Corriere La Lettura10.7.16
In amore ascoltate Spinoza per evitare il rischio Bovary
Un
legame gioioso e maturo non è una passione esclusiva: esige una presa
di distanza per comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro
di Ilaria Gaspari
Se
Madame Bovary avesse letto Madame Bovary , ha scritto Flaiano, avrebbe
probabilmente frenato le sue fantasticherie di «pornografia
sentimentale». Un effetto dissuasivo ancora più forte l’avrebbe
ottenuto, credo, con un paio di proposizioni dell’ Etica di Spinoza.
La
povera Emma modellò la sua infelicità sulle molte possibilità narrative
degli amori tormentati. Sognando di balli, duelli, eroine esangui nel
gorgo della passione, imbrigliò l’amore nella fantasticheria di una
forza che trascina alla rovina. L’amore fa soffrire , doveva sospirare
fra sé l’infelice signora Bovary, boccheggiante di noia, con la testa
piena di romanzi d’appendice e un marito prosaico che nel frattempo
sorbiva rumorosamente la soupe à l’oignon . A furia di sospirarlo, ci
credette; pur di vivere quell’avventura romantica che si era imbastita
non fece caso allo squallore della scappatella con Rodolphe. E finì
avvelenata.
E pensare che l’antidoto a questo veleno si poteva
trovare facilmente, distillando un po’ dell’ Etica di Spinoza; non un
romanzo (qualcuno ha detto che non esistono romanzi sugli amori felici),
e nemmeno un libretto di istruzioni o un decalogo che insegni a
sfuggire alle relazioni fallimentari. Ma un libro per lettori
coraggiosi; un libro petroso che, se lo si ascolta bene, può curare
molti dei mali che nascono quando si vive prigionieri del luogo comune
secondo il quale l’amore deve far soffrire.
Di Spinoza non si
ricordano grandi amori. Le lettere raccolte dagli amici con cui coltivò
una lunga corrispondenza dal suo esilio di reietto dopo lo herem , il
decreto che lo «scomunicò», sono scritti dottrinali, con qualche
fortuito scorcio sulla sua vita nascosta — troppo poco, però, per
poterne ricostruire le vicende. Tutte le biografie ce lo consegnano come
una sorta di santo eretico, un saggio stoico capace di condurre una
vita esemplare, sobria e morigerata. Strana figura, quella di Spinoza,
l’ateo virtuoso che sarà riesumato, ancora avvolto nel suo odore di
santità, da un gruppo di giovanotti inquieti nella Germania di fine
Settecento. Ma Spinoza dell’amore ha detto una cosa fondamentale: che
amare non significa possedere l’altro, ma vederlo così com’è,
comprendere che esiste al di fuori di noi; e quindi che l’amore vero non
fa soffrire, ma anzi, è pura gioia.
L’ Etica parla molto di
amore, ne costruisce una vera fenomenologia. L’amore è per Spinoza il
motore di quella comprensione del mondo che, sola, permette all’uomo di
rendersi veramente libero. L’amore gioioso di cui parla Spinoza è tutto
il contrario di una passione esclusiva che procede per slanci di
insicurezza e narcisismo, che segrega e fa soffrire; l’amore di cui
parla Spinoza è la strada per uscire da se stessi e addentrarsi nel
mondo.
Spinoza è stato forse il primo filosofo a costruire
un’etica che sapesse farsi beffe della morale come scienza che
addomestica il corpo a una teoria di valori astratti; ha sovvertito i
termini dell’antica opposizione monolitica fra passione e ragione.
L’amore non è necessariamente una passione , nel senso di qualcosa che
si subisce, dice Spinoza, che inventa il concetto nuovo di affetto , e
trasfigura così la nozione classica di passione aprendole la possibilità
di trasformarsi in un atto di conoscenza. Se la passione ci getta in
balia di quello che proviamo, l’affetto è un mezzo per capire e
conoscere il mondo anche attraverso le emozioni che suscita in noi. Come
i colori nascono da combinazioni di giallo, rosso e blu, anche la
tavolozza degli affetti è fatta di tre affetti primari: il desiderio —
una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza —, la gioia e la
tristezza. Se la tristezza è un negarsi al mondo, la gioia è uno slancio
verso un legame più intenso con la realtà — per Spinoza, che usa una
parola della Scolastica, perfezione .
