richieste di rimborso
di Liana Milella
ROMA. La Consulta è intenzionata a promuovere oggi la legge del governo Letta sul prelievo di solidarietà alle pensioni “d’oro” del 2014. Le ragioni sono molte. Non aveva natura tributaria. Ha riguardato solo le pensioni più “ricche”. Aveva una motivazione solidaristica ben definita e politicamente esplicitata, tant’è che ve n’è traccia nel dibattito parlamentare. Rientrava a pieno titolo nel potere del legislatore intervenire sulle pensioni. Non contrasta con gli articoli 81 e 97 della Costituzione che impongono, anche per le Regioni, l’equilibrio del bilancio.
Oggi, con questi ragionamenti, la Consulta potrebbe rimandare al mittente le otto ordinanze — tra le sei della Corte dei conti (le sezioni del Veneto, della Calabria, dell’Umbria e della Campania) e le due della Commissione giurisdizionale per il personale della Camera dei deputati — che hanno chiesto di dichiarare incostituzionale il contributo di solidarietà sulle pensioni da 91mila euro in su, deciso dal governo Letta e inserito nella legge si stabilità del 2014, con una validità prevista per un triennio.
Relatore il giudice della Cassazione Rosario Morelli. Forse un paio di assenti, l’avvocato Giuseppe Frigo per ragioni di salute e il costituzionalista Augusto Barbera alle prese con un’indagine giudiziaria. La Corte costituzionale, con 13 giudici, riaffronta il tema delle pensioni e dei tagli governativi che già fece scalpore nel maggio di un anno fa con la sentenza firmata dalla lavorista Silvana Sciarra (la 70 del 2015) sul blocco delle rivalutazioni per le pensioni più basse. La polemica col governo fu dura. Allora i giudici erano 12 e finì con un clamoroso sei a sei, dove ebbe peso il voto doppio dell’allora presidente Alessandro Criscuolo. Ma oggi, dopo l’udienza pubblica della mattina, la decisione potrebbe essere assai meno contrastata e traumatica anche per gli equilibri interni.
Vediamo perché, partendo da alcuni dati. Il prelievo della legge Letta era progressivo, il 6% per gli importi da 91 a 130mila euro, il 12% per quelli da 130 a 195, il 18% per quelli ancora superiori. Se la Corte dovesse promuovere i ricorsi lo Stato dovrebbe rimborsare circa 160 milioni di euro. Ma ovviamente, in questo caso, il problema riguarderebbe soprattutto il futuro, e cioè l’impossibilità, per rispettate il dettato costituzionale, di fare altre leggi simili. Numerosi i principi della Costituzione che, a detta dei ricorrenti, sarebbero violati, da quello di uguaglianza (articolo 3), al diritto a una retribuzione proporzionata (35 e 36), all’equilibrio di bilancio (81 e 97), alla tutela dei lavoratori (38), al dovere di concorrere alle spese pubbliche (53). Sia l’Avvocatura dello Stato che l’Inps, nelle memorie presentate, sostengono che i ricorrenti hanno del tutto torto e quindi le loro tesi vanno respinte. Perché tecnicamente le motivazioni addotte sono inadeguate e insufficienti, al punto che gli atti andrebbero rimandati indietro per una valutazione ulteriore.
Ma l’argomento più rilevante che oggi potrebbe spingere gli alti giudici a esprimersi favorevolmente al prelievo forzoso sulle pensioni più abbienti sarebbe quello che l’intervento economico del governo Letta non aveva la caratteristica di un «manovra tributaria». Non era, insomma, una sorta di tassa mascherata, ma una mossa per garantire un migliore equilibrio tra gli stessi pensionati. Tant’è che tra gli obiettivi del prelievo, di natura esclusivamente triennale, c’era anche quello di sostenere i lavoratori che in quel periodo risultavano “esodati”.
Lo stesso governo Letta, come dimostrano gli atti parlamentari, aveva discusso e chiarito la questione proprio per evitare la scure della Corte costituzionale che invece nel 2013 — la sentenza 116 firmata dall’ex presidente della Corte Giuseppe Tesauro — aveva bocciato una legge del governo Berlusconi, poi riproposta anche dal governo Monti, che imponeva un prelievo tra il 5 e il 15% sulle pensioni oltre i 90mila euro. In quel caso c’era proprio quella “natura tributaria” che invece risulterebbe assente dalla legge Letta.
Due principi costituzionali infine non sarebbe neppure intaccati, quello del diritto dei lavoratori a una pensione giusta, perché la ratio delle legge mirava a un bilanciamento tra pensioni ricche e pensioni povere e quello dell’equilibrio di bilancio, perché la legge non comportava un’ulteriore spesa.
La Stampa 5.7.16
Il girotondo delle democrazie
di Giovanni Orsina
Dalla vittoria di Trump nelle primarie repubblicane al Brexit, il «cigno nero», l’evento traumatico che nessuno credeva davvero possibile, si sta trasformando nella nostra quotidiana normalità democratica. Chi ha cercato di spiegare perché ciò stia accadendo si è concentrato per lo più sul bisogno insoddisfatto di protezione: di sicurezza economica per classi medie in declino; di incolumità fisica per cittadini atterriti da terroristi e migranti. È una spiegazione fondata, ma a mio avviso insufficiente. Migrazioni, terrorismo e difficoltà economiche sono le sfide esterne che le democrazie paiono incapaci di affrontare. Le ragioni di questa loro incapacità, però, devono essere cercate al loro interno. Ossia, per chiamare le cose col loro nome, in una crisi sempre più evidente della civiltà liberaldemocratica. Una crisi che non nasce oggi, e che negli ultimi decenni hanno denunciato in tanti. Ma che oggi sembra aver raggiunto il suo culmine.
La natura dissonante e divergente del dibattito pubblico è un primo aspetto di questa crisi. Un secolo e mezzo fa, John Stuart Mill scriveva che «la libertà non è applicabile in alcuna situazione precedente il momento in cui gli uomini sono diventati capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali». Con quel «migliorare» Mill intendeva due cose, mi sembra: che discutendo gli uomini si sarebbero avvicinati sia gli uni agli altri (pur restando differenti) sia alla verità (che pure rimaneva irraggiungibile). Nella formulazione del filosofo inglese, poi, la capacità di migliorare era irreversibile: una volta che fosse stata raggiunta, non la si sarebbe più smarrita.
Ora, siamo davvero sicuri di non averla invece perduta, quella capacità? In relazione sia all’elezione di Trump, sia alla Brexit, è stata usata nel mondo anglosassone l’espressione «post-truth politics»: politica post-verità. Un gioco politico in cui le parti, quale più quale meno, mentono tutte; anche i dati più «duri» vengono contestati; gli esperti non sanno più fornire all’opinione pubblica alcuna certezza. E il progresso lineare verso la conoscenza e la convergenza, sognato da Mill, diventa un vano e frustrante girotondo in una babele di sofismi.
Un secondo aspetto della crisi della liberaldemocrazia va cercato nella fragilità dei corpi intermedi: le organizzazioni politiche, economiche, culturali, religiose. Una fragilità che deriva dalle trasformazioni storiche degli ultimi cinquant’anni, ma alla quale hanno pure contribuito attivamente le forze politiche sia di destra sia di sinistra. Le forze di destra – spesso di destra liberale – hanno indebolito i corpi intermedi perché si sono affidate al mercato. Proprio mentre denunciavano le forze di sinistra perché li indebolivano con l’insistere sui diritti individuali. Le forze di sinistra – spesso di sinistra liberale – hanno contribuito a disarticolare i corpi intermedi con l’enfasi sui diritti individuali. E al contempo attaccavano la destra perché li corrodeva attraverso il mercato.
Diritti individuali e mercato sono indispensabili a una democrazia, certo. Ma non le sono sufficienti. Nella tradizione liberale è sempre stata ben presente la consapevolezza che una società non può reggersi soltanto su pilastri economici e giuridici, ma ha bisogno di robuste fondamenta politiche. Ossia di ragioni che la tengano insieme – memorie, identità, senso civico, valori condivisi –, e di articolazioni interne che nutrano quelle ragioni. Si capisce allora perché mai la democrazia liberale più antica e solida del continente abbia votato contro un’Europa che è tanto attiva sul terreno economico e giuridico quanto inconsistente su quello politico.
In una democrazia liberale priva di verità e corpi intermedi, le élite non possono trovare legittimità. Non gliela può dare la competenza tecnica, che si disintegra nella cacofonia del dibattito pubblico. Non gliela può dare la leadership sociale, perché non ci sono più luoghi nei quali esercitarla. Ma se agli occhi del cittadino qualunque le élite non hanno alcuna utilità, i privilegi dei quali esse godono diventano insopportabili – ce lo ha insegnato Tocqueville. Come meravigliarsi, allora, se il voto diventa soprattutto un modo per esprimere quell’esasperazione? Eppure, al contempo, quanto a lungo può sopravvivere una liberaldemocrazia in cui le élite – tutte le élite – sono così delegittimate?
Possiamo naturalmente sperare che questa crisi sia congiunturale, e che prima o poi venga riassorbita. Che si riesca a rimettere un po’ d’ordine nel dibattito pubblico e a ricostruire dei corpi intermedi. O perfino che si trovi un modo per vivere senza classi dirigenti – è l’utopia del Movimento 5 stelle, un altro «cigno nero» fattosi normalità. Perché queste speranze abbiano un qualche fondamento, però, è necessario che sia le élite sia gli elettori riconoscano la crisi per quel che è. Si rendano conto dei pericoli che porta con sé. E prendano a comportarsi in maniera più responsabile di quel che hanno fatto negli ultimi anni.
Corriere 5.7.16
La roulette russa nelle democrazie
di Antonio Polito
A differenza di Jo Cox e dei suoi bambini, che sono stati davvero derubati della vita, le vittime politiche del referendum britannico hanno perso solo potere e gloria. Però è impressionante osservare come la falce del Leave abbia decapitato un’intera classe dirigente, in modo trasversale, senza fare distinzioni. È caduto chi ha perso, David Cameron; è caduto chi ha vinto, Boris Johnson; se ne è andato chi ha trionfato, Nigel Farage; sta per essere cacciato chi si è barcamenato, James Corbyn. I Conservatori si accoltellano alle spalle, i Laburisti si scazzottano in pubblico. Il caos politico è totale. Volevano ridare il potere al popolo, ma il potere di scegliere il primo ministro da domani è nelle mani di 330 deputati tories. Perfino quelli cui il popolo ha dato ragione non sanno ora indicargli la strada da seguire. Per quanto diretta possa diventare la democrazia, con i referendum o con i sondaggi o con la Rete, alla fine c’è sempre bisogno di qualcuno che la guidi. In inglesesi dice «leader». Kenneth Rogoff ha segnalato sul Boston Globe che la maggior parte delle società «prevede per il divorzio di una coppia più passaggi, ostacoli e procedure di quante ne abbia previste il governo britannico per uscire dall’Unione Europea». Gli si può rispondere: è la democrazia, bellezza. Ma che dire dei diritti delle minoranze, che sulla Brexit non erano né piccole né irrilevanti(ha votato Leave solo il 36% degli aventidiritto, hanno votato Remain i giovani, lacittà-Stato di Londra, la Scozia, l’Irlanda del Nord)? Non sono le minoranze altrettantocare alla democrazia? O la democrazia è un gioco dei dadi, una roulette russa?
H a scritto Sabino Cassese sul Corriere che il referendum è un esempio di «single issue politics». Al popolo, con una domanda secca, puoi chiedere se vuole salvare Gesù o Barabba; e non è detto, tra l’altro, che avrai la risposta giusta. Ma non puoi chiedere di considerare le innumerevoli, complesse ed epocali conseguenze che può avere la scelta tra Gesù e Barabba, o tra Cameron e Johnson. E infatti nel caso inglese né l’uno né l’altro sono stati in grado di dire cosa fare, dopo aver chiesto al popolo di farlo.
Il fatto è che in Gran Bretagna, dove non c’è una Costituzione scritta, non c’è nemmeno una legge che regolamenti i referendum. Li convoca il governo, quando gli pare e gli conviene (a quanto abbiamo visto, pure quando non gli conviene). E invece anche la democrazia diretta, di cui il referendum è la massima espressione, ha bisogno di regole per avere efficacia. E chi può scrivere le regole se non il Parlamento, massima espressione della democrazia delegata, cioè rappresentativa? Mettiamo che le prossime elezioni a Londra le vinca un leader pro Europa: chi avrebbe ragione? Il popolo sovrano che ha votato Leave o il popolo sovrano che ha eletto un governo per il Remain ?
Noi per fortuna abbiamo una Costituzione. La quale prescrive all’articolo 138 che se vuoi cambiare la Carta e non hai abbastanza voti in Parlamento devi chiedere il permesso al popolo con un referendum. È per questo, e non perché l’abbia indetto Renzi, che a ottobre o giù di lì voteremo sulla riforma costituzionale approvata a (scarsa) maggioranza nelle Camere. Ma anche da noi, come nel caso inglese, l’idea di spruzzare un po’ di democrazia diretta sulla democrazia parlamentare come se fosse un cocktail, soprattutto quando la seconda è un po’ giù e si pensa di alzarne la gradazione alcolica con l’appello al popolo sovrano, può essere molto azzardata.
Usare il popolo per sistemare una partita politica, per risolvere un conflitto interno al proprio partito oppure come surrogato di una legittimazione elettorale, è sbagliato. Purtroppo anche in Italia questo corto circuito è già avvenuto. Già oggi la probabilità che al referendum si voti sul governo più che sulla Carta è elevatissima. Per giunta abbiamo da poco in vigore una legge elettorale che si è travestita anch’essa da referendum, e che nel ballottaggio ridurrà gli elettori a una scelta sì o no, pro o contro il governo. Il che raddoppia il rischio roulette russa appena visto all’opera in Gran Bretagna.
Può darsi che i nostri pifferai magici, i nostri incantatori di consenso popolare, siano più acrobatici di quelli inglesi e riescano ad evitare la fine di chi andò per suonare e fu suonato. Certo che a scherzare col fuoco prima o poi ci si brucia. L’ Economist di questa settimana ha in copertina «Anarchy in the Uk». Facciamo in modo da meritarcene una diversa in autunno.
Corriere 5.7.16
Malcontento e populismo. Le malattie dell’Europa
risponde Sergio Romano
Il malcontento generale, un’avversione sempre più generalizzata nei riguardi di questa Europa, è sotto gli occhi di tutti. E quello che è peggio non si vede un’inversione di tendenza da parte di chi, e questo è il punto, è stata la classe dirigente europea. Bruxelles, per un numero crescente di europei, anche per quelli più europeisti, è diventata il nemico numero uno.
Non crede che gli esponenti di questa classe politica, che sono poi i veri responsabili di questo stato di cose, dovrebbero prendere atto del loro fallimento e mettersi da parte, così come avviene in ogni azienda o società a seguito di un risultato negativo? È una domanda che in tanti si pongono. Lei come la pensa?
Fabrizio di Giura
Caro di Giura,
Credo che occorra rovesciare i termini della questione. Esiste certamente, in quasi tutte le democrazie occidentali, dall’Atlantico al Mediterraneo, un forte e diffuso malcontento. Ma non siamo certi di conoscerne con precisione le cause. Prenda ad esempio il caso della Gran Bretagna. È stato detto che gli elettori britannici, come quelli dell’Europa continentale, sono particolarmente preoccupati dal problema dell’immigrazione. Ma la parola sembra avere, al di qua e al di là della Manica, significati diversi. Per i Paesi dell’Europa continentale, l’immigrazione è quella clandestina proveniente dall’Africa e dall’Asia. Per la Gran Bretagna, invece, è quella arrivata da membri dell’Unione europea grazie alla libera circolazione delle persone prevista dal mercato unico. Quando alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale aderirono all’Ue nel 2004, la Gran Bretagna accolse subito un numero considerevole di polacchi. Avrebbe potuto, come la Germania, valersi di una clausola che consentiva di ritardare di qualche anno il principio della libera circolazione, ma il governo britannico ritenne in quel momento che gli immigrati avrebbero conferito flessibilità e dinamismo alla economia nazionale. Non aveva torto. Il Pil è generosamente cresciuto e i polacchi (oggi sono 800.000) hanno largamente contribuito alla ricchezza di un Paese in cui la disoccupazione è al 5,4%: meno della metà di quella dell’Italia e della Francia.
Credo che le stesse considerazioni valgano anche per altri Paesi. Il malcontento non è sempre spiegabile razionalmente, ma esiste ed è la materia prima del populismo demagogico che si sta diffondendo nelle società europee. È probabile che all’origine di tanto malumore vi siano diversi fattori: alcune ricadute della globalizzazione, il predominio della finanza nelle economie nazionali, il crescente divario tra ricchi e poveri, la diffusa convinzione che la macchina del progresso ininterrotto si sia inceppata, forse anche l’invecchiamento della popolazione. Ma al populismo demagogico questo non interessa. Gli basta avere qualcuno (quasi sempre l’Unione Europea) a cui attribuire tutti i mali della società e presentarsi al Paese come «nuovo». Di questo passo, se i suoi leader conquisteranno il potere, il malumore, dopo le sbornie elettorali, è destinato ad aumentare.
La Stampa 5.7.16
Corruzione
Ventre molle della Capitale
di Francesco La Licata
Lo aveva detto chiaramente, all’epoca degli arresti sul «Mondo di mezzo», che si trattava soltanto di un «primo step» e che altre indagini sarebbero sopraggiunte.
Perché la corruzione, specialmente a Roma ma tutto il territorio nazionale è contagiato, ha fondamenta profonde e ramificate. Così la pensa il procuratore Giuseppe Pignatone, che non ha mai fatto mistero delle sue preoccupazioni per un fenomeno che indebolisce moralmente il Paese e gli sottrae risorse vitali che potrebbero, invece, alimentare la linfa di una ripresa economica che non decolla.
Da quando sta sulla poltrona di piazzale Clodio, il procuratore non ha mai distolto lo sguardo «puntuto» sul ventre molle di Roma che, per certi versi, non ha nulla da invidiare alla «palude» siciliana. E non ha risparmiato richiami ed allarmi, rivolti soprattutto al potere politico e al mondo della burocrazia, fino a fargli pensare che il sistema mafioso (anche quello di Mafia Capitale) «non è l’unico problema e non è detto sia il principale». Per descrivere quel mondo, Pignatone spiega che «in qualche modo rispecchia la società romana e, quindi, in quanto tale non può non avere rapporti con la politica». La corruzione è l’arma della mafia, fuori dalla Sicilia dove, invece, usa il linguaggio della violenza più esasperata. Si tratta di un sistema «trasversale», come dimostra la facilità con cui il «Mondo di mezzo» si è rapportato con giunte di destra e di sinistra. Per non parlare delle strategie messe in atto per agganciare «non solo assessori e consiglieri, ma tutta la burocrazia comunale».
E non ha risparmiato critiche a certe posizioni autoassolutorie della politica che spesso si è trincerata dietro l’alibi del «non c’è reato». A questi Pignatone ha risposto, anche pubblicamente, con l’ironia del siciliano sornione: «Non è detto che tutto ciò che non è reato sia buona amministrazione». E aggiunge che il sistema di corruzione che imprigiona Roma vive di un «patto che si fonda non sulla paura ma sulla reciproca convenienza».
Ma non è solo la corruzione, il problema. Il procuratore ha puntato il dito anche contro una serie di reati che svuotano le casse pubbliche e vanno a riempire quelle di corruttori e corrotti: reati contro la pubblica amministrazione, frodi colossali in danno di enti pubblici e della Ue, grandissima evasione fiscale. Intervenendo in un convegno, Pignatone ha raccontato di essersi imbattuto in un carnet di assegni contrassegnato col marchio «tangenti». «Ormai - ha commentato - è caduto anche il velo del pudore».
Fa rabbrividire la sintesi di Pignatone: «Non siamo più di fronte al do ut des fra pubblico ufficiale e corruttore. Oramai c’è un network della corruzione, un sistema estremamente complesso, perché la corruzione è programmaticamente utilizzata da gruppi affaristici come strumento di potere. Non c’è più la diretta corrispondenza tra corruttore e beneficiario dell’attività illecita: per la realizzazione dello scambio si ricorre alle nomine di consulenti, alla scelta degli appartenenti alle commissioni, agli incarichi professionali, ai finanziamenti esplicitamente dichiarati al partito o alle fondazioni». Altro che Cosa nostra.
