martedì 5 luglio 2016

Avvenire.it 14.04.16
800 969 878, un numero verde per chi ha abortito
di Daniela Pozzoli


Il primo a comporre il numero verde nazionale 800 969 878, mesi fa, è stato un uomo e il 41 per cento delle chiamate vengono fatte proprio da uomini. Dall'altro capo del telefono ci sono i volontari di un centralino, il primo di questo tipo in Italia - "Fede e terapia" è il nome del progetto che mira proprio a "guarire le ferite dell'anima" - che si occupano di offrire assistenza a chi ha abortito. "Non c'è da stupirsi ­- spiega don Maurizio Gagliardini, creatore del servizio e presidente dell'associazione Difendere la vita con Maria –: spesso sono fidanzati e mariti a decidere che la compagna abortisca e questo "aborto procurato" nel tempo cova nell'anima, producendo un malessere morale e sociale che va prima o poi elaborato. Aprire mente e cuore è dunque fondamentale per capire cosa è successo e iniziare un cammino di guarigione, soprattutto in questo Anno Santo della Misericordia. Infatti spesso queste persone non chiedono di parlare con lo psicologo ma con il prete". Se si prende coscienza di ciò che è successo "è il primo passo per la riconciliazione – spiega la psichiatra Liliana Zedda -. Fede e terapia stanno insieme perché il senso di colpa per i cristiani diventa peccato che sarà perdonato dal Padrone della vita". "Un servizio che vuole ridare alle donne la loro capacità generativa, anche quando è ferita da esperienze drammatiche", ha commentato monsignor Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara (l'associazione di Gagliardini è nata nella diocesi piemontese) e vicepresidente per l'Italia settentrionale della Cei, presente alla conferenza stampa di presentazione del servizio, avvenuta oggi nella sede milanese di Avvenire che è media partner dell'iniziativa. "E' necessario rompere il muro del pregiudizio – ha sottolineato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio - e sanare le ferite, decine di migliaia ogni anno, legate alla non accettazione della vita in tutte le sue forme. E la parola chiave è accoglienza". "Presenza preziosa sul territorio", definisce il lavoro di ascolto monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l'azione sociale della diocesi di Milano, per il quale "il numero verde permette di ricostruire quel tessuto umano che troppo spesso si va sfilacciando". A fronte di un bollettino di guerra ­- sei milioni gli aborti consumati in Italia, riporta le cifre Carlo Casini, presidente onorario del Movimento per la vita, "molti ripetuti, vale a dire che sono almeno 4 i milioni di donne coinvolte" – chi sono le donne che chiamano? Per Benedetta Foà, psicologa che lavora dietro le quinte del servizio, offrendo una consulenza che è molto spesso un "abbraccio", "sono spesso quarantenni che chiedono ascolto: hanno abortito a 16/17 anni, costrette dai genitori o dal fidanzato. Si sono portate dentro il segreto, l'umiliazione e la rabbia senza poterne parlare con nessuno. Lo fanno adesso. E non pare loro vero di trovare qualcuno che le ascolti".

Avvenire.it 05.07.16
Propaganda e jihadisti delle scuole di élite
di Stefano Vecchia