Spinoza racconta un amore
che è una pura espressione della gioia: una gioia particolare però,
innescata dalla presenza di una causa esterna — l’oggetto dell’amore.
L’amore, essendo gioia, ci rende più attivi, più «perfetti», più immersi
nella realtà; ma non è possibile se non alla presenza di un altro, che
coincide con lo scatenarsi di questa gioia. Simone Weil è stata
perfettamente spinoziana quando ha scritto che l’amore ha bisogno di
realtà; e che amare è riconoscere l’esistenza di altri esseri umani.
Qui
inciampò la povera Madame Bovary: trincerandosi in un amore asfittico,
non fece troppo caso alla causa esterna se non come a una proiezione
delle sue fantasticherie scopiazzate dai romanzi, e non seppe allarmarsi
quando quella gran passione, invece di renderla più attiva e più viva,
la paralizzò, impedendole anche di indovinare quello che poteva passare
per la testa di Rodolphe. Chi non riconosce l’esistenza dell’altro,
infatti, è incapace anche di quell’esercizio di empatia che rende
l’amore uno strumento di conoscenza dell’altro, ma anche di sé.
«Chi
immagina che ciò che ama sia affetto da Gioia o Tristezza, sarà
anch’egli affetto da Gioia o Tristezza», dice la proposizione 21 della
terza parte dell’ Etica : l’amore induce un mimetismo che ci porta a
provare, per empatia, quello che immaginiamo provi la persona che
amiamo; a condividerne le paure, gli odi e gli amori. Ma questo slancio
empatico sarebbe solo una prova di narcisismo — o di bovarismo — se non
tenessimo ben fermo l’aspetto fondamentale della teoria spinoziana
dell’amore: cioè il fatto che si può parlare di amore solo in presenza
di una causa esterna, di un altro che sta fuori di noi.
Per amare
davvero, bisogna accettare la distanza, il segno che l’oggetto del
nostro amore è reale. Robert Musil, in una sua pagina quasi di diario,
Percezioni finissime , racconta la scoperta vertiginosa di questa
distanza che ci separa dall’altro. Lo scrittore è a letto, con la
febbre, in una camera d’albergo; ascolta nel dormiveglia, senza vederla,
la toilette della moglie che si prepara per andare a dormire; e sente
per la prima volta, nel frusciare della camicia da notte, nelle forcine
che cadono sotto la spazzola, la vita segreta di lei: «Con piccoli gesti
incoscienti e innumerevoli, di cui non sai renderti conto, tu t’immergi
in un vasto spazio dove nemmeno un soffio di me stesso t’ha mai
raggiunta. Lo sento per caso, perché ho la febbre e ti aspetto».
La
povera Emma Bovary non dovette mai guardare Rodolphe con questi occhi,
né ascoltarlo così, nel buio; eppure, se l’avesse fatto, le sarebbe
stata risparmiata la vita. La vita, magari; non quel pungolo di dolore
che si cerca di anestetizzare, nel nostro tempo che demonizza la
sofferenza, con terapie di coppia e poste del cuore e manuali di
self-help, e che però fa parte anche dell’amore più gioioso. Nell’atto
di comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro, nel vedere il
segreto di un’intimità senza desiderare di violarla o di annientarla, un
dolore c’è. Un dolore sottile che — direbbe Spinoza — non si può domare
a furia di ragionamenti, né cancellare con i sillogismi; ma viene
abbracciato dall’amore vero, un affetto più forte della gelosia e della
smania di possesso.
Solo se abbracciamo quel dolore, e troviamo il
coraggio di guardare chi amiamo sapendo che non lo possederemo mai,
possiamo provare a sfuggire all’epigrafe su cui Leo Longanesi ha fissato
lo sberleffo di chi rifiuta per accidia la fatica della libertà: «Visse
infelice, perché costava meno».