La Stampa 5.7.16
“Virginia attenta. Rischi di finire come Pizzarotti”
di Ilario Lombardo
«Virginia, il M5S è imbufalito. Pensano che invece di fare come l’Appendino a Torino, tu possa diventare la nuova Pizzarotti...Non vogliamo che tu faccia la sua stessa fine».
Il processo a Virginia Raggi è durato circa un’ora, in un clima che i bollettini del M5S non hanno neanche provato ad ammorbidire. Il confronto è stato schietto, com’era prevedibile tra tre donne dal carattere spigoloso. Virginia Raggi, sindaca di Roma da una parte, e Roberta Lombardi e Paola Taverna dall’altra, le due parlamentari che guidano il mini-direttorio nato in supporto a Raggi. Una presenza che è diventata via via ingombrante per la sindaca, la quale, anche fisicamente provata, è stata costretta a cedere alle richieste del direttorio e di Beppe Grillo. Via Raffaele Marra, il dirigente con un passato di legami con Gianni Alemanno. E via Daniele Frongia, già consigliere che Raggi aveva voluto al suo fianco come capo di gabinetto, forzando la legge Severino sull’incompatibilità. Entrerà in giunta con delega al Patrimonio immobiliare e la probabile carica di vicesindaco. «Noi siamo il M5S - le hanno detto Lombardi e Taverna - proprio noi non possiamo essere accusati di voler aggirare la Severino». Essere il M5S vuol dire marcare una differenza quasi ontologica con gli avversari. La fenomenologia del buon grillino deve tener conto di questo: le scelte di un sindaco 5 Stelle a Roma si fanno in condivisione con lo staff. La Raggi che a cena con Luigi Di Maio aveva evocato le proprie dimissioni e implorato quasi un ritorno di Alessandro Di Battista «al posto di quelle due», alla fine ha capitolato. Nelle scosse di assestamento del pasticcio romano, sembra però che lo stesso Di Maio non abbia granché gradito l’intervento di peso di Grillo, tirato per la giacchetta da Lombardi, proprio mentre lui cercava una mediazione più diplomatica.
Ad affermarsi, per ora, è la morale della squadra che prevale sul singolo: «E’ il Movimento che ha vinto, non tu, cara Virginia, e lo sai benissimo». Ecco il punto, il M5S, la base, i militanti a cui pare non siano piaciute le prime uscite di Raggi accanto all’arcinemica Maria Elena Boschi e alla presidente della Camera Laura Boldrini. Avrebbero preferito vederla a Tor Bella Monaca, dove c’è stata una rivolta per il caos rifiuti e hanno incendiato cassonetti.
I nervosismi si sono poi placati, quando si è passati a parlare della giunta. Confermato che sarà presentata il 7, si cercano donne per aumentare le quote rosa. Visto che il personale politico scarseggia, si guarda in casa altrui. L’ex assessora di Ignazio Marino, Daniela Morgante non andrà al Bilancio, dove potrebbe finire Marcello Minenna (Consob), ma dovrebbe sostituire Frongia come capo di gabinetto. Saltata l’ipotesi della professoressa Cristina Pronello ai Trasporti, si pensa a un altro nome con cabina di regia di esperti annessa per risolvere il caso Atac.
Corriere 5.7.16
La giornata più lunga Virginia tra i timori sulla macchina comunale e i sospetti dei suoi
di Ernesto Menicucci
ROMA La giornata di Virginia Raggi, dopo lo «stacco» che si è concessa domenica andandosene in campagna col figlio, per disintossicarsi dalle scorie di questi giorni, è una full immersion «campidogliesca», dentro quel Palazzo Senatorio che i «grillini» hanno preso — col 67% dei consensi — ma che ora devono riuscire a controllare.
La sindaca, che parla alla Cnn («siamo accusati di essere inesperti ma i partiti con lunga esperienza hanno distrutto Roma»), si chiude nel suo studio con vista Fori ma poi, intorno alle 18.30, attraversa il Campidoglio, passa dall’aula Giulio Cesare deserta, cammina sul «passetto» che collega i palazzi della piazza e raggiunge la sala Protomoteca dove è in corso una riunione delle Rsu (rappresentanze sindacale di base) dei dipendenti capitolini. Apre la porta quasi di sorpresa: «Scusate se non vi ho ancora potuto incontrare, ma in questi giorni sono molto presa dalla composizione della giunta...», esordisce. La sindaca resta una ventina di minuti, il tempo di annunciare — riferisce Giancarlo Cosentino della Cisl — l’idea di «tenere la delega al Personale: è un aspetto a cui credo molto. L’amministrazione comunale non può ripartire senza i suoi dirigenti». Un cambio di rotta radicale rispetto all’approccio di Ignazio Marino che proprio coi «capitolini» è entrato più volte in rotta di collisione.
Un messaggio chiaro e allo stesso tempo il tentativo di «rifugiarsi» in un porto sicuro, da quelle categorie che le hanno fatto una notevole apertura di credito. Così, Raggi cerca anche di uscire un po’ dall’accerchiamento (se non la quasi solitudine) di questi giorni, situazione diventata «plastica» proprio ieri.
Perché, già in queste prime settimane, Raggi ha capito che da qui in avanti dovrà fronteggiare almeno due ordini di problemi «interni». Uno è il rapporto con l’elefantiaca amministrazione capitolina, quella che elementi importanti di M5S sospettano che già stia mettendo i bastoni tra le ruote alla neosindaca. Esempio, il parere richiesto all’Avvocatura comunale sulla nomina (che ora è saltata) di Daniele Frongia a capo di gabinetto: dai legali del Campidoglio era arrivato un via libera sulla conferibilità dell’incarico, quando invece quel ruolo rischiava di entrare in rotta di collisione con la legge Severino, essere impugnato al Tar e finire sotto le attenzioni della Corte dei Conti. Per questo, al di là della giunta, dentro M5S si sono convinti che Raggi dovrà mettere mano subito ai vertici dell’amministrazione: segretario generale (la sindaca ha 60 giorni di tempo per confermare Antonella Petrocelli, scelta da Tronca, o cercarne un altro), city manager, Ragioniere generale (potrebbe essere Minenna) e, appunto, capo dell’avvocatura (il mandato di Rodolfo Murra è scaduto con Tronca).
Ma poi, nei questioni interne al Movimento, Raggi si trova a dover fronteggiare i nuovi «sospetti» che vengono agitati nei suoi confronti. In alcuni membri del direttorio, infatti, ha destato non poca preoccupazione la difesa a spada tratta fatta dalla Raggi nei confronti dell’ex alemanniano e polveriniano Raffaele Marra. Quello che, come dice il consigliere regionale del Lazio Davide Barillari «è conosciuto da Raggi e Frongia ma non è completamente fuori da quel sistema che noi stiamo combattendo». Dentro M5S mettono in fila alcuni tasselli: il praticantato della Raggi allo studio Previti, il lavoro nello studio Sammarco, i contatti con la ex segretaria di Franco Panzironi come presidente di una società di recupero crediti, la consulenza con la Asl di Civitavecchia ottenuta (si dice) grazie ad una serie di conoscenze incrociate che portano al direttore generale Giuseppe Quintavalle. Ultimo particolare: qualcuno ha ripescato una pagina del sito del «Grande Oriente Democratico» che ad aprile scorso proponeva «come testo assolutamente ineludibile, imprescindibile e necessario il libro E io pago , autori Laura Maragnani e Daniele Frongia. Mettendo tutto insieme, a qualcuno di M5S è sorta una domanda: chi è Virginia Raggi? Da dove viene? Certo, veleni, malignità. Ma che fanno capire come, sotto la «tregua» firmata col minidirettorio, covi ancora del fuoco.
Repubblica 5.7.16
Roma, da Casaleggio ultimatum alla Raggi “Chiudi entro oggi la lista per la giunta”
Vortice di colloqui per la sindaca, in pole come assessori Minenna e Meloni
di Giovanna Vitale
TEMPO scaduto. Entro oggi, costi quel che costi, Virginia Raggi deve chiudere la lista degli assessori, da presentare dopodomani in assemblea capitolina. Come da calendario annunciato. Senza possibilità di deroga né slittamento alcuno.
A darle l’ultimatum — esteso contestualmente ai quattro componenti del mini-direttorio costituito per affiancare la neosindaca nella prova di governo della capitale — è stato Davide Casaleggio in persona. Il quale, dopo Beppe Grillo, ha deciso di far sentire la sua voce per placare la guerra fra correnti che tanto male sta facendo al Movimento e all’immagine stessa della prima cittadina a 5 stelle.
«La squadra va completata entro martedì», ha tagliato corto il figlio del fondatore. Obbligando la Raggi ad adeguarsi. A innescare una girandola di incontri, consultazioni telefoniche e colloqui coi fedelissimi per riuscire a trovare una sintesi in grado di salvarle la faccia e la poltrona. Sempre in bilico tra le istanze della senatrice Paola Taverna, ricevuta al mattino in Campidoglio, e le pretese di Roberta Lombardi, grande sponsor di Marcello De Vito, l’ex portavoce in consiglio comunale che l’influente deputata avrebbe voluto candidare sindaco, perdendo poi la sfida interna con “Virginia” e i suoi supporter.
Una corsa contro il tempo, condita da gaffe e inciampi sulle nomine, che sta creando non pochi malumori fra i parlamentari pentastellati. Riportati a caratteri cubitali su uno dei siti di riferimento del M5s alle prese con la politica romana: «Per la Raggi comunque vada sarà una sconfitta», titolava ieri ecodaipalazzi.it, aggiungendo nella sintesi a corredo del pezzo: «La neosindaca si è cacciata in un vicolo cieco in cui o viola le norme interne del Movimento oppure dimostra che l’ultima parola spetta al direttorio romano». Un clima da lunghi coltelli che sta rendendo la vita difficile all’avvocata grillina. La quale ieri ha comunque trovato il tempo per confrontarsi con due assessori in pectore: prima Paolo Berdini (Urbanistica, forse in accoppiata con i Lavori Pubblici), poi Paola Muraro, destinata all’Ambiente, a dispetto della richiesta di 200mila euro inoltrata tramite avvocati all’azienda dei rifiuti, che dovrebbe controllare, per un vecchio brevetto da lei inventato. E poi pure intervenire a un’assemblea di dipendenti per annunciare che terrà per sé la delega al Personale. Quasi a voler ostentare quella normalità da tutti pubblicamente dichiarata: «Ci siamo quasi. Non usiamo il manuale Cencelli, ragioniamo e decidiamo insieme», il mantra ripetuto fino allo sfinimento.
Il problema è che resta ancora da stabilire una casella fondamentale per il governo di una città sull’orlo del default. Dopo il pasticcio su Daniele Frongia, il braccio destro della Raggi che per la legge Severino non può fare il capo di gabinetto, la giudice contabile Daniela Morgante (già assessore della prima giunta Marino) è stata infatti dirottata al vertice di quell’ufficio. Lui sarà invece vicesindaco politico con delega alle Partecipate. Facendo così tornare in auge Marcello Minenna, l’ex Consob che la sindaca sin dal principio avrebbe voluto custode dei conti capitolini. Il problema è superare le sue resistenze. Un’impresa nella quale ieri sera si è cimentato Luigi Di Maio, entrato a gamba tesa nella partita romana, nella quale si gioca pure il suo futuro: a cena con l’alto dirigente in un ristorante a Porta Pia ha tentato di convincerlo ad accettare l’incarico in giunta. O, in alternativa, il posto di Ragioniere generale del Campidoglio.
Un risiko che però rischia di scoprire un altro fianco. Al momento le donne certe della squadra sono solo quattro, Raggi compresa, ma per Statuto devono es- sere almeno la metà. Anche l’ultimo assessore individuato per lo Sviluppo economico è infatti uomo: Adriano Meloni, ex ad di Expedia. Senza contare il rebus i Trasporti. Che però entro oggi dovrà essere risolto.
Repubblica 5.7.16
Scende il gelo tra Grillo e Di Maio la corsa del delfino ora è in salita
Il leader chiama la prima cittadina e stoppa le nomine di Frongia e Marra, sconfessando la linea del vicepresidente della Camera
di Annalisa Cuzzocrea
Per i grillini ortodossi era impensabile avere dirigenti ex collaboratori della destra. Il leader inizia a non fidarsi più del vicepresidente della Camera
Luigi Di Maio è membro del direttorio grillino e reggente del Movimento cinque stelle. Prima del brusco stop imposto da Grillo aveva scelto di dare copertura politica alle scelte di Virginia Raggi
Beppe Grillo guida il Movimento cinque stelle. Il leader genovese ha telefonato nei giorni scorsi a Virginia Raggi, sindaca di Roma, per stoppare le nomine di Raffaele Marra e Daniele Frongia nella squadra per il Campidoglio
ROMA. Il grande freddo tra Beppe Grillo e Luigi Di Maio arriva in pieno luglio, alla vigilia dei trent’anni del vicepresidente della Camera (li compirà domani) e sullo sfondo di quella battaglia romana che è diventata il crocevia delle correnti del Movimento 5 Stelle. Il fondatore, ancora detentore di un simbolo da cui ha tolto il nome, ma che rimane di sua proprietà, ha chiamato Virginia Raggi per chiederle di fare un passo indietro sulla nomina di Daniele Frongia a capo di gabinetto e di Raffaele Marra come suo vice. Lo ha fatto perché per gli “ortodossi” nominare qualcuno che avrebbe un potere dimezzato per via della legge Severino (Frongia) e un vice che ha avuto a che fare con l’ex ad di Ama Panzironi, oltre che con Gianni Alemanno e Renata Polverini, era impensabile. Lo ha fatto nonostante la sindaca di Roma fosse stata coperta dalle parole pubbliche, a Spoleto, di Luigi Di Maio. «Non abbiamo pregiudizi su chi ha lavorato in altre amministrazioni », rispondeva l’esponente del direttorio a una domanda su Marra. E invece, quei pregiudizi, gran parte del Movimento li ha.
Così, è servito l’intervento di Grillo a sconfessare la linea sempre più pragmatica del candidato premier in pectore Di Maio, che tra un pranzo all’Ispi alla presenza - il 22 aprile scorso - dei vertici di aziende e istituzioni (tra cui Pirelli, Intesa Sanpaolo, A2A, ENI e l’ex premier Monti), una cena riservata con imprenditori italiani a Londra, una colazione privata con tutti gli ambasciatori dell’Unione e un invito in Israele già questa settimana, tesse una tela che per molti movimentisti della prima ora non è esattamente quella di un perfetto 5 stelle.
La distanza tra Grillo e Di Maio si era già manifestata, viene da lontano. Nei mesi scorsi l’ex comico spesso si era lamentato con un «non mi fido». Una sfiducia nascosta dai toni - sempre in bilico tra commedia e politica del fondatore del Movimento, ma evidente ai più e, soprattutto, palese ai nemici interni di Di Maio che vorrebbero fermarne la corsa a Palazzo Chigi.
Nell’ottobre del 2014 al Circo Massimo, ad esempio, nei giorni in cui si parlava di un’”incoronazione” come leader politico del vicepresidente della Camera, Grillo prendeva la parola dopo di lui sul palco con una battuta: «Era un ragazzo napoletano che diceva poche parole in un paesino della Campania...ora è un mostro, anche gli altri, mostri, io e Casaleggio finiremo al Parlamento europeo con Mastella». E il 24 gennaio 2015, alla Notte dell’Onestà a Roma, il fondatoreringraziava «i ragazzi» definendo Di Battista «il nostro guerriero» e Di Maio «un politico straordinario che piace alle mamme e ai bambini» («”Un politico” - notava in diretta un detrattore - capito che ha detto? »). Va peggio il 18 ottobre 2015: alla kermesse di Imola, dal titolo programmatico «Il Movimento 5 stelle al governo», Beppe Grillo spiegava, fuori dal suo albergo: «Non si tratta di Di Maio o Di Battista. Nel Movimento ci sono decine di persone pronte. Perché dobbiamo candidarle attraverso la tv? Su questo la gente deve maturare». E sul palco, sempre arrivando dopo di lui: «È una macchina da guerra, ma quando lo abbiamo preso parlava come Bassolino. Io gli dicevo: “Luigi come va? E lui: “O nun me romp u cazz”». Quel giorno, a domanda diretta sul futuro di Di Maio da candidato premier, Gianroberto Casaleggio aveva risposto tra i banchetti: «Non è certo, decideremo in rete».
Poco dopo sono arrivati il passo sempre più di lato di Grillo, la morte di Casaleggio, una campagna per le comunali giocata da Di Maio tutta in prima linea, in tv e nelle piazze. E quella distanza dal fondatore, l’esponente del direttorio grillino, non l’ha più subita, ma ha addirittura cominciato a ostentarla. A In mezz’ora, il 30 maggio scorso, spiegava che Grillo è il garante delle regole, ma aggiungeva: «Lo avete più visto su un palco? Lo avete più visto parlare a nome del Movimento? Eppure questo era impensabile tre anni fa. Il passo di lato è nei fatti, senza il famoso parricidio di cui tutti parlavano». Ancor più netto, in una conferenza stampa in cui presentava i candidati sindaci del Movimento, a una domanda sull’uscita di Grillo che prefigurava un “algoritmo” per far espellere i politici traditori, Di Maio tagliava corto: «È solo la battuta di un comico».
La freddezza è certificata. Il futuro non ancora. Le lotte dei 5 stelle, non solo a Roma, sono appena cominciate.
Corriere 5.7.16
Quella visione offensiva che non entra mai nel merito
di Antonella Baccaro
Il mondo è cambiato ma non per Vincenzo De Luca. Al «governatore» della Campania pare difficile accettare che una donna possa rivestire, come lui, un ruolo istituzionale e anche per questo meritare il rispetto che invece De Luca sembra rivendicare per sé. Le parole da lui rivolte ieri alla sindaca di Roma, Virginia, Raggi, «bambolina imbambolata», confermano una visione antiquata e offensiva dell’universo femminile ricondotto a un ruolo puramente decorativo. Ben inteso, De Luca può criticare chi vuole, ma per farlo sarebbe sufficiente che argomentasse nel merito. Il mondo è cambiato e nell’ultimo decennio le donne stanno ricoprendo sempre più incarichi di grandissimo rilievo. Persino in Italia. E diciamo «persino» perché a quanti ieri, alla direzione del Pd, hanno accolto la battuta di De Luca con qualche risolino d’intesa, anziché con le dovute proteste, basterebbe guardarsi intorno. Il mondo è cambiato.
La Stampa 5.7.16
Fornero: le due sindache? Un bel segnale. Ma so che non saranno accolte con mente aperta
L’ex ministro: “Guardate come mi hanno discriminata anche per le lacrime”
intervista di Fabrizio Assandri
«Le sindache? Vanno accolte con mente aperta, con lo stesso atteggiamento che avremmo se fossero due sindaci. Purtroppo non accadrà, io sono stata discriminata anche per le mie lacrime».
La professoressa ed ex ministro Elsa Fornero tende una mano a Virginia Raggi e Chiara Appendino e le mette in guardia dai pregiudizi a cui teme andranno incontro. Lo fa a margine della “scuola di genere” che organizza con Università, Politecnico e Campus dell’Onu di Torino. Non una scuola femminista, ma “per la parità”.
Da ministro s’è sentita discriminata?
«Sei sempre giudicato da angoli visuali un po’ diversi rispetto agli uomini. Un esempio? Le mie lacrime dopo la presentazione della riforma delle pensioni. Erano due piccole gocce, non sono scoppiata in singhiozzi, eppure sono state descritte in maniera incredibile. Le lacrime degli uomini sono considerate quasi espressione di sensibilità virile, quelle di una donna passano come tensione eccessiva e debolezza nervosa. Ho fondato questa scuola anche dopo che molti mi hanno chiesto quanto l’essere donna abbia influito su come sono stata trattata, qualcuno dice lasciata sola».
Come giudica la vittoria delle due sindache?
«Sono molto contenta che ci sia più partecipazione femminile alla politica. Sono donne che non hanno rinunciato alla vita privata e hanno figli. Ecco l’uguaglianza, non rinunciare alla vita privata per un ruolo istituzionale. Il rinnovamento ci vuole, anche se Torino e Roma sono realtà molto diverse, essere sindaco della Capitale è da far tremare i polsi. A Torino, anche se ho votato Fassino, ritengo che Appendino abbia fatto un buon inizio, a partire dal fresco discorso di insediamento. A proposito, preferisco sindaco a sindaca, ma anche il linguaggio cambia».
A quali difficoltà andranno incontro?