Atre giorni dalla terribile conclusione dell'attacco terrorista di Dacca, l'attenzione si concentra ora sull'identità dei militanti autori del massacro e sulle responsabilità. I primi sembrano infatti sfuggire alla tipologia abituale del militante locale, di povere origini e con motivazioni nell'incertezza delle prospettive oltre che nell'indottrinamento delle scuole coraniche. Si tratterebbe infatti di cinque o forse sette rampolli di famiglie note e di ampie possibilità economiche. Smentita ancora una volta dal governo di Dacca l'attribuzione di responsabilità del sedicente Stato islamico, Daesh. Il più ostinato nel negare la presenza nel Paese di miliziani riconducibili a Daesh è, non a caso, il ministro dell'Interno, Asaduzzaman Khan, che ieri ancora una volta ha attribuito la responsabilità dell'attacco ad un gruppo jihadista locale, il Jumatul Mujaheddin Bangladesh. Una teoria che non spiega però perché gli autori del massacro di venerdì notte, Akash, Badhon, Bikash, Don, Ripon, individuati dalle foto postate da Daesh sul suo sito propagandistico Amaq,(a cui si aggiungerebbero Nibras Islam e Rohan Imtiaz, non ancora ufficialmente identificati) provengano, come indicato dallo stesso ministro Khan, «da famiglie benestanti, sono andati all'università e nessuno di loro ha mai frequentato una madrasa». Alla domanda sul perché sarebbero diventati militanti islamici, Khan ha risposto bruscamente: «È diventata una moda». Non una visione esattamente condivisa, se anche il numero due del ministero degli Esteri bengalese, Shahidul Haque, offrendo ieri le condoglianze ufficiali all'ambasciatore d'Italia Mario Palma, ha sostenuto che «la gente è scioccata e sorpresa perché si chiede come mai dei giovani possano essersi radicalizzati così tanto». Ecco allora che dietro i giovani che le foto di Amaq mostrano con abiti neri e kalashnikov, sorridenti e rilassati come se stessero preparandosi a una festa goliardica e non a massacrare oltre 20 persone, in maggioranza stranieri ma anche alcuni coetanei, si affacciano 'cattivi maestri'. Come scritto ieri dal quotidiano bengalese The Daily Star, si tratterebbe predicatori quali Anjem Choudary, Shami Witness e Zakir Nayek, assai attivi nel Subcontinente indiano, elementi di collegamento con i network jihadisti internazionali. Almeno due degli attentatori, ancora ufficialmente 'dispersi' – Nibras Islam e Rohan Imtiaz – li seguivano sui social network, almeno da un anno prima di scomparire l'inverno scorso e far perdere le loro tracce. Shami Witness è il soprannome su Twitter del 24enne indiano Mehdi Biswas, arrestato nel dicembre 2014 e formalmente accusato lo scorso dalle autorità indiane di gestire su Twitter «il più influente account favorevole allo Stato Islamico». Secondo stime del Centro internazionale per lo studio della radicalizzazione e la violenza politica del King's College di Londra, il suo seguito sociale avrebbe coinvolto i due terzi dei jihadisti globali. Ancora indiano di nascita è Zakir Naik, un predicatore che diffonde sul suo canale televisivo islamico Peace Tv, basato a Dubai, proclami in inglese di incitamento al terrorismo contro i non musulmani e i musulmani non sunniti. Fondatore della Islamic Research Foundation di Mumbay, è noto per gli attacchi contro tutte le altre religioni e i musulmani non sunniti. Per questo gli è vietato l'ingresso in Canada, Gran Bretagna e Malaysia, ma non in Bangladesh, dove si è recato lo scorso aprile provocando forti contestazioni. Infine, il pachistano Anjem Choudary, britannico di origine, a giudizio nel Regno Unito per le leggi antiterrorismo. Avvocato e presidente della Società degli avvocati musulmani, è sotto accusa per una serie di prediche diffuse su You Tube in cui esorta all'arruolamento in Siria sotto la bandiera del Califfato. Probabilmente, esempi e istigazioni hanno avuto un ruolo nella scelta dei giovani terroristi di Dacca, tuttavia, le mode, anche quella di adesione agli ideali del jihadismo nella versione insieme arcaica e globalizzata di Daesh, non nascono dal nulla e indubbiamente il territorio bengalese si presta per una serie di ragioni. Ragioni che vanno oltre quelle frequentemente proposte, di frustrazione per la povertà e le possibilità negate, e che chiamano in causa l'indottrinamento nelle decine di migliaia di madrase ispirate e finanziate dalle monarchie sunnite del Golfo. Non mancano nel Paese gruppi locali influenzati da idee jihadiste, come Jamatul Mujahdeen Bangladesh, bandito da un decennio, ma ancora attivo con l'obiettivo di fare del Bangladesh una realtà governata dalla legge religiosa in senso islamico, la sharia. Una spinta apparentemente retrograda rispetto alla politica laicista perseguita dal premier Hasina Wazed, operata però con l'appoggio di 10mila aderenti e infiltrazioni nelle élite. A dimostrarlo, l'adesione di Rohan Imtiaz, tra i presunti terroristi di Dacca, figlio di uno dei leader nella capitale della Lega Awami, partito di maggioranza governativa. Come sottolinea un missionario di lungo corso, in Bangladesh «le esigenze dei giovani estremisti crescono con la possibilità di soddisfarle». «Rampolli di famiglie ricche, che nulla negano ai figli, che li mandano in scuole prestigiose, possono meglio soddisfare le loro tendenze anche negative. A parte questo, ho visto gruppi politici attrarre giovani con somme di denaro, promesse di svago e vizi per farli sentire onnipotenti». Anche questo è parte del sostrato da cui è nata la violenza cieca di venerdì scorso e che si innesta su una tradizione di tolleranza, ma anche di militanza e di orgoglio dell'islam bengalese. È la tradizione delle rivolte contro gli abusi dei nababbi locali, quella della partecipazione alle guerre afghane contro i britannici, quella della nascita della Lega musulmana nel 1906 e del contributo dato alla formazione di uno Stato su basi islamiche, il Pakistan, separato dall'India indù il 15 agosto 1947. Quel Pakistan da cui il Bangladesh si è separato nel 1971 con una guerra di liberazione costata milioni di vittime. In sostanza, la pressione di al-Qaeda o di Daesh, se stimola alla conquista di un mondo oggi 'infedele', chiama anche per riflesso a ritrovare una centralità nell'islam asiatico che l'antico Bengala, oggi Bangladesh per la parte orientale, sembrava avere smarrito.