il manifesto 10.7.16
Come pilotare la città? Innanzitutto liberandosi della stasis
Classici. Esiste una scienza o una tecnica per gestire l’amministrazione della polis ed evitare la guerra civile?
Un saggio sulla «politica» greca di Giuseppe Cambiano, «Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele»
di Francesca Piazza
La
città è una nave che, per affrontare le insidie del mare, ha bisogno di
piloti esperti: è la metafora sottesa al titolo del bel libro di
Giuseppe Cambiano sul governo della città in Platone e Aristotele Come
nave in tempesta, (Laterza, «Storia e Società», pp. 270, euro 24,00).
Una metafora tradizionale nella cultura greca e ancora oggi
silenziosamente depositata nei nostri termini «governo» e «governare»
che, nel greco antico (kybernein), appartenevano al lessico marinaro.
Come accade alle buone metafore, è un’immagine che costruisce un quadro
concettuale entro cui pensare e farsi domande: che qualità deve
possedere il pilota/governante «esperto»? Esiste una «scienza» o una
«tecnica» del pilotare/governare? Come gestire i conflitti, esterni e
interni, alla nave/città?
Emergono intorno a queste domande
questioni cruciali della riflessione politica antica e moderna, che
Cambiano mette a fuoco attraverso l’analisi delle posizioni di Platone e
Aristotele senza appiattirle sull’attualità ma sempre inserendole nel
loro specifico contesto. La questione centrale – tornata prepotentemente
alla ribalta in questi giorni del dopo Brexit – riguarda il rapporto
tra competenza ed esercizio del potere. Una questione difficile che
Cambiano affronta a partire da un aspetto apparentemente secondario,
quello della rotazione delle cariche, tipico della «democrazia» ateniese
(nella quale, non va dimenticato, la partecipazione effettiva era
riservata ai cittadini, liberi, maschi, adulti).
Il meccanismo
della rotazione, intrecciato con quello del sorteggio, mirava a impedire
la concentrazione del potere nelle mani di singoli o gruppi ostacolando
così la riduzione della politica ad attività specializzata. Sia Platone
sia Aristotele accettano nella sostanza questo principio declinandolo
però in forme diverse, coerenti con la loro prospettiva generale. Nella
città ideale di Platone, la rotazione riguarderà soltanto la classe dei
governanti/filosofi e servirà, più che a impedire concentrazioni di
potere, a «mitigare la costrizione a governare» cui sono soggetti i
filosofi, consentendo loro di tornare a svolgere l’attività di ricerca
del sapere. La celebre tesi platonica dei filosofi al potere, infatti,
non va intesa in senso tecnocratico: i filosofi non sono (e non devono
essere) politici di professione e anzi saranno governanti migliori
proprio perché non desiderano governare. È invece nel Politico che
Platone delinea il concetto di scienza (episteme) specificamente
politica il cui possesso (che nella linea socratico-platonica implica
anche possesso di virtù) legittima un esercizio del potere anche
indipendentemente dal consenso dei governati. Proprio questo è il punto
di massima divergenza tra Platone e Aristotele. La posizione platonica,
secondo Aristotele, sarebbe accettabile solo a patto di annullare la
differenza tra la sfera dell’oikos (casa) – dove resta ammissibile il
dominio permanente di uno solo su figli, donne e schiavi (equiparati a
possessi materiali) – e la sfera della polis composta invece da
individui in linea di principio simili tra loro (homoioi) e liberi.
La
rotazione delle cariche consente allora di mantenere l’equilibrio tra
governare ed essere governati, ruoli che un buon cittadino deve sapere
alternativamente ricoprire, perché entrambi necessari al buon
funzionamento della polis. È anche vero, però, che Aristotele stesso
prevede l’opportunità di correttivi (per lo più su base censitaria) che
regolino il meccanismo della rotazione e limitino (o evitino del tutto)
il ricorso al sorteggio. Riemerge così, anche nell’orizzonte di una
comunità di simili, la questione del rapporto tra competenza, virtù ed
esercizio del potere.