«Non c’è normalità della partecipazione nella vita economica e sociale. Su Brexit e Riforma costituzionale quasi mai ci sono opinionisti donne, si credono temi troppo seri per noi, anche se ci sono la Merkel e la Boschi. E poi siamo giudicate per come ci vestiamo, per le nostre borse… C’è troppa cattiveria. Sono stata anche vittima dei social, per questo li frequento poco. La collana di perle della Appendino? Non vedo perché si parli di queste cose: è una persona molto sobria, ha uno stile che mi piace molto».
Dice che si sarebbe aspettata maggiore solidarietà proprio dalle donne, in che senso?
«Una volta una signora mi ha attaccata perché la facevo andare in pensione più tardi e mi diceva che lei doveva già fare tutto in casa. Altri dicevano “non ci saremmo aspettati questo da una donna”, perché volevo che l’età di pensionamento fosse uguale per tutti e non anticipata per le donne. In Europa è già così: se uno ha in casa un marito che non alza una forchetta, bisogna correggere il marito, non pesare sul sistema pensionistico».
Che genere di attacchi ha ricevuto?
«Un vignettista mi rappresentò come una prostituta, in attesa di una telefonata di Marchionne, con la scritta “Call girl”. Mi sarei aspettata che qualcuno dicesse che è inaccettabile, ma sulle donne sono leciti stereotipi così. Poi hanno cercato di bloccarmi, la sera prima della convenzione di Strasburgo sulla violenza di genere. I solerti che pensano di interpretare il pensiero della Chiesa mi dissero che non potevamo parlare di genere: dissi che mi sarei fermata solo se mi chiamava Monti. Non lo fece e al mattino andai a Strasburgo a firmare la convenzione. Quella notte non ho dormito, e in fondo anche lì aspettavo una telefonata (aggiunge ridendo, ndr), Call girl».
Repubblica 5.7.16
Il presidente del consiglio si è convinto che dietro le manovre su riforme e legge elettorale c’è l’idea di un nuovo esecutivo
L’allarme del segretario “Il vero obiettivo di alcuni cacciarmi da Palazzo Chigi e riprendersi il partito”
Sullo sfondo l’ipotesi di un governo di larghe intese guidato da Padoan in caso di vittoria del No
Anche il leader Ncd Alfano, senza garanzie sul sistema elettorale, pensa ad una successione governativa
di Goffredo De Marchis
ROMA. Prendere tempo anche se di tempo non ce n’è. Matteo Renzi non vuole toccare la legge elettorale, non vuole fare annunci prima del referendum sebbene il pressing dei sostenitori della modifica sia ormai scoperto e ci sia un legame con la consultazione di ottobre. Ieri il cuore del premier stava con il ministro Delrio che testualmente diceva: «Non sono d’accordo con Franceschini. Discutiamo, ma abbiamo sempre detto che nelle nostre corde c’è una democrazia che decide». Il commento di Renzi si è manifestato nell’applauso esibito e in un sms agli amici: «Graziano è sul pezzo». Perchè la paura del premier è che la modifica dell’Italicum sia un cavallo di Troia per avviare le pratiche di un nuovo governo. In questo senso, va interpretata anche la forzatura istituzionale sul post-referendum in caso di vittoria del No: io me ne vado, ma si sciolgono anche le Camere e si torna al voto.
La testa però suggerisce a Renzi di non rompere fragorosamente con fronte sempre più ampio. Dunque, conviene tenersi le mani libere. Stare anche con Franceschini che invece considera necessario correggere l’Italicum. «Rimanere nel mezzo», è oggi la parola d’ordine di Palazzo Chigi. Può durare?
La risposta del ministro della Cultura è no. E non perchè sia lui a congiurare contro l’esecutivo. Altrimenti, fanno notare i suo fedelissimi, non sarebbe uscito allo scoperto in direzione e con grande anticipo rispetto a ottobre. Saranno i segnali esterni a determinare le condizioni di una possibile crisi.
L’impressione è che Franceschini si sia fatto “garante” in queste ultime settimane, dopo la sconfitta alle Comunali e l’evidenza del “pericolo” Grillo, di un fronte parlamentare traversale. Parla con Angelino Alfano e sa che i centristi sono «sull’orlo di una rottura» perchè non hanno alcuna certezza sul futuro. L’Ncd ha rinviato anche la sua riunione in attesa della direzione del Pd. «Prima dobbiamo sentire che dice quello lì», ha confidato il ministro dell’Interno ai colleghi di partito. I voti centristi sono determinanti per la sopravvivenza del governo. E se è vero che tra poco arriva il generale agosto a evitare le trappole della guerriglia parlamentare, è anche vero che il calendario non mente. Prima di agosto c’è tutto luglio e prima di ottobre, il mese del referendum, c’è settembre. Le occasioni per uno scherzo all’esecutivo non mancheranno, volendo.
Poi, c’è il versante della destra. Chi dentro il Pd spinge per una correzione del sistema elettorale ha annusato l’ambiente berlusconiano e ha trovato conferma delle voci di questi giorni: in cambio di una modifica dell’Italicum l’atteggiamento contrario al referendum costituzionale avrebbe un sapore più soft. Senza contrapposizioni dirette alla campagna renziana per il Sì. Infine la minoranza del Pd avrebbe minori argomenti per “facilitare” la strada dei contrari. Anche se Renzi non crede affatto che un’apertura potrebbe moderare i toni di Pier Luigi Bersani: «Apriamo alle coalizioni? E loro rilanceranno sul Mattarellum. C’è poco da fare: vogliono solo il mio scalpo».
Ma la direzione di ieri è servita a Renzi per capire i margini di manovra dentro il suo Pd. Ha avuto un
warning chiaro da Piero Fassino e da Franceschini, ma ha tenuto dalla sua parte, ovvero da quella di chi vuole blindare la riforma elettorale, Delrio e Matteo Orfini, non a caso applauditi a scena aperta dal premier. In parole povere, significa avere la sponda dei cattolici ulivisti e della sinistra dei Giovani Turchi che fa capo allo stesso presidente del Pd e a Andrea Orlando, il ministro della Giustizia. È uno schieramento in grado di costruire una maggioranza interna ancora solida, persino di fronte alla defezione, eventuale, dei franceschiniani.
Il match, da qualunque parte lo si guardi, coinvolge l’Italicum solo per l’immagine pubblica. In gioco c’è il futuro di Renzi e la possibilità di un governo diverso dal suo. Qualcuno sta già facendo ipotesi in caso di Renxit, inviduando in Piercarlo Padoan il successore naturale e più adatto. In caso di vittoria del No, l’evento cadrebbe nel pieno della discussione sulla legge di stabilità.
Il ministro dell’Economia avrebbe dunque il compito di condurre in porto la manovra 2017, modificare la legge elettorale e fare anche la “finanziaria” del 2018, prima di tornare al voto. Sono solo scenari, certo, e non tengono conto della variabile Grillo. Quanti voti le trame contro di loro portano al Movimento 5 stelle?
Corriere 5.7.16
Pd, scontro in direzione con la sinistra Renzi: vincete il congresso, così lascio
di Alessandro Trocino
«Referendum cruciale». Ma la minoranza: libertà di voto. E Franceschini critica l’Italicum
ROMA Stavolta la resa dei conti c’è stata davvero, con uno scontro cruento tra il segretario Matteo Renzi e la minoranza, guidata da Gianni Cuperlo. E un voto su un ordine del giorno della sinistra Pd, che chiedeva mani libere sul referendum, bocciato a grande maggioranza (solo otto sì), anche dopo un intervento deciso (e contrario) del vicesegretario Lorenzo Guerini («no ad ambiguità, il Pd è per il sì»).
Una direzione incandescente, con il segretario che avverte eventuali «congiurati»: «Basta con la strategia del Conte Ugolino, basta divertirsi ad abbattere i leader. Non funziona. Ma se volete farmi fuori, chiedete il Congresso e vincetelo». Renzi va all’attacco e tra una stilettata e l’altra cerca di serrare i ranghi di un Pd scosso dalle Amministrative e dalle divisioni interne in vista del referendum costituzionale.
Gianni Cuperlo si esibisce in un intervento dai toni ultimativi. Lo rimprovera per la «battuta su Marchionne»: «Quanti voti ci è costata?». Sentenzia: «La teoria del doppio incarico è fallita». Chiede, senza punto di domanda: «Io ti dico fermati e rifletti. Stai disperdendo parte della storia che è anche mia. Hai detto a Grillo “esci dal blog, entra nel mondo reale”. Lo ha fatto e ha Roma e Torino. Ora io dico: esci tu dal talent di un’Italia patinata e scopri la modestia, che non è nel tono della voce». E ancora: «Senza una svolta, condurrai la sinistra italiana a una sconfitta storica». Renzi non abbozza: «Gianni, io sono fuori dal talent . Ci sono dentro per la vostra macchiettistica rappresentazione. C’è un racconto stereotipato che vede un gruppo di arroganti chiuso nel suo “giglio magico”. È una cosa allucinante, non vera. Al racconto di chi mi crede invischiato in un regime di plastica, rispondo che siamo impegnati a restituire speranza all’Italia». Poi un momento in cui sembra commuoversi: «Non sapete cosa significa vivere con un apparato di sicurezza che non mi consente nemmeno di vedere mio figlio giocare a calcio perché si vergogna».
In apertura, Renzi aveva definito «cruciale» il referendum: «È cruciale. Se vince il no, noi, ma penso anche il Parlamento, non potremmo non prenderne atto». Poi attacca il reddito di cittadinanza, «sarebbe devastante» e parla di politica estera: «Sanzionare Spagna e Portogallo sarebbe un errore, dopo la Brexit».
Sulla legge elettorale interviene il ministro Dario Franceschini, che apre a modifiche: «Dopo il referendum, penso che ci sia bisogno di ragionare sulla possibilità di far esistere le coalizioni. Includere, per difendersi dai populismi ed evitare l’estremizzazione della destra». Parere non condiviso da Graziano Delrio e da Matteo Orfini: «Non si può avere paura di Verdini e poi inserire l’elemento che amplifica l’esistenza di tanti Verdini». Prima della Direzione era intervenuto il leader Ncd e ministro Angelino Alfano, per rassicurare: «Noi siamo per il premio alla coalizione, ma non faremo mai ricatti al governo».
Sul doppio incarico interviene Roberto Speranza: «Matteo, non ho chiesto le tue dimissioni e non mi interessano poltrone. Ma finora non hai fatto il segretario: valuta tu». Chi ha fatto le sue valutazioni è Fabrizio Barca: «La relazione dimostra — scrive in una nota — che non c’è la volontà di avviare le revisioni dell’organizzazione del partito che avevano indotto a creare una Commissione. Mi dimetto dalla Commissione, che ha rivelato la sua assoluta inutilità».
Corriere 5.7.16
Le mosse degli inquieti e il monito del leader: sul carro poi non si risale
I sospetti sul ministro della Cultura e sui dem a lui vicini
di Monica Guerzoni
ROMA Non ne può più, Matteo Renzi, di quella fastidiosa eco di voci che si alza dai divanetti del Transatlantico di Montecitorio, lo insegue fin dentro le stanze di palazzo Chigi e racconta di cene, di trame, di sospetti. E così ieri, al termine della lunga relazione davanti al parlamentino del Pd, il segretario premier ha stoppato l’evidente risorgere delle correnti e le presunte aspirazioni ribaltoniste dell’ala franceschiniana, richiamando all’ordine i renziani. Quelli che azzardano corse solitarie e quelli che hanno reagito alla batosta elettorale rifugiandosi nello sconforto.
«Renzi ha perso il tocco magico» aveva dichiarato sollevando un certo clamore Matteo Richetti. Ed è a lui, anche noto alla Camera come «il bello del Pd», che il leader ha dedicato senza nominarlo la prima tirata d’orecchi, comprensibilmente offeso per i «balbettanti sussurrii» di un leopoldino della primissima ora. Tra l’altro impegnato in questi giorni in un tour per la presentazione di Harambee! , il libro che racconta la sua idea di politica e di cambiamento.
Ma non è certo Richetti il vero obiettivo degli strali di Renzi, convinto che l’altro Matteo — come Graziano Delrio — gli resteranno fedeli anche nella cattiva sorte. Se l’ex sindaco di Firenze ha alzato (e di molto) i toni con i suoi è perché non ha voglia alcuna di finire come Prodi e Veltroni, divorato dal proprio partito. «La strategia del Conte Ugolino non funziona» ha ammonito il segretario e mentre alcuni sguardi cadevano su Massimo D’Alema, tornato dopo tanto in direzione, altri cercavano Dario Franceschini.
Per due anni il ministro si è concentrato solo sulla Cultura, ma da qualche settimana il suo ritrovato attivismo ha dato nell’occhio a Palazzo Chigi. La cena con Giacomelli, Fassino, Sereni, Zanda e gli altri? Il governo del presidente per fare una nuova legge elettorale? Il legame dell’ex segretario del Pd con il Quirinale? Ricostruzioni e voci che Renzi non cita, ma che forse ha chiare quando scandisce il suo avviso ai naviganti: «La stagione in cui qualcuno dall’alto della sua intelligenza si diverte ad abbattere il leader è finita». E ancora: «Radio Transatlantico dice che i renziani dell’ultima ora scendono dal carro... Quando cercheranno di risalire troveranno occupato».
Il messaggio è chiaro, posto per tutti nel prossimo Parlamento non ce n’è. Nessuno è garantito, nemmeno i renziani del giro ristretto. Anche perché la scuola di formazione politica, Classe democratica, è stata un successo e a settembre si replica. Il leader avrebbe già adocchiato tra gli studenti della prima edizione qualche decina di giovani promesse, da schierare in lista alle politiche. E altri volti nuovi arriveranno dai comitati per il si al referendum. Occhio alla poltrona, è dunque il messaggio «ai renziani o presunti tali».
Quando Franceschini ha preso la parola, ai delegati non è sfuggita la rinnovata promessa di lealtà al premier. Resta il fatto che il ministro della Cultura è il primo pezzo grosso del partito e del governo a chiedere pubblicamente di cambiare la legge elettorale, come fanno ormai da mesi la minoranza di Bersani, gli azzurri di Berlusconi e i centristi di Alfano e Casini. Per quanto Franceschini abbia gettato acqua sul fuoco spostando l’obiettivo al dopo—referendum, la novità è stata colta al volo anche dalle opposizioni. «Franceschini ha detto a Renzi “cambia l’Italicum o ti faccio cadere”» è la sintesi brutale dell’azzurra Laura Ravetto sul posizionamento del ministro.
A qualcuno, tra i membri del governo, è tornato in mente quel cdm, il primo dopo le amministrative, in cui Alfano sfidò Renzi, tra implorazione e minaccia: «Tu ci devi dare una prospettiva, sennò siamo morti e non possiamo svolgere il compito di essere tuoi alleati». Poi parlò Franceschini e spezzò una lancia per il ministro dell’Interno. Il premier ascoltò in silenzio e lasciò a Paolo Gentiloni il compito di chiudere il giro, ribadendo che «per adesso» la legge elettorale non si tocca e «dopo il referendum si vedrà».
Repubblica 5.7.16
La sindrome di Giano bifronte
di Stefano Folli
PIÙ che un singolo partito, il Pd oggi è una specie di Giano bifronte: due facce che guardano in direzioni opposte e si tengono insieme per convenienza e opportunità tattica. Non è una novità, ma la riunione della Direzione ha rafforzato questa immagine e l’ha proiettata sull’orizzonte di medio termine: a cavallo del famoso referendum costituzionale, quando si decideranno molti aspetti legati all’identità del centrosinistra e all’assetto del sistema politico. Ognuno ieri ha recitato la sua parte, qualcuno più stancamente di altri. Renzi ha interpretato se stesso, come sempre. Non si può dire che il premier- segretario ami cambiare copione. Ne conosce uno solo e lo svolge con la consueta determinazione. Si può riassumere così: non è vero che il mio governo ha abbandonato i temi sociali della sinistra, in due anni ho fatto più di coloro che mi hanno preceduto; non mi farò abbattere da una congiura di palazzo e non mi farò logorare giorno dopo giorno, chi vuole sostituirmi pensi a vincere il prossimo congresso; non rinuncerò al doppio mandato di capo del partito e capo del governo; il referendum è cruciale, la vittoria del No comporta le mie dimissioni e, “io penso”, anche la probabile dissoluzione della legislatura; l’Italicum non si può cambiare perché non ci sono i voti per farlo; occupiamoci dell’Europa e dei grandi temi umanitari invece di affondare nelle beghe domestiche.
Lo schema è più o meno fisso, arricchito questa volta da un’analisi puntigliosa sui risultati delle amministrative, determinati da situazioni locali diverse da città a città. L’obiettivo del premier resta la vittoria referendaria. Il Sì equivale nella sua valutazione a vincere una battaglia decisiva, in grado di rovesciare le sorti della guerra. Il Sì rimescola gli elettorati, abbatte gli steccati fra i partiti, rende obsolete le “correnti” come pure le manovre tipiche della Roma politica. Il Pd come Giano, due in uno, verrebbe azzerato e l’alba del giorno dopo vedrebbe la nascita di un partito idealmente nuovo e purificato sotto la leadership renziana.
Logico che in tale cornice il premier pensi soprattutto al rapporto con l’opinione pubblica. E infatti, fra tante critiche che non lo turbano, ce n’è una che si preoccupa di rintuzzare: l’accusa di non dare risposte al disagio sociale, da cui il consenso perduto nei grandi agglomerati popolari, nonché l’ascesa del risentimento con le vittorie dei Cinquestelle. Qui si coglie anche l’indizio di un certo imbarazzo, il presagio di una sconfitta che oggi non può essere esclusa. Il combattente politico è sempre tale, ma forse il tono è meno spavaldo che in passato. Fida ancora nel proprio talento comunicativo e nella debolezza dei suoi avversari, ma si rende conto che l’età dell’oro, il quasi 41 per cento delle elezioni europee del 2014, è alle spalle.
Così l’altro partito stavolta mette in tavola le sue carte e risulta meno improbabile che in altre circostanze. Decisioni concrete non se ne sono viste, ma la Direzione ha vissuto un confronto meno evanescente del solito. Speranza stigmatizza lo “scontro di civiltà”, ossia la tendenza renziana a contrapporre gli amici ai nemici. Cuperlo è malizioso nell’invitare il segretario a uscire dal “talent”, cioè da una realtà fittizia e rassicurante. Fassino dice che il voto comunale “ci ha consegnato alcuni nodi”. Soprattutto si è capito che il Pd non si riconosce unito dietro la bandiera del Sì referendario; al contrario la tesi del No guadagna campo in nome della neutralità di una scelta che riguarda la Costituzione.
Sullo sfondo, naturalmente, c’è la legge elettorale. Ed è stato Franceschini a introdurre la vera novità della giornata, proponendo di modificare l’Italicum (con il premio alla coalizione e non alla singola lista vincitrice), ma solo dopo il referendum: quando si tratterà di delimitare il terreno dello scontro fra “populisti” e “sistemici”. Ossia, sembra di capire, fra i movimenti anti-sistema e l’alleanza degli altri, quelli del “sistema”. Scenario non esente da rischi, verrebbe da dire. Anche perché limitarsi a correggere l’Italicum, potrebbe non essere la soluzione adeguata per riavvicinare elettori ed eletti.
Corriere 5.7.16
Londra Anno Zero
Governo allo sbando, conservatori senza leader, Labour al collasso
e populisti in crisi: l’élite britannica è rottamata. E la crisi sarà lunga
di Fabio Cavalera
LONDRA Chi perde se ne va. E chi vince pure. La spiegazione è paradossalmente semplice. Quelli che hanno voluto il referendum e ne sono usciti con le ossa rotte non possono restare in sella per una questione di dignità. Che credibilità hanno? Quelli che invece hanno cavalcato il referendum e portato a casa la Brexit, sotterrati da tradimenti e invidie, non sanno proprio che pesci pigliare e lasciano il campo.
Londra anno zero. L’élite di Westminster è rottamata (usiamolo il tanto vituperato verbo) e paga il risultato del 23 giugno. In fin dei conti era ciò che desideravano gli elettori. L’Europa, per loro, era solo il pretesto di mandare al diavolo sia chi è maggioranza sia chi è all’opposizione, obbligandoli a mostrare la loro debole sostanza. Obiettivo centrato. Il re è nudo.
