il manifesto 10.7.16
Derrida
Piangere, un modo per mettere un velo tra noi e l’avvenire
Un
cambiamento di rotta nella concezione del visibile maturata dal filosfo
francese: ora è l’imminenza e non più soltanto una presenza, che si
cerca di determinare
Saggi e conferenze in "Pensare al non vedere"
di Maurizio Ferraris
Oltre
all’interminabile riflessione sulla scrittura (che è anzitiutto
qualcosa che si vede), Derrida ha scritto tre libri sul visibile come
immagine, dipinto, fotografia, e tutte e tre le volte per circostanze
accidentali. Le riflessioni sui pittori (ma anche la critica
dell’Origine dell’opera d’arte di Heidegger) raccolte in La verità in
pittura (1978); quelle sull’autoritratto e la cecità proposte in Memorie
di cieco (1990), che rispondeva a una committenza del Louvre; e, per
l’appunto, la raccolta (postuma e non programmata) Pensare al non
vedere, uscito in Francia nel 2013 a cura di Ginette Michaud, Joana Masó
e Javier Bassas e ora tradotto e introdotto in italiano da Alfonso
Cariolato (Jaca Book, pp. 395, euro 30,000).
Nel sottotitolo si
precisa che gli scritti sono del periodo 1979-2004 (anno della morte di
Derrida), ma in effetti la maggior parte dei contributi risalgono agli
ultimi e frenetici anni della sua vita, quando Derrida moltiplicava le
tracce, le memorie, le testimonianze di sé, in interviste, trascrizioni
di conferenze, testi disparati. Molto disparati, in effetti, e Derrida
si esercita ammirevolmente, anche se non è sempre facile, nell’evitare
la ripetizione o il cliché, ad esempio in interviste che gli pongono
delle domande enormi, o ingenue, o entrambe le cose.
Per
difendersi da richieste monumentali, per non cedere a una ingenuità che è
anche sua («Qualcuno mi ha riferito che recentemente ha avuto luogo un
dibattito implicante la decostruzione nell’esercito o nella marina»,
leggiamo in una delle interviste), Derrida mette le mani avanti, ritorna
sempre sul tema della sua incompetenza, consapevole del fatto che, se
si chiede il suo parere sull’universo mondo, i casi sono due: o gli si
attribuisce un sapere assoluto, che lui si affretta a smentire, o – più
probabilmente – lo si interpella per la sua notorietà e disponibilità. E
lui si presta, perché sa che ne va della sua sopravvivenza, cioè di una
questione di vita o di morte e, soprattutto (come aveva sostenuto in
tanti scritti), di vita post-mortem, di ciò che resterà di lui e del suo
pensiero.
Mettere le mani avanti, infatti, non è solo una
protezione rispetto al proprio non-sapere, ma è anzitutto una protezione
rispetto all’invisibile, a una minaccia che incombe, come il cieco che
avanza a tastoni. In Pensare al non vedere, la trascrizione di una
conferenza del 1° luglio 2001 che dà il titolo alla raccolta, Derrida
parla di un cambiamento di rotta nella sua concezione del visibile, che
possiamo datare pressappoco con i temi di Memorie di cieco. Prima di
allora, e tipicamente in La verità in pittura, vedere e pensare erano
due filosofemi metafisici che entravano in gioco nella decostruzione:
l’eidos, che presuppone una visibilità e una trasparenza del mondo, che
attesta la presenza delle cose di fronte a noi; e il logos, che indica
la prossimità della coscienza con se stessa. La decostruzione consiste
nel mostrare che l’eidos abita nel logos, come testimonia la scrittura,
ma è un visibile che si manifesta come traccia, cioè come non presenza a
se stesso. Non c’è presenza, c’è sempre e solo differimento, rinvio, in
una vita che si proietta anticipando il proprio sopravvivere.
Ma
fino a quando si differisce? Perché, in effetti, c’è un indifferibile
che a un certo punto entra nella vita, prende posto e non se ne va più.
Il gioco della differenza, del proiettarsi in avanti, si incrocia con un
movimento inverso: c’è qualcosa che si fa avanti, che ci viene
incontro, che – come sottolinea Derrida in quello che probabilmente è il
concetto fondamentale tanto di questa conferenza quanto della sua
ultima riflessione sul vedere – vediamo venire. Adesso il vedere non
designa solo una presenza, che si cerca di determinare teoricamente (il
theorein è appunto una visione), bensì una imminenza, come per l’appunto
quando si vede venire qualcosa, o lo si intuisce attraverso segni e
premonizioni, con un atteggiamento che prima di essere teorico è
pratico, e concerne un fare (per esempio, schivare un pericolo).
Sebbene
Derrida dia più di un volto a questo «veder venire» (la protenzione
nella tradizione fenomenologica, il messianismo, la riflessione
heideggeriana sull’evento), il suo significato più ovvio è la morte. Già
in un breve testo della fine degli anni ottanta, Che cos’è la poesia?,
Derrida aveva rappresentato la situazione di questo essere per la morte,
attraverso la figura di un animale (cioè del prototipo del vivente, che
prenderà una importanza sempre più grande nella sua filosofia): un
istrice che di notte attraversa un’autostrada, è accecato dai fari di
un’auto, per difendersi si chiude a riccio, e così si perde. Non
sappiamo se gli animali non piangano, osserva giustamente Derrida in
Pensare al non vedere, ma sicuramente gli umani non sono capaci di
chiudersi a riccio, e per loro – è il concetto fondamentale di Memorie
di cieco – il pathos dell’ineluttabile è manifestato da quella seconda
funzione dell’occhio che spesso filosofi e non filosofi non prendono in
considerazione: il pianto.
