il manifesto 16.7.16
Guerra civile: il dovere di ricordare
1936-2016.
Al posto della «diserzione» che caratterizzò gli eventi bellici
pre-moderni, s'impose un modello europeo di partecipazione
di Alessandro Barile
Il
17 luglio ricorreranno gli ottant’anni dallo scoppio della Guerra
civile spagnola. Una data simbolica per la storia europea. Per la prima
volta, la dimensione politica del conflitto prendeva il sopravvento su
quella militare, tecnica e diplomatica. Si può dire che lo scontro
spagnolo inaugura una forma-guerra sublimata nel successivo conflitto
mondiale, che attraverserà tutte le lotte anti-coloniali del XX secolo.
Se la diserzione costituiva l’approccio naturale delle popolazioni alle
guerre pre-moderne e fino alla Prima guerra mondiale, la contemporaneità
imporrà il dovere della partecipazione. In Spagna non c’era possibile
diserzione: il conflitto attraversava i rapporti di parentela, di
lavoro, scardinava le relazioni sociali e politiche, costringendo allo
schieramento. Prendere parte coscientemente anziché subire passivamente
gli eventi della storia.
Anche quel ceto notabiliare che gestiva gli
affari politici, ancorato a paradigmi ottocenteschi in ritardo sulla
modernità europea, dovette suo malgrado schierarsi in difesa di una
delle due cause per cui si lottava tragicamente. La messa in scena
aristocratica lasciava il posto alla dimensione drammatica dello scontro
sociale. La modernità politica del Novecento passava anche attraverso
il travaglio di questo scontro inevitabilmente fratricida. La Guerra
civile spagnola è stata una guerra soprattutto simbolica. Figure e miti
ne pervadono la scenografia: non si lottava per un territorio, una
casata, un titolo o contro l’invasore. Spagnoli contro spagnoli, sullo
sfondo di un conflitto che mobilitò la popolazione europea nel suo
insieme. In questa mobilitazione continentale gli italiani ebbero un
ruolo protagonista.
Secondo le parole di Teresa Noce, riportate nella
sua autobiografia rieditata proprio quest’anno da RedStarPress, «prima
che il Partito comunista francese e di conseguenza quello italiano
avessero preso una decisione ufficiale, i nostri compagni cominciarono a
partire con qualsiasi mezzo in auto, in treno o in camion, da Parigi,
da Tolosa, da altre città del Belgio, della Francia o da altri paesi».
Più di 4000 italiani affollarono le Brigate internazionali guidate da
Luigi Longo e André Marty.
Nel frattempo, il disciolto esercito della
Repubblica venne ricostituito su basi democratiche da Vittorio Vidali,
in Spagna conosciuto come Carlos Contreras, vero e proprio «unificatore»
delle diverse milizie popolari nel nuovo Esercito popolare. 13mila
furono i morti stranieri in difesa della Repubblica; 25mila il totale
degli stranieri uccisi in Spagna nei tre anni di guerra civile. 13mila
volontari che combattevano in Spagna una guerra europea, la prima vera
battaglia contro il fascismo internazionale, come immediatamente
riconosciuto da tutti i protagonisti. Senza la Guerra civile spagnola
difficilmente si sarebbe prodotta la Resistenza in Italia nelle forme
che questa effettivamente assunse.
Il conflitto spagnolo servì come
palestra per una generazione di antifascisti abituati alla clandestinità
e al lavoro illegale. Un contesto in cui i massimi dirigenti comunisti,
a partire proprio da Togliatti, compresero la particolare natura
politica del fronte antifascista, la necessità di smussarne gli
estremismi e gli avventurismi, il carattere sociale che andava assumendo
lo scontro che non poteva essere vinto forzando le appartenenze
politiche. Il consenso che le forze della reazione avevano in Spagna
come in Italia era stato fino a quel momento sottovalutato: una lezione
che favorì il cambio di mentalità dei dirigenti italiani nella
comprensione del nemico.
Secondo le parole di Giuliano Pajetta nella
sua riflessione sul ruolo italiano in Spagna, «se vogliamo tentare di
riassumere le grandi lezioni politiche ricavate dalla Guerra di Spagna
potremmo dunque enunciarle così: il problema delle alleanze della classe
operaia con altre classi interessate a una guerra di indipendenza
nazionale; la strategia e la tattica dei comunisti per estendere e
consolidare le alleanze politiche (…); la lotta di principio e pratica
del Partito comunista contro le posizioni estremistiche (…); la
trasformazione del Partito comunista in grande partito di massa,
popolare e nazionale». Una serie di indicazioni che costituiranno la
base della «svolta di Salerno» del 1944, e che renderanno il Pci,
esattamente come il suo omologo spagnolo, perno politico del fronte
antifascista. Una direzione che, peraltro, verrà resa strutturale nel
secondo dopoguerra.
Ci sono allora molte ragioni per ricordare questo
anniversario decisivo anche per la nostra storia nazionale, oltre che
continentale. Liberare la storiografia dalle ritrosie politiche del
passato è uno dei passaggi necessari. Ancora oggi in Spagna vige il
tacito accordo di porre le ragioni e i torti dei contendenti su uno
stesso piano sostanziale (la sollevazione nazionalista come effetto di
una Repubblica in via di «sovietizzazione»): un fenomeno sconosciuto al
racconto, ad esempio, della Resistenza italiana, dove il rigore
storiografico non venne tradotto in equivalenza tra le parti
contrapposte. Questo ottantesimo potrebbe in tal senso recuperare una
prospettiva analitica che, senza concedere nulla all’agiografia
interessata, abbia il coraggio di indicare le responsabilità storiche.
La Guerra di Spagna ci ricorda anche il nostro passato colonialista. In
tal senso, potrebbe consentire anche alla cultura italiana una resa dei
conti con il nostro armadio della vergogna.