La fotografia è una landa desolata di macerie: il governo ha i piedi fuori da Downing Street, i conservatori cercano un nuovo leader, i laburisti sono collassati se non moribondi, lo Ukip ingoia l’addio di Nigel Farage e deve riscrivere la sua agenda populista, estremista, demagogica ma, riconosciamolo, efficace. La consultazione è stata un fantastico esercizio di democrazia però se David Cameron avesse saputo all’inizio del 2013, quando decise di cavalcare l’onda euroscettica per superficiale calcolo di potere, probabilmente avrebbe preso altre strade. Passerà alla Storia per il primo ministro che, senza saperlo, ha scoperchiato il vaso di Pandora da cui è fuoriuscito di tutto.
Westminster, dismesse le vestigia di grandezza e di fair play politico, è un covo di trame e di gossip in cui ogni colpo è consentito. I conservatori se le tirano addosso gli uni contro gli altri. I laburisti arrivano quasi alle mani. E l’unico rappresentante dello Ukip (nonostante tre milioni di voti nel 2015), l’ex tory Douglas Carswell, ha già il problema di respingere i veleni che gli piovono addosso dagli Ukip della prima ora.
La classe dirigente politica è in braghe di tela. Le maschere sono cadute. Gli amici di Boris Johnson scaricano fango sugli amici di Michael Gove, il ministro della Giustizia che gli ha voltato le spalle. La sorella di Boris accusa Michael di essere «uno psicopatico». E Michael replica assoldando il papà di Boris nelle schiere dei suoi fan. Sciabolate feroci.
Poi, entrambi cercano un appiglio per bloccare la scalata di Theresa May e di Andrea Leadsom, usando come clava contro le due signore il pettegolezzo dei giornali che la prima è malata di diabete (può essere primo ministro chi ha problemi del genere?) e che la seconda ha nell’armadio lo scheletro di alcune dichiarazioni dei redditi sospette.
Naturalmente le due signore si scambiano «cortesie» da pub rivendicando l’eredità di Margaret Thatcher. «Non perdiamo la testa» strilla la copertina del settimanale conservatore di riferimento, The Spectator .
Via Cameron, via Johnson, via Gove (forse). Crollano le certezze, emergono le vanità di un mondo tory che si deve curare in fretta. Ma attorno a chi? Non esiste una figura forte nel fronte Brexit, neppure nel fronte opposto. Chi si candida a Downing Street non è un fuoriclasse di idee e progetti. La favorita è Theresa May, lo diranno i 150 mila iscritti entro il 9 settembre. Se non altro il processo è cominciato.
Penosa è l’agonia laburista. Il gruppo a Westminster ha sfiduciato Jeremy Corbyn che a dispetto dei santi non medita affatto di andarsene. Le vecchie correnti, amici e nemici di Blair, sono superate.
Il variegato universo di movimenti che ha spinto Corbyn è esploso. C’è attorno al numero uno il cerchio magico dei duri e puri. Che lo tiene su, imponendogli le scuse pubbliche (adesso) per avere definito «nostri amici» gli Hezbollah e per avere equiparato Israele all’Isis. Poi satelliti impazziti. Per il centrosinistra britannico la Brexit è una catastrofe.
E non è finita qui. In questo quadro si sta per abbattere la relazione Chilcot, domani, che racconterà fatti e misfatti del conflitto in Iraq, della scelta compiuta da Tony Blair nel 2003, delle sue promesse a Bush. C’è chi sussurra che fra i laburisti qualcuno avanzerà la proposta di accusare l’ex leader di crimini di guerra. Ultimo botto in una Westminster che è a pezzi. La ricostruzione sarà lunga.
La Stampa 5.7.16
Brexit e Farage, ecco perché chi vince lascia
di Francesca Sforza
Nigel Farage, il leader del Partito dell’Indipendenza del Regno Unito, uno degli uomini che ha associato il proprio volto alla Brexit, ha rassegnato le dimissioni dal partito: «Durante la campagna per il referendum ho detto che volevo riprendermi il mio Paese – ha dichiarato – adesso voglio riprendermi la mia vita». Obiettivo raggiunto, missione compiuta, si torna a casa. La sua uscita di scena segue di poco quella di un altro grande sostenitore di Brexit, l’ex sindaco di Londra Boris Johnson, che poco dopo la vittoria della sua linea, ha dichiarato di non poter essere lui l’uomo giusto a rappresentare il partito conservatore britannico. «Quando le cose si mettono al peggio, loro se ne vanno», ha titolato senza esitazioni il settimanale tedesco Spiegel, indugiando sul fatto che i due volti-simbolo dello strappo inglese, nell’arco di soli dieci giorni, hanno di fatto abbandonato la scena nel momento in cui circa 17 milioni di cittadini erano lì che avevano appena finito di applaudirli. Anche il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, del resto, aveva da poco dichiarato di essere sconcertato dal fatto che Johnson non avesse un «piano definito per l’implementazione della Brexit». Ed è proprio guardando la sorpresa tedesca che è possibile mettere a fuoco la distanza tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna.
Berlino, al fondo, non si spiega come una simile frattura si sia potuta consumare: nei rapporti dei corrispondenti, negli editoriali, persino nelle trasmissioni televisive, va in onda dal giorno dopo il referendum una drammatizzazione dello choc. Si parla di inglesi pentiti, di ripensamenti ormai impossibili – ma al fondo disperatamente desiderati – di scenari in cui si alternano, a seconda delle voci, leve ricattatorie, colpevolizzazioni calviniste, nostalgie di matrice romantica. Anche altre opinioni pubbliche europee ne hanno risentito, insistendo sugli sprovveduti che non avevano capito bene la posta in gioco o calcando la mano sugli anziani di campagna che avrebbero spinto il Paese fuori dall’Ue e sui giovani impotenti di fronte a tanta arretratezza (dati questi ultimi poi smentiti, perché i giovani, invece, hanno votato in pochi).
La realtà britannica, vista con gli occhi di chi ha votato e di chi partecipa ogni giorno alla vita pubblica, racconta però una storia un po’ diversa, dove la tattica politica fa premio sulle grandi strategie, e le richieste dei cittadini ruotano intorno alla paura dei migranti, al lavoro, le tasse. Durante l’ultimo comizio di Corbyn – che descriviamo come leader afflitto in calo di consensi, ma che invece continua a essere seguito con tenacia dal popolo Labour – già quasi nessuno parlava più di Brexit. In questa prospettiva l’addio di Farage è un po’ come il ritiro dello sportivo che ha vinto tutto quello che c’è da vincere e l’uscita di Boris Johnson è il rinvio tutto politico di un appuntamento che lo vedrà probabilmente tornare con più forza alle elezioni generali del 2020, né si capisce perché mai avrebbe dovrebbe cadere su di lui – e non sul governo in carica e sulle sue strutture amministrative – la responsabilità di implementare il dopo Brexit. Persino la regina Elisabetta non interviene. Gli inglesi sono fuori dall’Unione, forse lo erano prima ancora di votare. Per tutti gli altri è arrivato il tempo di farsene una ragione, quantomeno di smettere di sorprendersi.
Repubblica 5.7.16
Le tre carriere “stroncate” dal referendum
di John Lloyd
L’EUROPA non ha simpatie per i politici britannici di destra, perché su Bruxelles il partito si è spaccato per decenni. Patriottismo, sovranità e atlantismo sono stati e restano i pilastri più importanti sui quali si regge il pensiero dell’ala di destra. Mercati aperti, libero commercio e cooperazione in Europa sono sentiti invece con maggior forza dall’ala sinistra liberale. Tra queste due forze negli ultimi decenni sono stati sacrificati alcuni importanti personaggi. Il più famoso è Margaret Thatcher, premier costretta alle dimissioni dai suoi colleghi liberal nel 1991, quando divenne sempre più ostile all’Ue. Il suo successore John Major, gravemente indebolito dalle battaglie contro l’ala sempre più potente degli antieuropeisti, perse le elezioni nel 1997 a favore del New Labour di Tony Blair.
Per placare la destra dei Tories, tornati al potere nel 2010 in coalizione con i liberal-democratici, il premier David Cameron aveva promesso un referendum sulla permanenza nell’Ue, pensando che avrebbe prevalso l’opzione “Remain”. Cameron ha però sottovalutato la forza dei sentimenti contro gli immigrati dall’Europa dell’Est e il risentimento per le ineguaglianze, i salari stagnanti, la perdita di posti di lavoro per i giovani. Abituato a vincere — nelle elezioni del 2015 umiliò il Labour — ha ritenuto inammissibile la sconfitta e si dimetterà non appena sarà scelto un nuovo leader.
Si prevedeva che a succedergli sarebbe stato Boris Johnson, ex sindaco di Londra, uomo capace, spassoso e affascinante, dalle grandi ambizioni e dall’immensa popolarità. Da sindaco era sempre stato un valido sostenitore dell’Ue, ma nel guidare la fazione “Leave”ha visto l’occasione di scalare i vertici del potere e l’ha afferrata.
Tuttavia, il grande interrogativo che incombeva su di lui, “Smetterà di fare il burlone? Diventerà un politico serio?”, ha ricevuto risposta negativa. Johnson è apparso più sconvolto che rallegrato dal voto a favore della Brexit. Quando il suo ex amico, il ministro della Giustizia Michael Gove, ha detto che Johnson era inadatto a fare il premier e ha deciso di candidarsi contro di lui, si è subito fatto da parte.
Le ultime dimissioni sono quelle di Nigel Farage, leader dell’Ukip che ha guidato la campagna per il Brexit. Ha detto di aver raggiunto il suo obiettivo — «ci siamo ripresi il nostro Paese» — e di voler adesso «riprendersi la sua vita».
L’Unione non ha soltanto posto fine a molte carriere: in questo freddo e piovoso inizio d’estate ha gettato la politica britannica in una catena di crisi. Il paese ne uscirà, ma con quale tipo di rapporto con il resto d’Europa per il momento lo ignoriamo.
(Traduzione di Anna Bissanti)
Repubblica 5.7.16
Il Ratto d’Europa
La lezione di Brexit
di Massimo Riva
IL DIBATTITO post-Brexit sta prendendo alcune pieghe fuorvianti.
Nella stampa anglosassone (e non solo) viene riproposta, per esempio, l’antica querelle su limiti e pericoli dei voti plebiscitari. Nel senso di offrire come chiave principale di lettura la contrapposizione emersa nel referendum britannico fra il “Remain” propugnato dalle élite politico- economiche e il “Leave” abbracciato dal voto dei ceti, diciamo così, meno acculturati. Un tipico modo questo di rendere così astratti i problemi sul tappeto da perdere ogni contatto con la concretezza dei medesimi. In termini calcistici si direbbe che è il classico calcio della palla in tribuna.
Gli elitari hanno poco da rammaricarsi se l’esito del voto non è stato quello da loro auspicato perché sono stati essi stessi a creare le condizioni più favorevoli al risultato uscito dalle urne. Per anni — anche fuori dal Regno Unito — si è alimentata una campagna di disinformazione nella quale l’Unione europea veniva sprezzantemente definita come il luogo nel quale si discuteva soltanto di curvatura delle banane o di diametro dei cetrioli. Per giunta contrapponendo a queste insidiose banalizzazioni solo retorici e occasionali omaggi verbali all’importanza dell’unità continentale. Rare o nulle le voci autorevoli, soprattutto nei recenti anni di crisi economica virulenta, che trovassero il coraggio politico di richiamare l’attenzione sia sui benefici enormi connaturati all’esistenza di un mercato unico da circa mezzo miliardo di persone sia sull’esigenza pressante di procedere più avanti e speditamente sulla strada di una maggiore integrazione.
Di cosa meravigliarsi se l’elettorato britannico ha votato come si sa? David Cameron per primo ha fatto il possibile e l’impossibile per nutrire l’avversione dei suoi concittadini verso Bruxelles dipingendo le istituzioni comunitarie come il quartier generale di forze nemiche del popolo inglese.
Come poteva poi pensare che bastasse un’acrobatica giravolta dell’ultimo minuto a sterilizzare i semi dell’ostilità da lui stesso sparsi a piene mani? Sia Cameron sia gli sconcertati banchieri della City di una sola cosa possono stupirsi: che, alla fine, la vittoria di Brexit abbia avuto nelle urne numeri fin troppo contenuti. E ciò perché molti votanti — soprattutto in Scozia e in Irlanda del Nord — si sono dimostrati meno stupidi e più maturi dei loro governanti a Londra.
Cosicché la lezione inglese suona oggi di vitale importanza anche per gli altri paesi. A cominciare dal nostro, dove le spinte anti-Ue stanno dilagando in un crescendo di farneticanti proposte di isolazionismo dell’Italia senza incontrare la netta, dura, argomentata resistenza dei fautori del progetto europeo. Il leghista Salvini chiede il divorzio da Bruxelles per murare i confini, mentre i 5stelle vogliono uscire dall’euro per tornare alla droga delle svalutazioni monetarie.
Una classe dirigente, degna di questo nome, dovrebbe rispondere colpo su colpo a simili follie prima che anche in Italia si consolidi un clima d’opinione analogo a quello in cui è maturata Brexit. Non pare poi così difficile spiegare agli italiani che il ritorno all’economia del campanile è un esiziale controsenso storico.
Repubblica 5.7.16
Il ministro May: “Niente garanzie a chi lavora e vive qui, serve una trattativa con Bruxelles”. Nel paese 500mila italiani
“Europei a rischio espulsione” La minaccia del Regno Unito
di E. F.
LONDRA. Tre milioni di cittadini europei che risiedono e lavorano in Gran Bretagna, tra cui più di mezzo milione di italiani, potrebbero essere teoricamente “deportati”, ovvero espulsi, come conseguenza dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. É la posizione assunta da Theresa May, ministro degli Interni britannico e attualmente il candidato favorito per diventare leader del partito conservatore nelle primarie e primo ministro al posto del dimissionario David Cameron.
Intervistata in tivù, Theresa May dichiara: «Ci sarà un negoziato con la Ue su come risolvere la questione dei cittadini europei che si sono già stabiliti nel Regno Unito e dei cittadini britannici che vivono negli altri paesi della Ue. Al momento non ci sono cambiamenti nel loro status e nei loro diritti, ma naturalmente è un elemento che dovrà fare parte della trattativa sui nostri futuri rapporti con la Ue». Spiega al quotidiano Independent una fonte a lei vicina: «Quello che la ministra intende è che non sarebbe saggio promettere fin d’ora a tutti i cittadini europei residenti in Gran Bretagna che potranno restare qui a tempo indeterminato. Se lo facessimo, gli stessi diritti si applicherebbero a qualunque cittadino della Ue che si trasferisse qui durante il negoziato con la Ue e fino alla nostra uscita dalla Ue. E se prendessimo un simile impegno, potrebbe esserci un enorme influsso di cittadini europei che vorrebbero venire qui fino a quando avrebbero questa opportunità». Precisa la stessa fonte: «Sarebbe una cattiva posizione negoziale. Non avrebbe senso garantire i diritti dei cittadini della Ue in Gran Bretagna senza avere le stesse garanzie per i cittadini britannici (circa 1 milione e mezzo, ndr) che vivono nei paesi della Ue».
Si tratta dunque soltanto di una posizione tattica, non di principio. Ma è sufficiente a spingere l’Independent ad aprire il proprio sito con il titolo: «Theresa May rifiuta di escludere la deportazione dei cittadini della Ue residenti in Gran Bretagna per evitare un afflusso di immigrati». E basta a provocare l’immediata reazione di Tim Farron, leader del partito liberal democratico, finora l’unico partito britannico che ha messo nel programma per le prossime elezioni la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea: «È scandaloso che Theresa May non dia agli europei che vivono, lavorano e pagano le tasse in Gran Bretagna la certezza che avranno il diritto di restare qui. Chiediamo alla ministra degli Interni di garantire che il futuro di tutti gli europei che risiedono qui potrà essere nel Regno Unito ». Sull’argomento interviene pure un’altra candidata alla leadership dei Tories, la ministra dell’Energia Andrea Leadsom, sostenendo che i diritti degli europei giù presenti in Gran Bretagna vanno protetti e che essi non possono essere usati come “gettone negoziale” sul tavolo della trattativa. Una cosa è certa: per i 3 milioni di europei del Regno Unito, così come per 1 milione e mezzo di britannici negli altri 27 paesi della Ue, cresce l’incertezza, come rivela la corsa degli uni e degli altri a procurarsi un secondo passaporto, britannico o europeo, per non perdere lo status e i diritti a cui si sono abituati. Sempre che la Gran Bretagna, alla fine, esca davvero dall’Europa. Autorevoli esperti legali avvertono il governo che il referendum è consultivo e solo il parlamento ha il potere di approvare la secessione dalla Ue. Più che una decisione, Brexit somiglia sempre di più a un enigma che nessuno sa risolvere. “Anarchia in Gran Bretagna”, come titola l’Economist.
Corriere 5.7.16
Il seminario annullato e il coraggio che manca ai socialisti francesi
di Stefano Montefiori
L’ Université d’été a La Rochelle era una delle ultime buone tradizioni rimaste al partito socialista francese. Dal 1993 e fino all’anno scorso, a fine agosto, il Ps ha organizzato nella città dell’Atlantico un seminario aperto a militanti e non, una specie di congresso informale dove discutere, provare a parlare di politica e — addirittura — di idee. Quest’anno il segretario Jean-Christophe Cambadélis prima ha trasferito l’evento da La Rochelle a Nantes, poi lo ha annullato, spiegando che «non ci sono le condizioni di tranquillità e di sicurezza. Da molte settimane le nostri sedi di partito vengono attaccate, anche con colpi di arma da fuoco, senza che questo sconvolga nessuno. Non ho voglia di sottostare alla minaccia della guerriglia, questa sospensione è un avvertimento». È vero che le sedi del Ps hanno subito attacchi e atti di vandalismo, dai vetri rotti alla scritta «traditori della sinistra». Gesti ovviamente da condannare. Ma un Paese che organizza 51 partite e accoglie milioni di persone per gli europei di calcio lunghi un mese con la protezione di quasi 100 mila uomini, non è in grado di assicurare qualche giorno di tranquillità al seminario del partito di governo? E che succederà quando comincerà la campagna per le primarie e poi per le presidenziali della prossima primavera? Cambadélis dice che non vuole distrarre risorse dalla lotta al terrorismo, ma la decisione suscita perplessità. I vertici del Ps hanno usato lo stesso argomento — non è il momento, i poliziotti devono pensare all’Isis — per chiedere ai sindacati e all’estrema sinistra di non manifestare contro la riforma del lavoro. La resa di Cambadélis, in un Paese che vive ancora sotto lo stato di emergenza, indebolisce la democrazia. E lo espone al sospetto di avere lanciato un avvertimento, sì, ma anche aver voluto soffocare la contestazione dei «frondisti» che a Nantes si preparavano a criticare lui, il premier Valls e il presidente Hollande.
Repubblica 5.7.16
Hillary, il vantaggio del secondo uomo
di Vittorio Zucconi
CON BARACK dopo Bill, Hillary trova l’appoggio di un altro, formidabile compagno di viaggio politico nella corsa verso la prima presidenza al femminile della storia americana. Lungo la via che fu del tabacco e del “Re Cotone”, nella Carolina del Nord che prosperò del sangue di schiavi neri e dei fiocchi bianchi, Barack Obama attraversa oggi il Rubicone elettorale 2016 e si mostra, per la prima volta, a fianco dell’erede designata, Hillary Clinton. Tuo, le dice, sarà il mio scettro, se saprai conquistarlo.
È un matrimonio politico e di immagine, che la sposa Hillary avrebbe voluto da molto prima e con molta più passione e che lo sposo Barack ha molto esitato a concederle. Si consuma finalmente oggi a Charlotte, la città più importante di uno Stato che regge, con il proprio voto multietnico, l’arco di quel Sud necessario per fermare la marea Trump.
Da settimane ormai, da quando la “nomination”, la candidatura della signora Clinton era apparsa inevitabile, Hillary bussava alla porta della Casa Bianca perché il Presidente le concedesse l’investitura. Ma Obama il Temporeggiatore aveva atteso, esibendosi in uno straziante, per i Clinton, “strip tease” di mezze lodi e mezze parole, attento a non alienare al proprio partito Democratico quei dodici milioni di elettori, soprattutto giovani e soprattutto bianchi, che avevano risposto alla “Rivoluzione Sanderista”. E senza i quale i Democratici non potranno fermare il tifone Trump.
Apparizioni pubbliche insieme erano state cancellate all’ultimo momento, per il sopraggiungere di impegni o tragedie, come la strage nel night club di Orlando. Obama tergiversava. Correvano voci del riaffiorare dell’antica ostilità per quella donna che lui, nelle Primarie del 2008, aveva sconfitto per pochissimo dopo un duello all’ultimo sangue e che poi aveva accettato come Segretaria di Stato per pagare la cambiale politica firmata con il marito, in cambio del suo allora indispensabile sostegno elettorale.