Per Aristotele, la qualità specifica del
buon governante non è il possesso di una presunta scienza (episteme)
politica ma la difficile virtù della phronesis, consistente
essenzialmente nella capacità di valutare (e deliberare) caso per caso
con una particolare sensibilità per le circostanze. Il discrimine tra
Platone e Aristotele sta dunque – Cambiano non lo esplicita ma è utile
farlo – nel fatto che per Aristotele il dominio delle scelte politiche
rientra a pieno a titolo nell’ambito di ciò che può essere diversamente
da com’è rispetto al quale non può darsi una scienza in senso stretto. È
il dominio di ciò che è intrinsecamente discutibile nel quale
divergenze e conflitti sono inevitabili e non risolvibili con il
semplice ricorso alle «competenze».
A ben guardare, la vera posta
in gioco è proprio la questione del conflitto o, meglio, il bisogno di
evitare il conflitto interno alla città (la «guerra civile») che i greci
chiamavano stasis, qualcosa di molto diverso dal polemos, che era
invece la guerra contro i nemici «esterni», i «barbari» innanzitutto.
Mentre la stasis era percepita come il pericolo peggiore per una polis
(per Platone una vera e propria malattia che sovverte l’ordine naturale)
da evitare a tutti i costi, il polemos, per quanto deprecabile, era
invece in generale ritenuto come un male inevitabile e per certi aspetti
addirittura «naturale», il che però non significa automaticamente
«giusto». Il compito principale del bravo pilota di questa nave in
tempesta è dunque quello di impedire (o almeno ridurre al minimo) la
stasis – questa terribile malattia della polis – garantendo homonoia
(concordia) e philia (amicizia) tra i cittadini. Di nuovo su questo
punto però le posizioni di Platone e Aristotele divergono: mentre per il
primo l’unico antidoto ai conflitti interni è la piena condivisione
delle emozioni e l’eliminazione della sfera del privato (fonte primaria
del conflitto stesso), per Aristotele, invece, la comunanza di affetti e
di beni rappresenta anzi un ostacolo alla realizzazione dei legami di
amicizia. Ai suoi occhi, il Socrate della Repubblica commette l’errore
di voler «trasformare una symphonia in una homophonia, un insieme
coordinato e armonico di suoni in un solo identico suono».
Vera
homonoia per Aristotele non è, infatti, l’identità delle opinioni ma una
convergenza di interessi e desideri che può essere solo in parte
raggiunta grazie all’educazione (paideia) ma mai pienamente realizzabile
perché «infinita è la natura del desiderio».
In questo quadro,
Cambiano affronta anche un altro aspetto spinoso del pensiero politico
antico, quello della schiavitù, ricostruendo con equilibrio e acutezza
argomentativa il dibattito tra Aristotele e gli «oppositori anonimi»
della schiavitù, un dibattito che si intreccia con quello, non meno
complesso, del rapporto tra nomos (legge), physis (natura) e giustizia.
La principale difficoltà che Aristotele incontra nella sua
giustificazione della schiavitù riguarda il corpo dello schiavo, in
tutto e per tutto identico a quello del libero. Questa identità mette in
crisi l’idea di una differenza naturale tra liberi e schiavi e fa
venire alla luce tutta la difficoltà della stessa nozione di legge
naturale.
Al di là delle singole interpretazioni (che riguardano
anche altri temi, come il rapporto tra catastrofi naturali e storia
umana o il ruolo dell’alimentazione) il libro è interessante
innanzitutto perché non ci consegna una visione idilliaca o romantica
del pensiero politico greco ma ne fa emergere difficoltà e
contraddizioni, che non sono poi così lontane dalle nostre stesse
difficoltà e contraddizioni. A completare questo quadro avrebbe forse
potuto contribuire anche una maggiore attenzione al ruolo della retorica
nella conduzione di questa nave in tempesta, non fosse altro perché è
proprio la retorica, agli occhi di un greco di quell’epoca, l’arte più
vicina a quella del governare le navi.