il manifesto 13.7.16
Affari e abbandono, dai tempi dei Piemontesi
Un
paese coloniale. Ancora oggi, un secolo e mezzo dopo, manca il
collegamento fra le due più grandi città del Mezzogiorno continentale,
con enormi danni economici, perdite di tempo: provate a immaginare se
non ci fosse linea diretta fra Milano e Torino
di Pino Aprile
La
notizia non è il disastro ferroviario; è che nonostante il Sud sia
condannato ad avere ancora lunghi tratti a binario unico e non
elettrificati e convogli dismessi dal Nord (non è il caso di quelli
coinvolti nella tragedia di ieri), non ci siano più incidenti e più
morti da piangere.
Quei passeggeri sono stati uccisi dalle scelte
politiche ed economiche che hanno voluto il Paese diviso in due, fra chi
ha molto a spese di tutti, e chi manca del minimo e persino di tutto.
Le ferrovie sono una traduzione perfetta del modo in cui si è concepito,
costruito e mantenuto un “Paese duale” (Pasquale Saraceno,
meridionalista nato a Sondrio).
La pochezza della rete ferroviaria
del Sud, rispetto a Piemonte e Lombardia, fu usata come argomento per
giustificare invasione e annessione del Regno delle Due Sicilie, da
parte dei Savoia. Come dire: unire l’Italia, per renderla
ferroviariamente alla pari (cosa che non dispiacerebbe ancora oggi; pur
trascurando la disonestà del confronto, visto che il Regno napoletano
era tutto sul mare, salvo un istmo di 190 chilometri e aveva puntato su
trasporti marittimi, mentre le due regioni alpine avevano qualche
obiettiva difficoltà a fare la stessa scelta). E sempre la ferrovia
viene usata come paradigma dell’arretratezza del Regno delle Due
Sicilie, che pure fu il primo Stato in Italia, a dotarsi di una linea
ferroviaria, Napoli-Portici; ed aveva, a Pietrarsa, la più grande
officina meccanica del tempo, tant’è che quando il Piemonte fece la sua
ferrovia, comprò a Napoli la locomotiva.
Al momento dell’Unità
d’Italia, delle 75 costruite da italiani, che trainavano convogli nella
Penisola, 60 le avevano fatte i meridionali e 15 tutti gli altri messi
insieme. Ma nelle nostre università si insegna che la Napoli-Portici era
un giocattolo del re, serviva per portarlo al mare (da documenti
visibili a tutti, nell’Archivio di Napoli, si apprende che in pochi anni
viaggiarono circa 15 milioni di persone su quel treno; non si specifica
se fossero tutti bagnini del re…).
Al posto del tricolore,
potremmo avere i binari, sulla bandiera. Nel Sud conquistato si
avventarono banchieri, affaristi. Alcune tratte ferroviarie erano già
pronte e altre appaltate dai Borbone. La Napoli-Bari venne sottratta a
chi doveva farla e riappaltata ai banchieri Adami e Lemmi, cugini e
massoni. L’impresa finì in un mare di scandali, mazzette e manco un
metro di ferrovia (per capire di cosa parliamo: a Garibaldi imperante e
prima dell’arrivo dei piemontesi, si presentò Lemmi, con lettera di
raccomandazione di Giuseppe Mazzini che garantiva per l’onestà del
latore, perché «ove altri farebbe suo pro…, questi intende costituire le
casse del partito»: l’Italia non era ancora nata, il metodo, sì).
Ancora
oggi, un secolo e mezzo dopo, manca il collegamento fra le due più
grandi città del Mezzogiorno continentale, con enormi danni economici,
perdite di tempo: provate a immaginare se non ci fosse linea diretta fra
Milano e Torino.
Se la pochezza ferroviaria, per stare ai
principi risorgimentali, dà diritto d’invasione, oggi il Mezzogiorno
d’Italia può essere legittimamente occupato da chiunque.
Nel Paese
“unito”, puoi percorrere 700 e rotti chilometri in due ore e mezza e
trovi un treno ogni venti minuti o poco più; oppure fare circa 300
chilometri, con l’unico convoglio della giornata: parti alle quattro del
mattino e dopo una mezza dozzina di cambi (vado a memoria: sono di
più?), arrivi a destinazione alle 18,30; oppure, nel 2016, quando si
parla di trasporto molecolare, puoi metterti in fila con gli altri che
aspettano da 155 anni il treno per città non ancora raggiunte dalle
Ferrovie dello Stato. La prima esperienza la fai sulla tratta
Milano-Roma; la seconda in Sicilia; la terza in Basilicata (anzi: non la
fai), a Matera.
Un Paese non coloniale investirebbe per colmare
di divario. Invece si sono buttati 1800 milioni di euro per il Freccia
Mille, chiamato Mennea, La Freccia del Sud (e che a Sud non arriverà
mai), per risparmiare 15-20 minuti; ma sulla carta: di fatto non è così.
Sulle linee del Mezzogiorno i treni dismessi dal Nord vanno talvolta
alla velocità dei regionali, ma costano anche 7-8 volte di più; per
andare da Roma in Puglia, un bacino di 10 milioni di utenti, può non
bastare cercare un posto tre giorni prima e ci sono solo tre convogli
decenti.
La legge che ha regionalizzato i trasporti locali, ha
sancito l’apartheid ferroviaria: solo Regioni del Nord o del Centro
possono permettersi di spendere per le tratte interne. Al Sud, alcune
compagnie possono offrire l’ebbrezza di 19-20 chilometri all’ora, sui
binari a scartamento ridotto che l’Italia pose nelle colonie africane.
Il governo attuale: appena insediato, stanziò 4560 milioni di euro per
le ferrovie; 4500 da Firenze in su e 60 da Firenze in giù. Con l’alta
velocità che da noi costa 6-7 volte a chilometro, rispetto a Francia,
Spagna.
Questa è l’immagine dell’Italia, anche in altri campi. Con
il decreto Carrozza (governo Letta), per dire, mostra Gianfranco Viesti
in “Università in declino”, in pochi anni le università del Sud
chiuderanno. E anche qualcuna del Nord. Ma avremo il Centro Human
Technopole a Milano, a 150milioni all’anno. Mentre, da sei anni non si
riesce a far ritirare dal ministero dell’Istruzione, le «indicazioni per
il curricolo» emanate dall’allora ministra Gelmini, con cui,
dall’insegnamento della letteratura sono stati esclusi poeti e scrittori
meridionali, pur se premi Nobel come Quasimodo e Deledda.
I morti
di Andria sono vittime di una guerra razzista contro i meridionali.
L’abbandono ferroviario è solo uno dei modi in cui si manifesta. Se vi
sembra eccessivo, prendete il treno per Matera, o per Trapani, o per
Crotone. E dio vi accompagni.