Ora, finalmente, Obama gioca il proprio ancora considerevole carisma, segnalato in crescita dai sondaggi per Hillary. Lo fa scegliendo uno stato come la Carolina del Nord che è insieme rappresentativo eppure anomalo rispetto a quella Cintura della Bibbia, del Sud che stringe gli stati dall’Atlantico al Texas dominati da Repubblicani ormai dagli anni di Richard Nixon. La North Carolina, resa ricca dal tabacco e dal cotone, fu l’ultimo Stato del Sud a unirsi, recalcitrante, alla Secessione contro il Nord a Guerra Civile già lanciata.
È una terra di formidabile transizione sociale ed economica, dove la Via del Tabacco è oggi il quadrilatero di grandi università come Duke, North Carolina e Wake Forest racchiuse in pochi chilometri di distanza, dove le banche, i laboratori e le aziende di biotech, le banche hanno sostituito le piantagioni, le risaie, le distese di fiocchi bianchi facendo di Charlotte la seconda piazza finanziaria degli Stati Uniti dopo New York. E vede i bianchi in minoranza demografica con il 45 per cento contro il 55 per cento di popolazione di altre etnie e colori. Per Barack, la designazione di Hillary alla successione è un rischio senza grandi prospettive di profitto, un atto dovuto a un mese dai congressi dei partiti dove certamente salirà sul palco come oratore emerito, senza solidificare il sospetto che a lui, come successore Hillary non piaccia. Dirà, secondo le anticipazioni che provengono dal suo entourage, che nessuno è più qualificato e preparato di questa donna indiscutibilmente straordinaria e nessuno meglio di lui sa che cosa comporti essere presidente.
Spiegherà di poter garantire per averla vista all’opera, e avuta come compagna di lavoro, nel viaggio terribile fra le crisi e la catastrofi del mondo, dal disastro libico alle ore della cattura di Osama bin Laden. E disegnerà, per contrasto con lei, la inaffidabilità, la pericolosità, l’avventurismo dilettantesco e narcististico dell’avversario, Donald Trump. Solo Hillary, intonerà Obama ritrovando la musicalità da pulpito della sua oratoria elettorale, può continuare il suo lavoro e rendere ancora più grande l’America, «insieme», essendo “insieme” la parola chiave contro l’esclusionismo razzista del Donald.
Ma diventando il Lord Protettore di Hillary colloca la propria eredità nelle mani della signora. Si assumerà le incognite del suo futuro, come in ogni vita di coppia, nell’attesa della fine delle indagini Fbi sul suo uso spregiudicato di posta elettronica privata per comunicazioni di Stato che sta arrivando al capolinea di un non luogo a procedere o di un’incriminazione. Se fosse prosciolta, il duetto Barack & Hillary arriverebbe di show in show fino a novembre e a una vittoria che i sondaggi indicano come possibile, ma non certa, anche in quella North Carolina dove Trump la tallona in ritardo di appena due, insignificanti punti percentuali, 42 a 40. Se fosse incriminata, Obama potrebbe prendere le distanze, giustificandosi agli occhi del partito per avere fatto il possibile.
Da oggi, in attesa che il Segretario alla Giustizia, Loretta Lynch legga le conclusioni dell’indagine e decida se procedere contro Hillary nonostante la goffa, invadente visita di Bill Clinton che le ha attaccato un bottone in aereo per perorare la causa della consorte, c’è la grande ombra di Barack Obama, dietro di lei, con il suo carico immenso e polarizzante di popolarità e di ostilità, di rimpianto e di odio. Ma Hillary si è affrancata dalla ingombrante tutela esclusiva di un uomo, il marito, per arruolare il sostegno di un altro, del Presidente. Un “Ménage à trois” per questa donna che sta sfidando il cielo. E ha bisogno di reclutare, nella sua corsa, tutti gli uomini della presidente.
La Stampa 5.7.16
Dacca, arrestato un professore
“I killer erano suoi studenti”
di Nic. Zan.
Era al ristorante con moglie e figlie per festeggiare un compleanno. Altri sei fermi Giallo sul cuoco, il sesto uomo: basista o vittima. La Farnesina: rischio di altri attentati
Il professor Hasnat. E gli allievi terroristi. Forse è solo una coincidenza. Ma ieri la polizia bengalese ha fermato sette persone che sarebbero collegate al massacro del ristorante Holey Artisan Bekery. Una di queste è il professor Hasnat Karim della North and South University di Dacca, proprio l’ateneo frequentato da quattro terroristi su cinque.
C’è un filmato che lo riprende la sera di giovedì, poco prima del massacro. Anche il professor Hasnat è all’interno del ristorante. Ha spiegato di essere lì per festeggiare un compleanno con alcuni amici, la moglie e le figlie. Ma viene inquadrato sul tetto, mentre fuma in compagnia dei ragazzi con il mitra. Si salva. Viene liberato assieme ad altri che hanno dimostrato la loro conoscenza del Corano. Ma da ieri Hasnat Karim è trattenuto dalle autorità bengalesi con il sospetto che le cose non siano andate davvero così.
Bisogna usare la massima cautela. Vale sempre. Qui te lo raccomanda chiunque sia chiamato ad esprimere un giudizio sul lavoro delle forze di polizia locali. C’è troppa confusione, voglia di dare delle risposte rapide. C’è addirittura il cuoco del ristorante Saiful Choukidar, 40 anni, collocato inizialmente fra i sei terroristi. Ma sempre più chiaramente vittima. Come assicurano amici, colleghi e parenti. Come dimostrano le cinque foto diffuse nella rivendicazione. Cinque, non sei.
Il governo sta ancora cercando di minimizzare l’accaduto, nega che i terroristi fossero dell’Isis. Quello che si sa è che erano ricercati da alcuni mesi. Scomparsi dalle loro famiglie benestanti. Anche quella di un importante leader politico di governo. Anche quella del signor Meer Hayet Kabir, dirigente di un’azienda straniera a Dhaka. La polizia lo ha invitato a riconoscere il cadavere di suo figlio all’ospedale militare. E dopo averlo fatto, il padre ha dichiarato al New York Times: «Come posso organizzare un funerale per lui? Chi verrà? Dovrò chiedere scusa al mondo intero nel nome di mio figlio». Famiglie ricche. Scuole di alto livello. Ragazzi normali. Uno di loro amava la musica, ma ad un certo punto ha smesso di suonare la chitarra.
Tutti hanno studiato in Malesia. Nibran Islam dal 2014 seguiva su Twitter due religiosi molto controversi, Anjem Choudary e Shami Witness. Mentre Rohan Imtiaz aveva diffuso su Facebook l’appello del predicatore Zakir Hayek in cui chiamava «tutti i musulmani ad essere terroristi». Ieri mattina la premier bengalese Sheikh Hasina ha reso omaggio alle vittime nello stadio della città. Una corona di fiori era vicina ai feretri coperti dalle bandiere di Italia, Giappone, India, Usa e Bangladesh. Dacca vuole tornare alla sua caotica normalità. Ma la Farnesina allerta gli italiani in Bangladesh, non escludendo il rischio di altri attentati. «Si raccomanda un comportamento vigile e ispirato alla massima prudenza. E di limitare gli spostamenti, soprattutto a piedi, allo stretto necessario».
La Stampa 5.7.16
Il docente che soffriva di depressione e quella sigaretta con il commando
Hasnat Karim alle 5 del mattino era sul terrazzo coi terroristi Uno di loro aveva in tasca un biglietto con il suo indirizzo
di Carlo Pizzati
Innocente padre di famiglia che porta la figlia tredicenne con la sorellina di otto anni e la moglie a una festicciola di compleanno al ristorante? O professore disadattato e depresso già fermato per avere preso contatto con movimenti clandestini fondamentalisti?
Vittima eroica assieme agli altri bengalesi, che ha lasciato uscire prima la moglie e le due figlie dall’assedio cercando di mediare con i terroristi della strage di Dacca, o ex docente di uno dei killer, forse la mente dell’attacco, complice o basista dei miliziani?
Sospetti sull’ex professor Hasnat Karim, fermato domenica notte dalla polizia che indaga sull’attacco all’Holey Artisan Bakery, ce ne sono a sufficienza. Il più misterioso di tutti è forse quel foglietto insanguinato trovato in tasca al cadavere di un terrorista. Era l’indirizzo proprio di Hasnat Karim. Il killer l’aveva ottenuto durante l’attacco, magari mentre Hasnat cercava di conquistare la loro fiducia, o l’ex professore s’era forse incontrato con i miliziani prima dell’attacco, li conosceva, li ha pilotati con esperienza e precisione?
Può essere una strana coincidenza il fatto che insegnasse alla prestigiosa North South University fino al 2012 e che proprio tra il 2011 e il 2012 Nibras Islam, il bel ventiduenne del commando di assassini, abbia studiato nello stesso ateneo? Si conoscevano?
Dev’essere a queste domande che ora i detective della polizia bengalese, rovistando nel suo laptop e torchiandolo, stanno cercando risposte. Chi è quel professore calvo, corporatura media, con gli occhiali, che è stato visto passeggiare e fumare sulla terrazza del ristorante al secondo piano alle 5 del mattino? C’è chi dice che fosse in compagnia di altri ostaggi. Ma dal video girato con un telefonino da un vicino sud-coreano si vede che più tardi sta parlando con i terroristi nella sala del ristorante. Con calma, tranquillo, discorrendo come se si conoscessero.
È giusto mantenere il beneficio del dubbio. Potrebbe essere solo un capro espiatorio. Appare mostruoso che un padre esponga le due figlie, Safa e Rayan, oltre alla moglie Sharmin, a un rischio del genere. Ma potrebbe essere una messa in scena, visto che la moglie e le due figlie sono state tra le prime a essere rilasciate. I dubbi sono tanti.
Chi è Hasnat Karim? È un ingegnere civile di 35 anni che ha finito il liceo in Gran Bretagna prima d’iscriversi a ingegneria presso la Queen Mary University di Londra, dove ha vissuto per dieci anni. Ma là al freddo non si trovava bene. Soffriva di depressione, secondo fonti vicine alla famiglia. Quindi, decise di rientrare in Bangladesh dopo il 2000 e insegnò fino al 2012 alla NSU. Il fatto d’esser stato accusato, insieme ad altri tre professori, d’avere preso contatto con un movimento clandestino fondamentalista illegale gli è costato il lavoro e così ha raggiunto il padre nella sua attività di ingegnere.
Il padre, che fu tra i primi a dare notizie ai media di quel che stava accadendo dentro al ristorante, dice che è innocente. «La polizia ha lasciato andare sua moglie e le mie nipotine. Abbiamo contattato i detective. Ci hanno detto che sta bene. Non c’è nessun problema. Che lo interroghino quanto devono», ha detto Rezaul Karim, «chiedo solo che non venga torturato».
Corriere 5.7.16
Il blitz, le torture, il «professore» I misteri della notte di Dacca
dal nostro inviato a Dacca Lorenzo Cremonesi
Davvero erano solo cinque i terroristi? Chi sono in realtà? Come possono le autorità bengalesi affermare tanto velocemente che non militano per Isis? E cosa raccontano i fermati? Era inevitabile che un attentato terroristico grave come quello nel cuore di Dacca venerdì scorso, in cui sono coinvolti anche cittadini occidentali, sollevasse dubbi e interrogativi di ogni genere. Misteri, ipotesi disparate dominano l’inchiesta. Ma occorre aggiungere che la tradizionale libertà opaca concessa con parsimonia dalle autorità in queste regioni del mondo non fa che complicare le cose. La stampa locale viene censurata, le teorie del complotto vanno per la maggiore. «Pubblichiamo, ma non crediamo alle verità del governo», affermano i giornalisti a Dacca. I portavoce di polizia ed esercito non aiutano. Questi i punti oscuri più evidenti.
Isis o altro?
Da subito i capi dei servizi di sicurezza locali e poi la premier Sheikh Hasina hanno ribadito che il commando era legato a gruppi dell’estremismo islamico locale, e in primo luogo quello dei «Jamatul Mujaheddin Bangladesh», attivo da molti decenni. «Isis non c’entra per nulla», ci ha detto ieri Masudur Rahman, portavoce della polizia. In realtà, tutti i maggiori commentatori locali e stranieri puntano il dito proprio contro Isis. Lo stesso Califfato ha pubblicato subito le foto di 5 attentatori, presentati come suoi fedeli militanti. Alcuni di questi ultimi nei loro blog si proclamavano seguaci di Isis e pare lo abbiano ripetuto durante il massacro.
I tempi dell’eccidio
Gli inquirenti dichiarano che gli ostaggi sarebbero stati uccisi tutti entro i primi 20 minuti del blitz, dunque più o meno alle 21 di venerdì. Ma la cosa è smentita da tutte le fonti dirette. Ci si chiede inoltre come mai l’intera operazione è durata circa 12 ore.
Il Corriere ha parlato con Shishir Sharkar, un indù 26enne che lavora nella cucina del locale, che ha fornito questa versione: «Quando i terroristi sono entrati io ho trovato rifugio nella ghiacciaia con un giapponese. Dopo due ore, alle 22.30, ci hanno scoperti e obbligati ad uscire. Il giapponese è stato ucciso subito con una raffica al petto. Io sono salvo solo perché ho detto di essere musulmano. Poi mi hanno spinto nel salone, dove erano riversi nel sangue gli ostaggi. Pochi minuti prima erano stati colpiti a raffiche. Davanti a me i terroristi si sono messi a tagliare le gole, ma anche braccia e gambe a quelli che ancora respiravano. Non credo vi siano sgozzati che prima non siano stati feriti. Qualcuno è stato poi pugnalato a petto, schiena e collo. Credo che gli sgozzati siano almeno 9. Tra loro anche 3 o 4 italiani».
I numeri?
Isis parla di cinque «martiri». La polizia di Dacca ne segnala invece sette, di cui uno sarebbe ferito, ma vivo e sotto custodia nell’ospedale militare. Di lui non è stata diffusa alcuna identità finora. I commentatori locali azzardano l’ipotesi possa essere un falso delle autorità per poi poter diffondere con facilità la loro versione dei fatti.
Per esempio, non sarebbe vero che è stata la polizia a liberare gli ostaggi, ma sarebbero stati gli stessi terroristi a lasciarli andare prima dell’ultima battaglia. A detta di Sharkar, il nostro intervistato, assieme a un altro collega, il 26enne Delwar Hussein, i terroristi sarebbero comunque stati volutamente uccisi dalle teste di cuoio governative nella scena finale del sequestro alle sette e mezza della mattina di sabato. Raccontano: «Alle sette in punto i terroristi ci hanno detto che noi musulmani potevamo uscire liberamente. Loro invece sarebbero morti combattendo e volati in paradiso. Ci hanno ingiunto di ricordare il loro sacrificio e mantenere la nostra fede in Allah. In realtà, hanno provato a fuggire dal retro del ristorante. Ma la polizia ha attaccato in forze. Alcuni sono caduti a terra feriti. Ne ho visti un paio che si trascinavano verso il muro di cinta con tracce di sangue sui pantaloni e le scarpe. La polizia allora li ha uccisi tutti sparando alla testa. Noi tredici sopravvissuti non siamo stati liberati dal blitz».
Il professore arrestato
Resta enigmatica la figura di Hasnat Karim, professore alla North South University (Nsu), una delle più prestigiose a Dacca. In un primo tempo era stato descritto come tra le vittime fortunate, che con moglie e due figli, sono sopravvissute all’inferno. Ma al momento è sotto interrogatorio con il sospetto possa essere legato ai terroristi. Karim ha vissuto oltre 12 anni a Londra, dove ha tra l’altro studiato ingegneria alla Queen Mary University. Nel 2012 era docente alla Nsu, dove pare abbia insegnato anche ad almeno uno dei terroristi, Nibras Islam. I sospetti nei suoi confronti sarebbero cresciuti quando gli inquirenti hanno sostenuto di aver trovato il suo nome e numero di telefono su di un bigliettino nella tasca dei pantaloni di un jihadista. Inoltre, alle 5 di sabato Karim sarebbe stato filmato dalle telecamere delle forze dell’ordine mentre fumava una sigaretta chiacchierando amichevolmente con i sequestratori sulla terrazza del Holey Artisan Bakery.
Il pizzaiolo
Una storia simile è quella di Saiful Choukidar, 40 anni, di professione pizzaiolo, deceduto nello scontro a fuoco. La polizia sospetta potesse essere il basista del commando nel locale e ne diffonde la foto col nome di battaglia: Akash. Tuttavia la sua foto non corrisponde con quelle diffuse da Isis. Tra i reporter del quotidiano Daily Star , diretto da Mahfuz Anam, un intellettuale particolarmente critico del premier, è prevalente l’ipotesi che proprio la confusione sulle identità dei componenti del commando faccia parte di una precisa strategia del governo per annacquare le proprie responsabilità.
Repubblica 5.7.16
Il sorriso dei ragazzi, killer nel nome dell’Is
di Marco Belpoliti
SORRIDONO con la mitraglietta in mano, la kefiah bianca e rossa in testa.
Belle facce da studenti. Gli avranno pure detto di sorridere per la foto. Tuttavia è innegabile che c’è qualcosa di spontaneo, d’allegro, di scanzonato in quei sorrisi. Parlano della loro giovinezza. Sono i terroristi di Dacca. Ecco, il sorriso. Il sergente Eddie Di Franco, in servizio di guardia al quartier generale dei Marines americani a Beirut, si ricorda perfettamente che il 23 ottobre 1983 l’autista alla guida del camion carico di esplosivo, che uccise 241 suoi commilitoni, lo guardava fisso negli occhi e sorrideva. Un sorriso indelebile, che sarebbe poi diventato famoso con il nome di farah al- ibtissam, ovvero “il sorriso della gioia” di tutti i seguenti attentatori, degli uomini-bomba, fino a questi giovanotti della capitale del Bangladesh. La domanda che ci facciamo è: perché? Per quale ragione dei ragazzi colti, studiosi, benestanti, gioventù dorata di un paese poverissimo, che vive in bilico sul delta del Gange, vanno a morire così, con quella violenza rituale sulle loro vittime innocenti.
In un suo libro, L’uomo in rivolta, Albert Camus ha fornito una spiegazione plausibile per capire le ragioni di quel gesto: solo il suicidio permette di superare l’interdetto a uccidere uomini e donne innocenti. Il morire, scrive, giustifica l’uccidere. Utilizzando un paradosso, in cui Camus è maestro, sostiene che la volontà di morire degli attentatori dimostra da sola la credenza nella giustezza della propria causa. Gli attacchi suicidi come questo ennesimo di Dacca si giustificano da sé. Il sacrificio è ragione sufficiente per la missione suicida, e anche la spietatezza che comporta verso il “nemico”, sia esso un soldato combattente, oppure l’avventore di un bar o il cliente di un ristorante. In un libro istruttivo,
La politica del terrorismo suicida (Rubettino 2013), Francesco Marone spiega come la purezza sia il primo tassello di questa visione che a noi appare paranoica, fuori dalla realtà. In realtà non lo è: appartiene a un altro ordine mentale, quello della follia. Morire suicidi, afferma Camus, è la conferma della propria purezza.
Questa parola, “purezza”, non si usa più in Occidente. Siamo tutti “impuri”, perché ci siamo mescolati, perché non pratichiamo più, come nei primi secoli del cristianesimo, una religione assoluta, esclusiva, in conflitto con l’Impero entro cui è sorta. Chi si può dire “puro”? Eppure questa è la prima parola chiave se si vuole capire cosa c’è nella testa di questi ragazzi di Dacca. Ciò che li fa agire non appartiene a nessun sistema logico: non c’è razionalità nel loro comportamento; o almeno non la nostra. Così è stato per i giovani attentatori del Bataclan, e per quelli dell’aeroporto di Bruxelles e del metrò. Marone sottolinea come non esista un solo profilo psicologico plausibile degli attentatori suicidi. Altri studiosi ritengono invece che qualcosa in comune tra loro ci sia. Studiando i candidati al martirio della seconda Intifada, quelli che sono stati fermati prima, o che hanno fallito, A. Meari conclude che si tratta di personalità fragili, dipendenti, ragazzi che soffrono di sensi di inferiorità, d’inadeguatezza, che chiedono conforto ad autorità morali, giovanotti instabili, con tratti depressivi e sindromi post-traumatiche da stress. Seguendo questa descrizione lo scrittore americano John Updike ha narrato in Terrorista (Guanda) la storia di un ragazzo di origine egiziano. Abbandonato dal padre da piccolo, figlio di una donna americana, viene plagiato da un predicatore islamico, che lo spinge a guidare un camion carico di tritolo per un attentato scongiurato all’ultimo dall’amante della madre. Un caso di emarginazione e di frustrazione, ma come mostrano le biografie degli attentatori di Dacca la maggior parte di loro proviene da classi medio-alte, ha studiato. Se l’emarginazione economica e sociale fosse la principale fonte del terrorismo suicida nel mondo, questo sarebbe pieno di suicidi, ha scritto con cinico realismo un economista. L’esempio di Osama Bin Laden, membro di una ricchissima famiglia saudita, è paradigmatico.
