mercoledì 13 luglio 2016

il manifesto 13.7.16
I tre boomerang pronti a colpire Renzi
di Franco Monaco
deputato Pd

Sono sempre stato critico con il corso renziano, ma mi infastidisce assai il soprassalto critico della legione di opportunisti che, saliti sul suo carro, ora si smarcano da lui o  si riposizionano traguardando al dopo di lui. Una folta comitiva sulla cui affidabilità ora sembra interrogarsi lo stesso Renzi. Pensano di cavarsela così, come se non vi fosse un principio di responsabilità. Chi ha sposato l’arrembante renzismo deve caricarsi la sua logica interna e le conseguenze: chi sbaglia paga e   passa  la mano.
Il renzismo è fenomeno complesso. Difficile ma utile provare a fissare una chiave di lettura sintetica di esso. Una cifra critica, dal mio punto di vista. Quella dello sguardo corto, del deficit di visione. Solo qualche esempio.
Cominciamo dalla rottamazione. Necessaria a fronte di una classe dirigente oggettivamente estenuata e di una dirompente domanda di cambiamento. Ma che, dopo un paio d’anni, assurto egli ai vertici di un potere esercitato con ostentata baldanza e concentrato come non mai, ne fa il bersaglio privilegiato di quell’onda travolgente. Una brutta bestia difficile da domare, quella dell’antipolitica e del populismo (compreso quello di governo). Un boomerang nel medio periodo. Siamo quasi alla montante voglia di rottamare il rottamatore.
Stesso limite (lo sguardo corto) nella riforma costituzionale. Doppio limite: di merito e di comunicazione. Di merito: una riforma ispirata a una centratura del sistema istituzionale su premier e governo. Quasi la razionalizzazione/istituzionalizzazione della esperienza renziana. Da sindaco e da premier. Più che un ridisegno organico ed equilibrato dell’architettura costituzionale. Di comunicazione: la personalizzazione/drammatizzazione del referendum costituzionale quale ordalia, giudizio di dio, dalla quale solo ora, tardivamente e goffamente, Renzi e Boschi sembrano recedere, nasce al tempo nel quale Renzi godeva di un largo consenso, nell’establishment (da Marchionne a De Benedetti, ora decisamente più tiepido) e nell’opinione pubblica. Un consenso che, per di più, per istinto, egli inclina a sopravvalutare. Ora non è più così. Semmai il contrario: la personalizzazione aggrega e rafforza il fronte antagonista del no. Con un po’ di umiltà e lungimiranza lo si poteva prevedere. D’improvviso si invoca di attenersi al merito della riforma. Alla buon ora. Salvo declinare le riforme in modo francamente demagogico, intellettualmente umiliante: le indennità, la casta, il Cnel. Come se fossero questi gli argomenti che autorizzerebbero la riscrittura di cinquanta articoli della Costituzione. Del resto, come si può tenere fuori dalla contesa il governo, dopo che l’intera riforma costituzionale è stata scritta, proposta, gestita, votata dalla sola maggioranza di governo? Che è il suo più grande limite, il suo vizio di origine e di metodo, che ne fa una riforma divisiva. Un prezzo troppo alto, quello della spaccatura del paese, per una grande riforma del patto costituzionale, che per definizione dovrebbe unire.
Ancora: l’Italicum. Palesemente concepito in un quadro bipolare alle nostre spalle e sul presupposto (di nuovo miope e illusorio) della stabilizzazione del 41 per cento del Pd delle europee. Preistoria. Di nuovo (dopo Veltroni) la fallace presunzione di autosufficienza. Tanto che ora si manifestano mezze aperture, ammiccamenti, divisioni dentro la stessa maggioranza Pd circa l’Italicum, ma si esita a confessare più semplicemente che si erano sbagliati i conti, che ci si era montati la testa. Ora che si fa strada la concreta possibilità di consegnare il governo ai 5 stelle. Una «macchina da ballottaggi» capace di raccogliere consensi da ogni dove, in un certo senso il vero «partito della nazione».
Ancora, la questione morale. Come non ricordare il Renzi risoluto e persino giacobino nel chiedere la testa della ministra Severino e dello stesso Alfano – che ora invece è costretto a difendere per un mero problema di numeri al Senato – quando si trattava  di logorare il governo Letta? Anche qui: un di più di strumentalità e di occasionalismo, un miope calcolo della congiunturale convenienza, anziché una matura visione di un codice d’onore per chi fa politica.
Non sarebbe difficile mostrare lo sguardo corto anche nel decisivo campo della politica economica. A cominciare dalla trovata degli 80 euro alla vigilia delle europee. 10 miliardi che potevano essere spesi meglio ai fini della crescita e dell’occupazione, ma certo decisivi sotto il profilo elettorale. Per tacere dell’abolizione indiscriminata dell’Imu sulla prima casa, al modo di Berlusconi.
Deficit di visione, dunque, cui ha contribuito un vistoso difetto di qualità del gruppo dirigente. Francamente improvvisato, reclutato su base di fedeltà localistica (troppo potere in pochi chilometri, si è osservato). Un’allegra comitiva nella quale si fatica a rinvenire qualcuno che sappia aiutare Renzi a correggere i suoi errori. Finalmente lo si può dire senza incappare nell’accusa di passatismo ostile a giovani e donne: un gruppo dirigente incomparabilmente al di sotto della squadra di governo dell’Ulivo. Quella dei Prodi, Ciampi, Andreatta, Napolitano, Elia, Flick, Padoa Schioppa, Amato, Parisi, Bersani, Treu …Tutti inscritti sotto la voce «governi dormienti» secondo la sbrigativa e presuntuosa narrazione renziana.
Renzi comincia a pagare i suoi errori e la sua presunzione. Ma a lui, combattente, va il mio rispetto. Provo meno simpatia per politici e opinionisti che, acriticamente e talvolta con servilismo, gli hanno fatto da supporter e ora si accingono a mollarlo.