Piangere è uno dei tanti modi di
mettere un velo tra noi e quello che vediamo venire. Un altro è – come
propone in modo neo-stoico Hegel – «tenere fermo il mortuum, conservare
lo sguardo fisso», come di fatto avvenne a Derrida verso la fine degli
anni ottanta, non per una decisione neo-stoica ma per una infezione
virale a un occhio che per giorni gli impedì di chiuderlo, e a cui fa
riferimento in vari testi, in questa raccolta e altrove.
Tra il
piangere come un bambino e il tenere gli occhi aperti come un filosofo o
come un malato, resta l’esperienza traumatica del veder venire.
Prendiamo
un testo non compreso in questa raccolta Il sogno di Benjamin, il
discorso pronunciato a Francoforte nel settembre del 2002, cioè poche
settimane dopo il discorso di Orta. «Un giorno del settembre 1970 –
leggiamo – vedendo venire la morte, mio padre ammalato mi confidò “sono
fottuto”». Dove il padre (e il figlio che si rispecchia in lui) vede
venire l’indifferibile. È una scena classica, la stessa che troviamo nel
discorso di Harry, lo scrittore fallito di Hemingway in Le nevi del
Kilimangiaro: «Non credere a quella storia del teschio e della falce –
dice alla moglie – Possono essere, altrettanto facilmente, due
poliziotti in biciletta, o un uccello. O può avere il grugno grosso,
come quello di una iena». E Hemingway prosegue: «Adesso si era
avvicinata, ma non aveva più forma. Occupava solo spazio».
Ecco
come si realizza l’apparente paradosso del vedere l’invisibile, e del
vederlo venire, come nella ballata di Goethe messa in musica da
Schubert, Il re degli Elfi, quando il bambino morente mormora al padre:
«lo vedi anche tu il re degli Elfi?», e non si sa se veda più o meno del
padre. La vedi anche tu la terra promessa, cioè (come nel caso di Mosè)
la terra che altri vedranno quando non ci sarai più? Nel testo
conclusivo di questa raccolta, uscito nel 2004 «Il sopravvissuto, la
sospensione, il soprassalto», Derrida ricorda che i nemici lo
definiscono un sopravvissuto di una generazione che non è, propriamente,
nemmeno la sua, quella dei Deleuze, dei Foucault, dei Lyotard, tutti un
po’ più anziani di lui, e lui stesso ha l’impressione che non sarà più
letto, che tutta la piramide di testi che ha costruito non gli garantirà
alcuna sopravvivenza.
Eppure – proprio grazie all’incertezza del
veder venire l’avvenire – «certi segni mi lasciano credere – e nello
stesso momento – che ho appena incominciato a scrivere e che, salvo rare
eccezioni, si è appena cominciato a leggermi – o che per me, come
diceva il mio amico Althusser, l’avvenire dura a lungo».
«Ho
appena incominciato a scrivere». Era quello che Husserl scriveva, in
punto di morte, a Edith Stein, e che Derrida aveva citato alla fine del
suo primo scritto, mezzo secolo prima di morire, Il problema della
genesi nella filosofia di Husserl: «Non sapevo che fosse così duro
morire. Eppure mi sono talmente sforzato, lungo tutta la mia vita, di
eliminare ogni futilità! (…) Proprio ora che arrivo al termine e che
tutto è finito per me, so che devo riprendere tutto dall’inizio». Già
allora, citando Husserl, Derrida metteva le mani avanti, e prefigurava
una incombenza che ha costituito il tema centrale del suo pensiero:
penser à ne pas voir, cioè sia pensare all’invisibile, a ciò che non c’è
ancora o che non c’è più, sia pensare al punto da non vedere, come fa
la metafisica, che rimuove la morte con un parossismo che ricorda
l’istrice appallottolato sull’autostrada.
La conferenza «Pensare
al non vedere» Derrida l’aveva pronunciata nel quadro di un convegno,
«Vedere e Pensare», che inaugurava le attività della Fondazione del
disegno voluta dal suo carissimo amico Valerio Adami. Nella fattispecie,
era un controcanto, un divertissement, dice lui, rispetto alla mia
conferenza «così seria» (scrive con ironia) intitolata «L’occhio ragiona
a modo suo», in cui articolavo il tema della irriducibilità del vedere
al pensare. Nel farlo, mi sentivo molto distante da Derrida: parlavo di
percezione, qualcosa apparentemente estraneo a un filosofo che, come
tutta la sua generazione, aveva pensato alla metafisica, alla politca,
al linguaggio. Ripensandoci ora, mi rendo conto che quella sua risposta
improvvisata (letteralmente: fatta a braccio partendo dalle scarne note
prese sulla prima pagina della stampata del mio powerpoint – quella che
si vede riprodotta in questa pagina), parlando dell’esperienza del veder
venire l’inemendabile per eccellenza, faceva i conti molto più di me
con l’impotenza del sapere rispetto all’essere, dell’epistemologia
rispetto alla ontologia.