Per dare una risposta alla domanda perché lo fanno Michael Ingatieff ha sostenuto che si tratta della “sindrome di Erostato”: il giovane greco che diede fuoco al tempio di Artemide a Efeso per eternare il proprio nome. Lo studioso canadese mette in luce una questione importante: l’atto suicida contiene una promessa: “trasformare una nullità umana in un angelo vendicatore”. Non è cosa da poco in un mondo come il nostro abitato da miliardi di persone senza nome né fama né prospettiva alcuna di perpetuare il ricordo di sé oltre la propria esistenza. La religione fondamentalista assicura anche questo, coltiva l’Erostato che c’è in ciascuno. Questa sindrome contiene tra le altre cose un aspetto narcisistico che viene in luce in ogni atto suicida, in particolare in quello di giovani e adolescenti, quelli che sono in conflitto con il proprio ambiente famigliare, ad esempio paterno. Rohan, uno dei membri del comando di Dacca, ha un padre che è un membro di rilievo del partito governativo, un islamico moderato. Forse non è sufficiente, ma certo deve avere avuto un suo ruolo nel trasformare lo studente del college Scholastica in un feroce tagliagole.
Il fondamentalismo islamico oggi è la più pericolosa ideologia religiosa presente nel mondo e coltiva la cultura del sacrificio, dove la promessa del Paradiso appare una componente significativa di una miscela sconosciuta a noi occidentali secolarizzati, laicizzati, distanti da ogni idea di sacrificare la propria vita per un ideale. Cosa che fino a due secoli fa aveva invece corso anche da noi. Senza tornare alle origini del cristianesimo, alle vicende ereticali, ai conflitti religiosi che per tre secoli hanno insanguinato l’Europa cristiana, basta pensare al fideismo politico dell’inizio del Novecento, agli ideali socialisti e comunisti, dove l’individuo era nulla e il progetto collettivo tutto. Il sacrificio come strumento d’azione, metodo e forma della lotta. La religione, nella sua forma islamica, torna di colpo protagonista del nostro presente.
Per capire come funzioni tutto questo, bisogna rivolgersi alle pagine di un autore che ha conosciuto questa violenza sulla propria pelle. Prima ancora di essere messo al bando dalla fatwa degli ayatollah iraniani, Salman Rushdie ha raccontato in I versi satanici la storia di una santa islamica, una ragazza bellissima di nome Ayesha, che si trasforma in una mistica e una visionaria. Presa dal suo furore religioso, Ayesha trascina con sé la gente di un piccolo villaggio indiano: li convince che potranno raggiungere la Mecca attraversando il Mar Arabico che si aprirà davanti a loro come davanti a Mosè. Un solo uomo, il maggiorente ricco del villaggio, uomo laico, s’oppone. Alla fine Ayesha e gli uomini e le donne che la seguono entrano nel mare e scompaiono alla vista. L’uomo cerca di salvare la moglie e si tuffa. Sviene. In ospedale è sentito dalla polizia. Accanto a lui un altro sopravissuto, un uomo che ha creduto in Ayesha. Entrambi sono convinti che le acque si sono aperte e la ragazza ha camminato lì in mezzo all’asciutto, e la gente con lei. I poliziotti spazientiti li minacciano di far loro vedere i cadaveri gonfi. Il fedele risponde: «Potete farmi vedere quello che volete ma io ho visto quello che ho visto. La mia vergogna — aggiunge — è che io non sono stato degno di accompagnarli nel viaggio: le porte del Paradiso si sono chiuse davanti a me». Ecco cosa c’è dietro a quel sorriso. Difficile smontare la convinzione dei visionari. Che fare? Opporre follia alla follia? Il problema che ora si pone non è piccolo e neppure indolore per il laico e razionale Occidente.
La Stampa 5.7.16
“I profughi venduti ai trafficanti di organi”
Palermo, l’accusa choc di un pentito della tratta internazionale di migranti. In manette 38 persone
di Riccardo Arena
Contro i trafficanti di esseri umani hanno messo in campo le tecniche investigative e i metodi utilizzati contro la mafia: nella terza parte dell’inchiesta «Glauco», avviata tre anni fa, ci sono così un pentito ma anche un libro mastro con le cifre pagate dai migranti che arrivavano dal Centro dell’Africa via Libia, una contabilità per cifre di molto superiori a quei 526 mila euro e ai 25 mila dollari in contanti, sequestrati il mese scorso in una profumeria di Roma.
Trentotto fermi (23 dei quali eseguiti: c’è un solo italiano, Marco Pannelli, 46 anni, di Camerino), disposti ieri dalla Procura di Palermo per la «tratta», il commercio di disperati che si spostano da un continente all’altro, fanno emergere uno spaccato che ha tante attinenze con le indagini su Cosa nostra, a cominciare dalle violenze, dalle minacce e dai ricatti di cui erano vittime i migranti che non avevano i soldi necessari per pagare le traversate. Alcuni, sostiene il collaboratore di giustizia eritreo Nouredin Atta Wehabrebi, arrestato nel 2014 e già condannato a 5 anni, con l’attenuante speciale riconosciuta ai pentiti, sarebbero stati torturati e poi venduti a trafficanti egiziani specializzati nella vendita di organi umani. Una fine orribile, ma l’ipotesi è tutta da verificare: il procuratore di Palermo, Franco Lo Voi, non si sbilancia, spiegando che sono in corso verifiche quanto mai proibitive, visto che i reati sarebbero stati commessi in un Paese in guerra come la Libia.
L’indagine è stata condotta dal Servizio centrale operativo della polizia, diretto da Renato Cortese, l’uomo che dieci anni fa catturò Bernardo Provenzano: è lui a spiegare che il «salto di qualità» delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto di Palermo Maurizio Scalia e dai pm Gery Ferrara, Annamaria Picozzi e Claudio Camilleri, è legato al fatto che «le risorse migliori, già destinate alla lotta contro la mafia, vengono utilizzate adesso anche per combattere la tratta», nuova emergenza dei nostri tempi.
Come nelle inchieste su Cosa nostra, gli investigatori hanno seguito il denaro, documentando come i contabili dell’organizzazione incassassero migliaia di euro, attraverso una centrale romana, una profumeria a pochi passi dalla stazione Termini, in via Volturno, dove si pagava col metodo «hawala», il trasferimento di fondi senza movimentazione fisica dei capitali. A indicarla è stato proprio il pentito e nel negozio dell’etiope Mikele Gebremeskel è stata poi ritrovata la contabilità, annotata con scrupolo, con nomi e numeri, delle somme pagate da chi voleva arrivare in Europa. Due le categorie dei “clienti” del clan: perché oltre ai normali migranti c’erano i più danarosi, coloro che potevano evitare i rischi della navigazione sulle carrette del mare e, attraverso un meccanismo di falsi matrimoni e di ricongiungimenti familiari, che coinvolgeva complici muniti di regolare permesso di soggiorno, potevano arrivare legalmente in Italia, pagando però 15 mila euro a testa. Quarantotto i casi accertati.
L’organizzazione, formata da 25 eritrei, 12 etiopi e dall’italiano Pannelli, avrebbe gestito la permanenza dei profughi (che in media pagavano 800 euro a viaggio) in un punto di smistamento, individuato dalla Squadra mobile nel pieno centro di Palermo, una sorta di agenzia che procurava vitto e alloggio a chi transitava in città. E quando arrivava il denaro dai parenti, venivano «staccati i biglietti» per proseguire il viaggio.
Corriere 5.7.16
«A chi non paga tolgono gli organi»
di Giovanni Bianconi
Migranti uccisi e sottoposti all’espianto degli organi se non possono pagarsi la traversata in Europa: lo racconta ai pm di Palermo Nuredin Atta Wehabrebi, ribattezzato «il Buscetta dei trafficanti».
PALERMO A metà tragitto, se non viene pagata la tratta successiva verso l’Europa perché dall’estero non arrivano più i denari pattuiti, può succedere qualcosa di terribile. «Talvolta i migranti non hanno i soldi per pagare il viaggio effettuato via terra né a chi rivolgersi per pagare il viaggio in mare, e allora queste persone vengono consegnate a degli egiziani che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15.000 dollari. In particolare, questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche».
È ciò che ha raccontato ai pubblici ministeri della Procura di Palermo Nuredin Atta Wehabrebi, ribattezzato dagli inquirenti «il Buscetta del traffico dei migranti»: un eritreo di 32 anni arrestato due anni fa, e dal 2015 collaboratore di giustizia. Le sue dichiarazioni sono state giudicate attendibili, ma su questo punto particolare si tratta di confidenze ricevute da altri, che lui non ha verificato personalmente: «Me lo hanno detto Ermias e Abdurazak (i capi dell’organizzazione per cui ha lavorato in Libia, ndr ), nonché alcuni migranti sopravvissuti».
Riscontri al momento non ce ne sono, ma è emerso un particolare inquietante che potrebbe avere a che fare con questo drammatico commercio parallelo: sul telefonino sequestrato al presunto Yedhego Medhanie Mered — l’eritreo estradato dal Sudan nel maggio scorso, che nega di chiamarsi così e di essere coinvolto nel traffico — sono state trovate immagini di cadaveri sezionati, pezzi di corpi umani tagliati e fotografati.
Proprio ieri è cominciata davanti al giudice l’udienza preliminare per l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, nella quale i pm hanno depositato nuovi elementi a carico dell’eritreo, che continua a sostenere di essere vittima di uno scambio di persona. Non le foto dei cadaveri sezionati, che saranno oggetto di ulteriori accertamenti, ma altre immagini della presunta moglie citata dal pentito, intercettazioni e dialoghi via internet in cui si parla di persone da trasferire in vari Paesi europei, sbarchi imminenti e soldi che devono arrivare.
Poco prima, gli investigatori della Squadra mobile di Palermo e del Servizio centrale operativo della polizia avevano eseguito il fermo ordinato dal procuratore di Palermo Franco Lo Voi, dall’aggiunto Maurizio Scalia e dai sostituti Calogero Ferrara, Claudio Camilleri e Anna Picozzi, nei confronti di 38 persone (tutti eritrei, tranne qualche etiope e un italiano), accusati di far parte della rete che organizza il trasferimento clandestino dei migranti dall’Africa in Italia e da qui in Nord Europa. L’operazione è il frutto della collaborazione di Atta Wehabrebi, che ha fatto venire alla luce molti retroscena del traffico. Dal bar nel centro di Palermo utilizzato come punto di ritrovo per gli extracomunitari aiutati a fuggire dai Centri di accoglienza e poi fatti partire verso il Nord, alla profumeria di Roma, a pochi passi dalla stazione Termini, che funzionava come una banca per il pagamento delle singole tratte con il metodo hawala (consegne di denaro a distanza, tramite familiari e mediatori, senza le quali non si può proseguire il viaggio).
«Il soggetto di Roma che fa hawala , il sabato mattina ha normalmente la disponibilità di circa 300.000 euro che consegna ai vari soggetti che si presentano per riscuotere il denaro relativo al trasferimento di migranti effettuato in varie parti», dice il pentito. È la contropartita dei pagamenti in Libia a coloro che fanno partire le barche, in particolare Ermias Ghermay (latitante) e un certo Abduzarak, mai identificato con certezza, per i quali il «Buscetta dei migranti» ha lavorato fino all’arresto. Queste somme vengono poi «spedite a Dubai o in altri Paesi attraverso dei commercianti libici. In particolare Abduzarak ha guadagnato circa 20 milioni di dollari da questi traffici. In parte tali somme sono state spedite a Dubai e in Etiopia, ma so anche che sono stati acquistati dei beni in Italia, in particolare 14 trattori o mezzi agricoli usati, da spedire in Ciad dove lo stesso Abduzarak ha una azienda agricola intestata a un’altra persona».
Oltre alla traversata via mare, nella quale si rischia di morire in un eventuale naufragio, c’è il metodo dei falsi ricongiungimenti familiari con persone già legalmente residenti in Italia, per ingressi in sicurezza (solitamente in aereo) ma molto più costosi.
«Per avere un nulla osta — ha spiegato il collaboratore di giustizia — ci si reca in diverse Prefetture italiane e si fa richiesta per persone diverse quale propria moglie. Un certo Woldu Yoanes, nato in Eritrea nel 1980 o 1981, ha chiesto la riunione per motivi familiari alle Prefetture di Agrigento, Pisa, Pescara, Avellino e Roma, indicando per ciascuna di tale pratica una donna diversa. Per ogni ricongiungimento si paga una cifra di 15.000 dollari. Il nulla osta della Prefettura italiana viene inviato in Eritrea e poi presentato all’ambasciata italiana che consente il ricongiungimento. Dopo che la persona ottiene il visto in Eritrea vola su Fiumicino, e da lì dopo qualche giorno si reca nel Nord Europa. Tutti i matrimoni sono fittizi e io posso fornire documentazione che conservo nella mia posta elettronica di centinaia di ricongiungimenti falsi che ho curato».
Magistrati e poliziotti hanno rintracciato le pratiche di almeno 48 falsi ricongiungimenti familiari.
Repubblica 5.7.16
La rivincita di Rocco e Antonia porci con le ali senza scandalo
Il libro che 40 anni fa sfidò la censura diventa graphic novel
di Natalia Aspesi
TORNANO Anne, Neely e Jennifer, tornano Rocco e Antonia: le ragazze di
La valle delle bambole dell’americana Jacqueline Susann, gli adolescenti di Porci con le ali degli italiani Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice. Il primo libro è uscito nel 1966, cioè ha cinquant’anni (in italiano l’anno dopo), il secondo nel 1976, cioè ha quarant’anni. Entrambi ebbero un inaspettato clamoroso successo in due Italie, in due mondi molto diversi, anche se solo dieci anni li separano. Trentuno milioni di copie ovunque per la Susann, tre milioni per Ravera e Lombardo Radice solo in Italia, più quelle clandestine durante il sequestro, più le edizioni straniere: i due romanzi subirono critiche scandalizzate e processi per oscenità, sono diventati due film.
Quello tratto dal romanzo americano ha tra le attrici la bellissima Sharon Tate, che sarebbe stata assassinata due anni dopo dalla setta di Charles Manson, quello italiano è diretto da Paolo Pietrangeli. “La valle delle bambole”, pubblicato in Italia da vari editori in diverse edizioni, adesso è alla sua settima (Sonzogno) con una bella postfazione di Irene Bignardi. “Porci con le ali”, cinque diverse edizioni (la prima, Savelli, aveva un dialogo- postfazione di Giaime Pintor e Annalisa Usai), l’ultima nel 2013, è diventato un graphic novel (Bompiani), sceneggiato da Manfredi Giffone, disegnato da Fabrizio Longo e Alessandro
Parodi, con una nuova introduzione di Lidia Ravera, autrice poi di altri 28 romanzi ben accolti: Marco Lombardo Radice è morto nel 1989, e di professione era neuropsichiatra di minori. Gli autori del graphic novel non erano nati quando il libro fu pubblicato per la prima volta. L’antica copertina dell’edizione Sabelli aveva il sottotitolo “Diario sessuo-politico di due adolescenti” poi eliminato, e disegni di sederi e seni nudi, bandiere rosse, un pugno chiuso, un accenno al Manifesto e un maialino ovviamente con le ali. Quella dell’attuale romanzo a disegni ha un maialone, un gianduiotto, delle pillole e due ragazzi abbracciati e vestiti. L’accenno alla politica è scomparso, forse per non spaventare e allontanare i lettori (o guardatori?) di oggi. Poi si va alle prime pagine del romanzo originale e si piomba in una valanga di parole indicanti vari modi di chiamare i sessi che un tempo erano considerate parolacce impubblicabili (ma essendo troppe, lo sono ancora), più fantasie o ricordi affinché i due protagonisti giovinetti, ognuno a casa sua, riescano a masturbarsi. Ossessivamente, più volte al dì. Essendo per fortuna il disegno abbastanza rustico, anche la ragazzina nuda a gambe spalancate e il ragazzino con in mano un pene lunghissimo, non paiono porno e quindi neppure eccitanti. Ci vuole altro oggi, con Internet.
Chi come me è colpevole di non aver letto il romanzo quando uscì, chissà perché, forse eravamo già vecchi, e va a leggerlo adesso, sicuro che gli attuali disegni e i fumetti esagerino, resta di sasso: il piccolo romanzo è molto più sporcaccione, ma ai suoi tempi l’eventualità di considerarlo pornografico era attenuata dalla sua parte politica: la destra non era neppure contemplata, i genitori erano del Pci, disprezzati dai figli studenti che, sedicenni, li ritenevano reazionari e si impegnavano per rivoluzionare il mondo, nel frattempo pensando e facendo soprattutto sesso di ogni tipo. Nel graphic novel la politica c’è ancora, ma probabilmente per i ragazzi di oggi, potrebbe essere del tutto incomprensibile, una inutile interruzione alle fantasie e pratiche sessuali. Rileggere oggi La valle delle bambole dà più soddisfazione: è il classico romanzone per signore, e si capisce perché allora fu letto avidamente, anche di nascosto, e aggredito dagli intellettuali come Gore Vidal che definì Jacqueline Susann, “non una scrittrice ma una dattilografa” e come Truman Capote che la descrisse come “un camionista travestito”. La storia però era affascinante e, allora, pure coraggiosa: tre giovani e belle ragazze della provincia americana diventano star della televisione, dello spettacolo, del cinema: parzialmente ispirate a Grace Kelly, a Marilyn Monroe, a Judy Garland, che nel film doveva essere la diva “anziana” (quarantenne!) su imitazione della star teatrale Ethel Merman, che però fu licenziata perché incontrollabile, e sostituita da Susan Hayward. Le bambole, cioè gli psicofarmaci come venivano chiamati a Hollywood, dominano l’ascesa al successo e la discesa ineluttabile: servono per dormire quando non ci si riesce più, ad essere svegli e sereni quando incombono la depressione e la paura, a uccidersi quando la vita è diventata insopportabile. È il 1966-67, e il corpo è ancora l’unico vero tesoro per vincere, per fare carriera, per sposare un uomo qualsiasi ma ricco; a 25 anni si comincia a dire di averne 19, la prima ruga è una tragedia, a 30 sei fuori dalla corsa. Le madri, le donne della generazione precedente, sono infelici, con mariti insopportabili oppure sole e terrorizzate da un futuro indigente, Il loro unico tesoro è la figlia su cui contare per sopravvivere. Gli uomini sono belli e importanti, ma traditori, crudeli, sfruttatori, seduttori, mascalzoni.
Come ricorda Irene Bignardi, gli scritti di Betty Friedan e Kate Millett non si erano ancora diffusi, eppure quel libro, senza lieto fine (il film invece ce l’ha), raccontando la vita sbagliata delle tre ragazze americane belle, celebri e amate, eppure inquiete e disperate, è come un presagio femminista. L’Italia di quegli anni era ossessionata dal sesso, i probi cittadini denunciavano, la magistratura processava. C’era stato lo scandalo della Zanzara, il giornale del liceo Parini per il quale due ragazzi e una ragazza avevano fatto un’inchiesta sul comportamento sessuale dei compagni: furono denunciati per oscenità e la ragazza fu sottoposta a una visita medica (ma lei, coraggiosamente, rifiutò di spogliarsi), per accertare i suoi squilibri psichici. La rivista Man, che vendeva da mezzo a un milione di copie e pubblicava foto di ragazze in bikini o sottoveste veniva sequestrata per oscenità. A Terni furono sequestrate 5000 cartoline che riproducevano gli affreschi etruschi della Tomba dei Tori.
I padri richiudevano in casa e addirittura ammazzavano la figlia che osava indossare la minigonna. Per forza, sarebbero poi scoppiati il ’68, la rivolta studentesca e il femminismo. La Susann aveva scritto il suo romanzo a 48 anni (sarebbe morta di tumore pochi anni dopo), seguendo le sue ragazze dal 1945 al 1965, dai 20 alla tragedia, allora, dei 40 anni; Ravera e Lombardo Radice avevano scritto di sedicenni, a 25 e 29 anni, e infatti molti pensarono che gli autori, che allora si firmavano Rocco e Antonia, fossero adolescenti. È vero, Ultimo tango a Parigi era stato condannato anche in Cassazione e quindi incenerito. I problemi erano altri: il terrorismo, la lotta armata... ma furono decisivi quei cambiamenti che liberavano le donne dalla soggezione sessuale e patriarcale: il nuovo diritto di famiglia, la legge che consentiva il divorzio, ottenuti dalle battaglie di altre Antonie, di altri Rocco.
Corriere 5.7.16
Goliardi in politica, travolti dal Sessantotto e da Tangentopoli
di Antonio Carioti
È una doppia sconfitta quella narrata nel libro di Vittorio Emiliani Cinquattottini (Marsilio). Uno scacco in due fasi, tanto più amaro in quanto sofferto da una generazione che era stata animata da grandi speranze e nel complesso aveva espresso una classe dirigente di buon livello. Si parla dei giovani che popolavano gli organismi rappresentativi, i cosiddetti «parlamentini» universitari, in auge fino alla scossa tellurica del Sessantotto.
Non a caso l’autore, sin dal titolo del saggio, contrappone all’anno della contestazione studentesca, su cui fa suo un giudizio molto critico dello storico Paolo Prodi, l’assai meno turbolento 1958, visto come il momento in cui, grazie al tramonto dello stalinismo e del frontismo, si rafforza la linea di apertura a sinistra nell’Unione goliardica italiana (Ugi), che raggruppava gli studenti di tendenza laico-socialista, mentre in campo cattolico Giovanni XXIII, il «Papa buono», prende il posto del ben più rigido Pio XII.
I ragazzi dell’Ugi, cui si uniscono in quella fase anche i comunisti, sono in prima linea a premere per l’ingresso del Psi nel governo in funzione modernizzatrice: tra loro incontriamo molti futuri protagonisti della scena politica, da Marco Pannella a Bettino Craxi. Sembra che il cambiamento possa farsi strada. Ma le resistenze conservatrici sono forti, mentre negli atenei il clima sta cambiando. Le rappresentanze dei «parlamentini» vanno in crisi. Non riescono più a mediare, come avevano fatto per un ventennio, scrive Emiliani, «fra la massa amorfa e spesso qualunquista degli studenti e minoranze di segno fortemente radicale». Queste ultime prendono il sopravvento, agitando un illusorio mito rivoluzionario, mentre il riformismo dell’Ugi e dell’Intesa (che riunisce gli universitari cattolici) finisce in soffitta. Vince il movimentismo sull’idea di una rappresentanza istituzionalizzata. Prima sconfitta.
La seconda è molto più grave, perché non riguarda soltanto l’università e il mondo giovanile, bensì più complessivamente il governo dell’Italia. La classe dirigente cresciuta nell’Ugi, appunto i «cinquattottini», arriva a occupare un ruolo di primo piano, in particolare nel Psi di Craxi, cui Emiliani rivolge in prevalenza la sua attenzione. Ma alla lunga, pur cogliendo importanti successi, non si dimostra all’altezza dei problemi, anzi s’impantana in una logorante lotta per il potere che propizia il dilagare della corruzione. L’ascesa della Lega e lo scoppio di Tangentopoli ne decreteranno la caduta, accompagnata da una condanna sommaria che va oltre i suoi demeriti.
Emiliani fornisce un quadro ricco e articolato della democrazia universitaria che fu e ogni tanto strappa un sorriso al lettore, rievocando bizzarre imprese goliardiche (formidabili gli scherzi di Lino Jannuzzi, travestito da dirigente vietnamita o inneggiante ai Borbone tra i sostenitori dei Savoia). Ma le sue conclusioni sono abbastanza sconfortanti: la modernizzazione sognata dai ragazzi dell’Ugi è avvenuta in forma distorta e loro stessi ne sono stati vittime. Per giunta chi è venuto dopo, almeno finora, non è riuscito a fare di meglio.
La Stampa 5.7.16
Guido Gozzano, l’invenzione del pop
Moriva cent’anni fa il giovane maestro dei crepuscolari
Con lui il poeta scese dall’empireo dannunziano giocando con la metrica e con i materiali “poveri”
di Ernesto Ferrero
Non lo abbiamo trattato molto bene, Guido Gustavo Gozzano. Ci fa comodo ridurlo a poche citazioni di versi famosi («le buone cose di pessimo gusto», «non amo che le rose che non colsi», «donna. mistero senza fine bello»), ai suoi personaggi più famigliari (Nonna Speranza, la signorina Felicita, Graziella, la Cocotte), all’odiosamata Torino borghese, città «senza raggio di bellezza», con i suoi salotti «beoti assai, pettegoli, bigotti».
Lo abbiamo rinchiuso nella categoria scolastica del crepuscolarismo e nello status di minore di talento. «Siate borghesi nella vita per essere rivoluzionari nell’arte», ammoniva Flaubert. Guido rivoluzionario non si è mai sognato di esserlo, ma innovatore sì. Ora che è passato un secolo dalla sua prematura scomparsa (il 9 agosto 1916, a soli 32 anni, di tubercolosi) bisogna ammettere che il nostro ’900 poetico, da Montale in avanti, ha il suo capostipite proprio nel poeta dell’obsolescenza programmata. È la formula felice coniata da Edoardo Sanguineti, che di avanguardie se ne intendeva, e su Guido ha molto lavorato (i saggi Da Montale a Gozzano, 1955, e Guido Gozzano, 1966, alimentano la qualità della curatela del volume Le poesie ora ripubblicato da Einaudi).
Se tutto nasce già datato, destinato a invecchiamento precoce, si può arrivare alla rappresentazione di «ogni bella cosa viva» solo reinventandola come un pezzo di modernariato. Maestro di travestimenti, il «borghese onesto» che detestava i letterati e diceva di vergognarsi d’essere poeta ha anticipato tutti fabbricando direttamente proprio il démodé. Così lo ha messo al riparo delle offese del tempo: lo ha reso classico.
Con lui il poeta scende dai cieli dell’empireo dannunziano, esibizionista e mondano. Niente pose superomistiche, nessun destino eccezionale. Forse soltanto a Torino poteva nascere un autore che, nutrito di Dante e Petrarca («Ah! veramente non so cosa / più triste che non più essere triste!») e padrone dei ferri del mestiere, si inventa un’operazione antiretorica che oggi chiameremmo pop.
Una corsa solitaria
Gioca con la metrica tradizionale e ne supera i limiti. Assume materiali «poveri», logorati dalla quotidianità, e li trasforma in una performance. Introduce nella poesia il dialetto («Oh! Mi m’antendô pà vaire…»), il colloquiale, il dialogato, l’ironia e l’autoironia. Rivendica con garbo la sua alterità, compiaciuto di non farsi inghiottire dal canone dominante, di correre da solo.
Un poeta per amico. Esce da una solida famiglia borghese di professionisti. Il padre ingegnere è un po’ incolore; la madre Diodata Mautino, figlia di un senatore amico di D’Azeglio, di cui in casa si conservano cimeli, è invece esuberante, mondana, colta, forte lettrice, poetessa d’occasione. Anima rappresentazioni teatrali per gli amici e trasmette al figlio l’inclinazione alla recita. Guido si atteggerà di volta in volta a esteta, dandy, borghese senza ambizioni, viveur, eccentrico solitario dall’amaro sogghigno, «fanciullo tenero e antico», cultore di scienze naturali. Il suo luogo d’elezione resta la villa canavesana di Agliè, il Meleto, con il suo liberty delicato, il giardino d’ordinanza (palme, magnolie, glicini), il laghetto, il frutteto «rigoglioso»: tempio di memoria nostalgica e bonaria socialità.
La poesia come malattia ereditaria. Guido nasce nel 1883 al n. 2 di via Davide Bertolotti affacciato su piazza Solferino. È uno studente pigro, bocciato al Cavour, respinto al D’Azeglio. Abbandonati i corsi di Giurisprudenza, frequenta con vera passione le lezioni di Arturo Graf, il guru letterario (grande attore anche lui) che lo guarisce da D’Annunzio, e lo indirizza alla poesia prosastica. L’anno chiave è il 1907. Tra marzo e aprile pubblica da Streglio, piccolo editore con bottega nella Galleria Subalpina, la prima raccolta poetica, La via del rifugio, subito apprezzata; avvia il carteggio con Amalia Guglielminetti; scopre d’esser malato («Si resta lì. Si aspetta sorridendo la morte: si sta quasi bene»). Cominciano i soggiorni di cura in Liguria, l’umiliazione del degrado fisico, delle terapie, ma anche l’accettazione di un destino trasformato in superiore cifra stilistica.
La liaison con Amalia è quasi tutta scritta e mentale. Alta, sottile, occhi nerissimi e bocca sensuale, grandi cappelli piumati «alla Rembrandt», sferra un’offensiva epistolare in piena regola, dichiara e chiede amore. Guido le oppone con fermezza la sua incapacità di amare, il rifiuto di abbassarsi alla «sentimentalità meschina dei piccoli amanti». «Grande egoista e freddissimo calcolatore», come si autodefinisce, può solo offrire affetto fraterno.
«Rispettabile bugiardo»
Amalia diventerà un personaggio dei Colloqui (1911), il vero e grande libro di Guido, prova di una matura accettazione di sé e del mondo, pubblicato da Treves, il maggior editore del tempo, apprezzato da Renato Serra ed Emilio Cecchi (2000 copie vendute, 1.700 lire di diritti d’autore). A nemmeno trent’anni è già un senatore delle patrie lettere. Cerca di monetizzare il successo come «gazzettiere», lavora per il cinema. Nel 1912 tenta un viaggio in India, da malato che cerca climi favorevoli, più che da inviato speciale. Visto da vicino, l’esotico è deludente. Gli spazi immensi, la natura eccessiva, quasi minacciosa, gli fanno rimpiangere il piccolo Canavese. Quella che doveva essere «la cuna del mondo» si rivela un continente funebre, in putrefazione, un supermarket di religioni per turisti. Per descriverlo, Guido parafrasa i libri di altri viaggiatori che si è portato dietro. Racconta persino una visita a Ceylon, dove non è mai sbarcato.
Negli ultimi tempi cerca conforto e pacificazione nell’osservazione della natura, si abbandona ai suoi ritmi lunghi. La scopre imperfetta, impegnata a autocostruirsi faticosamente, come uno scrittore, e questo lo solleva. Vagheggia un poema dedicato alle amatissime farfalle in forma di Epistole entomologiche di gusto settecentesco. Resterà incompiuto: la vena creativa si è atrofizzata.
Se ne va con discrezione proprio il giorno della presa di Gorizia, mentre il Paese festeggia. A sentire il fratello Renato, due candide farfalle accompagnano al cimitero il loro poeta, volteggiando sulla bara. Non sarà vero, ma è un dettaglio molto gozzaniano, degno delle invenzioni del «rispettabile bugiardo».
La Stampa 5.7.16
Così imparò da Socrate come si beve la cicuta
La confessione in versi della malattia procedeva di pari passo con la lettura di Platone e Nietzsche
di Luciano Bossina
L’autoritratto è feroce: «scarso cervello, scarsa morale, spaventosa chiaroveggenza», mentre sullo sfondo di una «villa triste», in un «silenzio di chiostro e di caserma», tiene in braccio una «bertuccia» di nome «Makakita».
Nell’anno in cui Gozzano, sotto la maschera di Totò Merùmeni, pubblica questi versi disperati e attoniti, all’Università di Torino si iscrive Palmiro Togliatti. E quando in città, più tardi, giovani intellettuali porteranno il fuoco divorante della novità (le Energie nove di Gobetti, l’Ordine nuovo di Gramsci), nei salotti di Nonna Speranza si continuerà a contemplare «la tristezza di una stampa antica», «l’ora antica torinese».
Non è solo uno scontro tra vecchio e nuovo. Raccontava Norberto Bobbio di aver «molto amato» Gozzano: ma di non amare affatto la sua Torino «gianduiesca», di trovare addirittura «detestabile» la Torino delle «golose». E Franco Antonicelli, eroe dell’antifascismo legatissimo al poeta, notava che le domande di Gozzano «alla vita, alla morte, alla natura» non vanno mai oltre «il primo battito della perplessità». Per questo, mentre sfogliamo i Colloqui e misuriamo con Edoardo Sanguineti la loro programmatica «obsolescenza», siamo costretti a domandarci se la poesia di Gozzano possa essere strappata alla vacuità che sembra talora inghiottirla.
«Arturo e Federico»
C’è un Gozzano diverso: quello che al lume della lucerna, nella «serietà» della sua «vissuta tragedia», cerca di accorciare la distanza intellettuale che lo separa dai modelli del tempo, da un Pascoli, da un d’Annunzio, prima ancora da un Carducci. Chi lo ha visto studiare, nei locali della torinese Società di Cultura, sa che la ricorrente evocazione nei suoi versi di Schopenhauer e Nietzsche («Arturo e Federico») non è un’ostentazione.
Eppure non ci si è mai chiesti abbastanza perché la confessione pubblica della malattia nei celebri versi di Alle soglie proceda di pari passo con letture di Nietzsche e di Platone. Perché nel mettere in rima le prime tecniche della «radioscopia» («un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore»), egli abbia evocato il «demone» socratico. In una rivelatoria lettera del giugno 1907, quando da appena due mesi sapeva del male che lo avrebbe ucciso, la riflessione sulla «Musa tubercolotica» lo induce a giudicare «fraterna l’antica saggezza dei Sofisti», a compiangere la sua scarsa preparazione culturale («quel mio caro povero Professore di greco! Come aveva ragione!»), a indicare nella «serenità socratica» la linfa della sua nuova poesia, a patto però di «fecondarla» con le «tendenze moderne». Qui Gozzano - non sarebbe difficile dimostrarlo - ha in mano La nascita della tragedia di Nietzsche (capitoli 13-15).
È giusto quindi chiedersi perché il filosofo tedesco, che lo aveva avvinto nella prima giovinezza nel segno di un superomismo edonistico e dannunziano, e da cui pure si era «slontanato» (Franco Contorbia), ritorni vistosamente nei più tardi appunti privati, e perché lì si accompagni a pensieri platonici. Appunti, diciamolo chiaramente, decisivi per comprendere la genesi di molti suoi versi, e tuttavia sempre fraintesi (l’Albo dell’officina). Perché egli non trascrive né da Nietzsche né da Platone, ma da surrogati moderni che lo aiutino a comprendere la figura di Socrate, a rispecchiare nel filosofo greco la sua pacata disperazione di morituro. Ecco che cos’è la «serenità socratica»: la calma di chi accetta la morte, beve la cicuta, attende senza colpa.
«Il saggio deve essere crudele con se stesso come con gli altri», annota nell’Albo. «Saper soffrire è poca cosa. Il saggio deve mostrare, in tutte le avventure della vita, la serenità del buon giocatore, l’innocenza gaia del fanciullo che si diverte, la grazia sorridente del danzatore». I versi di Alle soglie, con «il cuore monello che ride pur anco nel pianto», sono già tutti qui. E d’altronde anche l’immagine di Gozzano che tiene in braccio Makakita ci riporta al Nietzsche della Genealogia della morale, dove «la bestia darwiniana» (la scimmia) e la «modernissima modesta creaturina morale che non morde più» (l’uomo) «si danno garbatamente la mano», al cospetto del superuomo.
Così Gozzano capì nella malattia che un’altra lettura di Zarathustra era possibile. Ch’egli non era un superuomo, che il processo evolutivo si era arrestato in lui alla «bestia darwiniana» e alla «creaturina morale che non morde più». Di qui il rifugio nell’India e nel buddismo, il tentativo di conciliare figure inconciliabili, come Nietzsche e san Francesco, facendo del dolore il luogo geometrico di ogni isolamento.
La bertuccia Makakita
Non basta dunque liberare Gozzano dall’«ovatta del sentimento di cui gli spiriti deboli l’hanno imbottito». Dobbiamo anche scongiurare il pericolo che nella sua poesia, rimossa l’imbottitura, rimanga il vuoto. Lo studio appassionato della filosofia tedesca e della filosofia greca, che pure rischiava di essere unicamente «distruttore», di ridurre a nausea le «fedi» senza offrire nulla che le risarcisse, ci spiega perché egli abbia infine saputo esprimere «una fiorita d’esili versi consolatori».
A Totò Merùmeni non restò che prendere in braccio la «darwiniana» Makakita, condividere la propria sorte con tutti i «buoni» e gli «inetti» che la vita riduce a «reduci», e rifugiarsi nell’etica del vicendevole soccorso. Una morale da sopravvissuto, da chiaroveggente senza più spavento, che solo un doloroso tragitto da Nietzsche a Socrate, e l’approdo ad altre, ancorché «poche fedi» poteva permettere.
La Stampa 5.7.16
Nel salotto di nonna Speranza il marsala diventò moscato
di Mario Baudino
Anche lui, come molti grandi, pagò per essere pubblicato la prima volta. Anzi, come ricorda l’amico Carlo Calcaterra, che gli dedicò un libro di ricordi nel ’44, fu probabilmente la madre Diodata Mautino ad occuparsi della faccenda, lasciando al figlio la possibilità di fare lo gnorri: da vero snob, lui che esisteva «tra il tutto e il niente» e si definiva «questa cosa vivente/ detta guidogozzano», preferì ignorare le circostanze materiali che avevano portato nel 1907 all’edizione della Via del rifugio, il libretto destinato a rivelare uno dei nostri grandi classici.
«Tra il tutto niente», però, Gozzano era attentissimo alla propria immagine letteraria, e non trascurava i particolari. Quando l’editore Streglio gli annunciò che si rendeva necessaria una seconda edizione, il poeta chiese - e ottenne - di scrivere però «terza» sulla copertina, tanto per fare miglior figura. La seconda edizione è diventata così un libro fantasma, o meglio un innocente falso. E pure arricchito dalla permanenza di un delizioso anacronismo, che non fu corretto.
E’ celato nel Salotto di nonna Speranza, dove viene offerto un marsala. Ebbene, considerato che la scena è datata al 1850 (e il luogo è Belgirate, sul Lago Maggiore), proprio Calcaterra sostiene che subito fece notare al caro Guido come all’epoca in Piemonte quel vino siciliano era probabilmente del tutto sconosciuto. Anche Amalia Guglielminetti, l’amata poetessa, si è attribuita la paternità del consiglio, segno che nei circoli letterari o quantomeno fra gli amici se ne fece allora un gran spettegolio.
Quando si trattò di consegnare all’editore Treves la ben più corposa raccolta dei Colloqui, Gozzano ebbe finalmente la possibilità di sistemare la faccenda, che doveva infastidirlo non poco. Abbiamo così due versioni, entrambe magnifiche, per la verità. 1907: «”Gradiscono un po’ di marsala?” “Signora Sorella, magari”/ E sulle poltrone di gala sedevano in bei conversari». 1911: «”Gradiscono un po’ di moscato?” “Signora Sorella, magari”/ E con un sorriso pacato sedevano in bei conversari”. Peccato per le poltrone; ma date ad Asti quel che è di Asti.
Corriere 5.7.16
Io, figlia di madre difficile non vorrei essere nata dalla gestazione per altri
di Susanna Tamaro
Appena ho terminato la lettura del coraggioso e attualissimo pamphlet di Marina Terragni, Temporary mother (VandA ePublishing), mi è sorta spontanea una riflessione: come mai è stato accolto da un siderale silenzio? E subito è seguita una domanda: quanti sono i fondamentalismi del nostro tempo? Ce ne è uno macroscopico — quello religioso — che per le sue tragiche conseguenze è purtroppo noto a tutti. Ma non se ne annidano forse altri intorno a noi, più miti, più benefici, apparentemente più innocui? In fondo la scomparsa delle ideologie del ‘900 e l’innegabile eclissi del cristianesimo hanno lasciato un grande vuoto di etica e di orizzonti, e il vuoto non è facile da reggere. O si accetta di attraversarlo — consapevoli che l’incertezza fa parte del destino dell’uomo — oppure ci si attacca a qualcosa, a un particolare, e si trasforma quel particolare nel metro della totalità; da quel momento in poi, tutto quello che non si conforma alla totalità che ci rappresenta va combattuto. E in che modo? Con l’invettiva, la ridicolizzazione, la derisione: tutte armi che il mondo della rete offre con democratica generosità. Per linciare una persona basta un click, in meno di un secondo si guadagna la certezza di essere dalla parte giusta del mondo, senza mai essere sfiorati dal dubbio che la parte in cui ci riconosciamo sia soltanto un microscopico spicchio della realtà totale. Questi fondamentalismi domestici — che potremmo chiamare identitari, perché ci si identifica completamente con un’identità parziale — sono particolarmente vivi e attivi nel campo della bioetica, campo a cui la Gpa appartiene di diritto.
Gpa, gestazione per altri. Non occorre essere dei filosofi del linguaggio per capire che la prima e più grande manipolazione del pensiero avviene attraverso le parole. Parlare di «pulizia etnica», ad esempio, è molto diverso che dire «sterminio di massa» perché se c’è del pulito, il nostro inconscio automaticamente pensa che qualcosa in fondo di buono c’è. E così dire «gestazione per altri» e tutt’altra cosa che dire «utero in affitto». Il concetto di affitto porta con sé l’idea, infatti, dell’oggetto e del commercio — grazie al denaro, posso affittare una macchina, un appartamento — mentre la definizione «per altri» ci indirizza verso una positività buonista che rende questa condizione, non solo accettabile, ma anche desiderabile. Ne consegue che tutti coloro che si oppongono a questo progetto sono persone retrive, egoiste, prigioniere di un oscurantismo che non ha più senso di esistere, e — soprattutto — nemiche della Felicità e dell’Amore, i due grandi Totem all’ombra dei quali vive prostrato il nostro tempo. Come puoi pensare, infatti, di negare a qualcuno il diritto di essere felice, il diritto di amare?
Non è forse con la stessa suadente strategia che i predatori di ovuli — quest’abominevole categoria di «benefattori» — si aggira tra le giovani ragazze? «Non vuoi rendere felice una coppia a cui il destino ha negato questo diritto? C’è gente che dona un rene e tu sei così egoista da non voler donare un misero ovetto? Ci guadagni anche due soldini di rimborso, che fanno sempre comodo...». Per delle bambine cresciute con gli ovetti Kinder, questo discorso sembra innocuo, convincente. In fondo che c’è di male? Tranne poi dire, come ho letto in un’intervista fatta a una ragazza donatrice: «Oddio, non è che poi da qualche parte ci saranno dei bambini che mi assomigliano?».
Sempre per l’esercizio di chiamare le cose con il loro nome, gli ovetti — diciamolo allora, per chi zoppica in biologia — sono i nostri figli. Figli che prima iberniamo e poi lanciamo nel mondo come fossimo piante che si affidano alla fecondazione anemofila. Spargiamo semi senza sapere dove andranno a finire. Noi, le madri, non verremo mai a conoscere il loro destino. Può esistere qualcosa di più atroce di questo? La maternità — la condizione fondante del vivente — ridotta a livello delle piante, senza identità individuale. La genealogia ridotta a quella uniformante della specie.
Ma forse è proprio qui, contemplando il punto più basso dell’abisso, che il bio business getta la maschera e fa vedere il suo vero volto, che non è quello di un salvatore bensì quello di un famelico generatore del nulla. Attaccare la maternità, distruggere le sue viscere misericordiose vuol dire attaccare e distruggere i fondamenti del mondo. Per capire questo non occorre essersi rimpinzati di opuscoli Pro Life, basta aver visto almeno una volta una gatta a cui siano stati sottratti i gattini, la trepida cova di una rondine, le povere donne che scendono dai barconi stringendo al petto i loro figli sopravvissuti all’orrore. Basta ricordare l’ultima telefonata di quel povero ragazzo morto nella strage di Orlando: «Mamma, sto per morire, ti voglio bene». O basta anche, semplicemente, ricordare la morte della propria madre. Con la Gpa tutto questo non potrà avvenire, perché la super donna, super generosa — la complementare della donatrice — la donna che tutte noi dovremmo ammirare, cede immediatamente ad altri il frutto del suo ventre.
La verità scientifica — elevata nel nostro tempo a unica verità — a questo punto diventa afasica, muta, inessenziale. Tutti i meravigliosi e straordinari studi sugli intensissimi rapporti che intercorrono in quei nove mesi tra la madre e il suo bambino diventano carta straccia. Nel tempo della fattibilità, il piccolo è ridotto a cosa, viene assemblato in un luogo indifferente ma il suo esistere ridiviene reale soltanto nel momento in cui viene onorato il contratto e consegnato nelle mani dei felicissimi committenti. D’altronde, come dar loro torto? Ogni bambino è un miracolo davanti a cui rimaniamo tutti a bocca aperta! Però, questo miracolo ha un piccolo difetto. È un essere umano e, in quanto tale, probabilmente prima o poi comincerà a farsi domande.
Già perché, assieme agli studi scientifici, sono finiti nel cassonetto decine di capolavori della letteratura con protagonisti giovani orfani o figli illegittimi alla ricerca perenne del volto della madre, un paio di secoli di studi psicologici, l’intera psicanalisi. Il bambino Gpa è un bambino tabula rasa, nasce senza alcun passato e vive — e sappiamo già che sarà felice perché è stato desideratissimo — in un mondo che gli promette un amore incondizionato. Ma quando, un giorno, si guarderà allo specchio e capirà che non potrà mai risalire all’origine di una parte del suo volto, l’amore basterà? E basterà quando si renderà conto che sua madre, per un compenso, ha venduto l’ovulo che l’ha generato, cioè la sua vita?
Se penso alla mia famiglia, la parola «amore» è forse la trentesima che mi viene in mente e la maggior parte delle parole che la precedono non hanno certo una connotazione di positività, eppure io sono quella che sono perché ho avuto quei genitori. Genitori a loro volta generati da altri genitori. Il fondamento della vita umana dunque è la genealogia, non l’amore. Si può nascere anche da uno stupro, si può crescere in un lager. Ciò che fa di un essere umano una persona è prima di ogni altra cosa la storia di chi ci ha preceduto. In nome di che cosa mi chiedo allora, una persona, per esercitare il suo diritto alla felicità, può coscientemente privare un altro essere della sua genealogia? In nome dell’amore? Ma un amore che priva programmaticamente, per principio, qualcun altro di un ben più fondante diritto, che amore è?
E qui va smascherato il secondo passo del bio business. Dato che non esiste la maternità, non esiste neppure il destino. Nessuna unicità appartiene all’uomo. Non è importante sognare, pensare, combattere, danzare. Il corpo a corpo karmico non ci riguarda più. L’esteso campo del mistero — quel campo che ci rende davvero umani — è stato conquistato dalla tecnica ed è lei a preparare per noi delle vite indolori, immerse dall’inizio alla fine nella rilassata piacevolezza del suo Amore.
Le energia messe in moto per propagandare questa nuova visione dell’umano sono potenti, sempre pronte a esaltare con tutti i mezzi un singolo caso, capace di mettere in ombra, con la sua forza emotiva, i principi etici che da migliaia di anni governano la vita degli uomini. Non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te stesso è il cardine principale su cui si fonda ogni civiltà degna di questo nome. Faccio outing: non vorrei mai essere nata da una Gpa. Nonostante mia madre non sia stata un esempio di amore materno, dalla sua morte in poi c’è un grande vuoto nella mia vita.
Per difendersi da questa aberrante visione del mondo, si dovrebbe prima di tutto cominciare a smantellare il grande ombrello dell’Amore Incondizionato, riportando questo importantissimo sentimento a due categorie fondamentali — l’amore generativo e l’amore oblativo — per ricordarsi che non poter generare non vuol dire non potere amare, anzi l’amore oblativo è spesso più grande e più libero di quello generativo.
E allora perché non lavorare strenuamente nel campo degli affidi e delle adozioni? I tre, quattro anni abituali di attesa, ad esempio, ridotti a nove mesi, il tempo di una gravidanza? Perché non pensare a Incentivi economici, apertura ai single e alle coppie omosessuali quando sia manifesta una stabilità affettiva? Togliere la maggior parte dei bambini dalle situazioni di anaffettività dell’abbandono dovrebbe essere il primo pensiero di una società umanamente degna. Perché, come dice il Talmud, «chi salva una vita salva il mondo intero», e questa salvezza — che nasce dall’amore oblativo — è l’unico vero e umile antidoto che possiamo opporre alla Gpa e allo strapotere del bio business sulla vita.
La Stampa 5.7.16
Addio a Abbas Kiarostami, poeta neorealista costretto all’esilio
di Fulvia Caprara
Uomini
semplici, ritratti nello scorrere della vita quotidiana, con
l’intensità dello sguardo neorealista che restituisce il senso profondo
delle azioni umane. La voce di Abbas Kiarostami, regista e sceneggiatore
nato a Teheran nel 1940, si è spenta ieri a Parigi, dove stava curando
il tumore che l’aveva aggredito.
Esordiente negli Anni 70 con
diversi cortometraggi dopo aver fondato nel suo Paese la sezione per il
cinema dell’Istituto per lo sviluppo intellettuale di bambini e
adolescenti, ha debuttato nel ‘74 con il lungometraggio Il viaggiatore.
Nel 1987 la critica internazionale lo ha scoperto al Festival di Locarno
dove presentava Dov’è la casa del mio amico?.
Da quel momento il
percorso artistico di Kiarostami è stato segnato da una lunga serie di
successi, premi, partecipazioni alle più importanti rassegne. Tra i fan
più celebri Nanni Moretti che proiettò nel suo cinema, il Nuovo Sacher
di Roma, il corto Close Up, riflessione venata di ironia sulle
difficoltà che le opere d’autore affrontano sul piano degli incassi. La
cifra limpida e personale dei suoi film, che ritraggono l’Iran sospeso
tra modernità e tradizione, ha colpito Martin Scorsese e Jean Luc
Godard, che ha dichiarato: «Il cinema inizia con Griffith e finisce con
Kiarostami».
Rimasto in patria anche dopo la rivoluzione islamica
del ‘79, Kiarostami aveva deciso di girare i suoi film lontano da casa
in seguito all’elezione del presidente ultraconservatore Mahmud
Ahmadinejad. Ma tutta la sua opera, direttamente oppure con allusioni e
perifrasi si è sempre riferita al Paese d’origine e ai suoi crescenti
problemi.
Nel Sapore della ciliegia, Palma d’oro al Festival di
Cannes ‘97, si interrogava sul senso della vita e della morte
descrivendo le peripezie di un uomo che ha deciso di suicidarsi e che
cerca qualcuno disposto a tumularlo il giorno seguente. L’incontro
cruciale è con l’anziano impiegato del Museo di scienze naturali che gli
confida di aver provato lo stesso impulso e di averlo superato gustando
il sapore di un gelso. Nel 2005 Kiarostami aveva partecipato al film
corale Tickets, cui avevano lavorato anche Ermanno Olmi e Ken Loach. Nel
2010 ha diretto Copia conforme con Juliette Binoche protagonista,
premiata per la migliore interpretazione a Cannes.
Stavolta il
tema centrale riguardava il rapporto tra copia e originale nel mondo
dell’arte. La presentazione dell’opera fu segnata dalle notizie
riguardanti il collega Jafar Panahi, arrestato e condannato in Iran:
«Sono profondamente rattristato - aveva detto l’autore - non possiamo
rimanere indifferenti davanti a quello che sta succedendo nel mio Paese.
È assolutamente intollerabile che un cineasta venga messo in carcere,
significa voler imprigionare l’arte». Con questo dolore, profondamente
radicato nell’animo, Kiarostami ha finito di vivere lontano dal Paese
amatissimo dove era nato.
Corriere 5.7.16
Il poeta del cinema iraniano
Addio al regista, consacrato a Cannes per il film «Il sapore della ciliegia»
Conquistò il pubblico con i suoi misteri
di Paolo Mereghetti
Come faranno ora i nipotini di Fantozzi a prendersela con i «film iraniani dove non si capisce niente», adesso che se n’è andato l’obiettivo privilegiato delle loro polemiche, adesso che è morto il regista che aveva osato non dirci come andava a finire il lungo corteggiamento tra il muratore/attore e la sua agognata metà in Sotto gli ulivi ?
Ieri è morto a Parigi, dove era in cura per una grave malattia gastrointestinale, Kiarostami portando per sempre con sé questo e tanti altri segreti, sia quelli che avevano fatto arrabbiare i fautori del «tutto-e-subito» e del «meno-penso-più-sono-contento», sia quelli che avevano invece deliziato quella parte di pubblico disposto a confrontarsi con i misteri delle sue sceneggiature per essere una parte attiva nella sua macchina-cinema… Nato a Teheran nel 1940, studente di belle arti e illustratore di libri per l’infanzia, Abbas Kiarostami entra nel 1969 al Kanun, l’«Istituto per lo sviluppo intellettuale dei giovani e degli adolescenti» proprio quando veniva dotato di un Dipartimento per la cinematografia che chiese al suo dipendente di girare documentari di chiaro impianto pedagogico. E così, confortato più dalle proprie passioni letterarie (soprattutto le poesie di Omar Khayyam e Forough Farrokhzad) che da qualche vocazione cinefila, Kiarostami comincia a mettere a punto quello che diventerà il suo inconfondibile stile: un’ambientazione realistica, un soggetto semplice e immediato (che spesso vede un giovane alle prese con i problemi della vita e gli ostacoli che frappongono gli adulti) e una messa in scena che sa concedersi improvvisi scarti ora fantastici ora poetici.
Il suo primo lungometraggio, Il viaggiatore (1974) racconta gli sforzi di un ragazzino per vedere una partita di calcio della nazionale a Teheran, capace di dar forma a un desiderio destabilizzante rispetto alle rigidità dell’Iran pre-rivoluzionario. Allo stesso modo Dov’è la casa del mio amico? (’87) – che arriva dopo molti cortometraggi apertamente didattici: Tinteggiare , Come trascorrere il tempo libero , Mal di denti , Gli alunni della prima classe — sa usare il suo piccolo protagonista, che vuole restituire un quaderno a un compagno, per raccontare un mondo fatto di adulti indifferenti o ostili, facendo però partecipare lo spettatore più alle peripezie del bambino che all’insensibilità dei grandi. Annullando così lo spunto di partenza per concentrarsi sull’umanità degli ultimi e dei deboli.
Un modo di fare cinema che prende forma nei capolavori successivi, da Close-up (’90, sul processo contro un imbroglione che si era spacciato per regista) a E la vita continua (’92, pseudo documentario tra i terremotati per cercare il bambino-attore di Dov’è la casa del mio amico? ) a Sotto gli ulivi (’94, dove le riprese di un film si intrecciano a una «impossibile» storia d’amore) a Il sapore della ciliegia (’97, Palma d’Oro a Cannes per il miglior film, sulle peripezie di un aspirante suicida che non trova chi voglia seppellire il suo cadavere).
In tutti questi film, lo spunto narrativo si mescola a una parallela riflessione sul cinema e i suoi «inganni» mentre chiede allo spettatore di farsi parte attiva per contribuire a interpretare quello che il regista può solo accennare. La realtà è troppo complessa per essere spiegata fino in fondo e la macchina da presa che si allontana per non farci sentire quello che i due protagonisti di Sotto gli ulivi finalmente riescono a dirsi è il modo di Kiarostami per ricordarci che da una parte stiamo assistendo a un film (e che quindi la storia d’amore è solo un’invenzione) e dall’altra che se anche volessimo credere alla «realtà» che vediamo sullo schermo, molte cose ci sfuggirebbero. Come appunto il dialogo tra i due «innamorati».
Un ragionare per modelli poetici e metaforici, questo, che la censura iraniana rendeva quasi obbligatoria (i film di Kiarostami non hanno mai avuto grande appoggio in patria, anche se il regista ha saputo evitare gli strali diretti della censura, come è successo al suo amico Panahi) e che ha spinto il regista a dirigere opere sempre più rarefatte e «astratte» (come ABC Africa e Dieci ) e che poi lo ha convinto ad accettare le tante proposte che arrivavano dall’estero: è in Italia che ha girato Copia conforme (2010) dove ragiona sull’impossibilità di arrivare a una qualche verità sulle cose, e in Giappone Qualcuno da amare (2012), dove finisce per dimostrare come la lontananza dalla sua patria lo ha portato a una eccessiva ricerca formale. Che ieri la morte ha tragicamente arrestato.
Repubblica Salute 5.7.16
Sostanze. Birra o vino purché sia sballo
Alcol soprattutto. Non per scopi conviviali ma per perdere il controllo. E sigarette di marjuana
Un rapporto online fotografa i consumi degli italiani e le conseguenze emotive degli abusi: angoscia, allucinazioni, pianto
Il 3% ha ammesso di aver preso nell’ultimo anno polvere bianca di cui ignorava la composizione
Il Global Drug Survey è la più ampia ricerca indipendente sul consumo di droga. I sondaggi sul sito globaldrugsurvey.com/
Viola Bachini e Michela Perrone
A CASA, CHE SIA A tavola con gli amici o sprofondati in poltrona a fine giornata, preferiamo il vino rosso, quando usciamo beviamo invece più birra. I risultati sono la fotografia di quali siano le sostanze più usate e in che modo. Comprendendo sia vere e proprie droghe vietate - come anfetamine o cocaina - sia sostanze legali come alcol e fumo. I ricercatori inglesi hanno messo online il questionario lo scorso novembre e durante i tre mesi in cui è rimasto attivo hanno risposto più di 3.000 italiani, che hanno dichiarato di fare uso di almeno una delle 140 sostanze considerate dal sondaggio; solo il 17% dei partecipanti si limita a quelle legali. In pole position ci sono alcol, tabacco, cannabis, caffeina e cocaina.
«L’alcol in Italia è sempre stata la sostanza psicoattiva per eccellenza per il divertimento e il tempo libero. Negli ultimi tempi però il trend sta cambiando: diminuiscono i consumi individuali e aumenta il numero di persone che ci si avvicina cercando una sostanza in grado di alterare le percezioni», commenta Riccardo De Facci, vice presidente della più grande rete di comunità italiane, il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, ed esperto di tossicodipendenze. E con ciò aumentano i pericoli: il 14% dei consumatori di alcol dichiara addirittura di non riuscire a smettere dopo il primo bicchiere; e il 4% di sentire il bisogno di iniziare fin dal mattino.
«Nel nostro Paese esisteva una cultura del consumo consapevole dell’alcol, che stiamo perdendo. Tra i giovani si stanno diffondendo le abitudini del mondo anglosassone, dove si consumano 4-5 mini superalcolici uno dietro l’altro per saltare la fase preparatoria ed entrare subito in quella della trasgressione e della perdita del controllo», nota De Facci. Così accade che, secondo i dati della Global Drug Survey, il 16% dei consumatori di alcol racconta di aver ferito emotivamente le persone che gli stavano intorno a causa della sbornia. Non solo: chi beve molto vino dopo dichiara di sentirsi stanco, chi abusa di superalcolici aggressivo, ma anche sexy, quando non resta invischiato (una persona su 5 ) in una crisi di pianto.
Alcol per alterare le percezioni; e cannabis, la più consumata tra le sostanze illegali. «Fortunatamente sono pochi gli adolescenti che cercano lo sballo iniziando a fumare fin dal primo mattino o a volte consumando la sostanza pura, senza aggiungere il tabacco, e quindi con un’efficacia ben diversa», racconta De Facci. Confermando i risultati del Glogal Survey secondo cui la quasi totalità dei consumatori fuma sigarette di marjuana, ma solo il 3% lo fa senza il tabacco. I sintomi descritti vanno dalle allucinazioni auditive all’incapacità di parlare. Più della metà dei partecipanti allo studio che ha consumato cannabis nella vita racconta di aver provato una forte sensazione di angoscia.
L’altra protagonista della scena italiana è la cocaina. «I modelli di consumo della cocaina sono molto pericolosi - ammonisce De Facci - perché molte persone fanno di se stesse un laboratorio in cui sperimentare sostanze». Infatti, al contrario della maggior parte dei consumatori di cannabis, chi ha una dipendenza da polvere bianca vuole subito raggiungere gli effetti, cerca lo sballo più che il piacere. Che ci siano comportamenti a rischio lo confermano le risposte al questionario. Poco meno del 3% dei partecipanti al sondaggio ha ammesso di aver assunto polvere bianca di cui ignorava la composizione nell’ultimo anno e ben l’81% di questi ha riportato sintomi di intossicazione dopo l’uso. E non sono solo i consumatori del fine settimana: «In Italia si parla di un milione di utilizzatori all’anno. Il rischio c’è soprattutto per chi ne fa un uso continuativo, per stare dietro a ritmi imposti dalla società. L’immagine del libero professionista che corre da un posto all’altro e che per rendere di più sul lavoro fa uso di cocaina non è affatto uno stereotipo», conclude De Facci.