domenica 3 luglio 2016

Corriere La Lettura 3.7.16
Matilde di Canossa. La contessa che valeva una regina
Sono appena stati celebrati i novecento anni della morte di una delle grandi figure del Medioevo, ora una mostra la celebra a Firenze nel tempio di un protagonista del Rinascimento
Umiliò un re, dialogò col Papa, è rappresentata in trono
In questi testi le prove di un’età nuova per la fede e i costumi
di Carlo Bertelli

Perché una mostra dedicata a una grande figura del Medioevo si tiene proprio nel santuario di un protagonista del Rinascimento? Ce lo dichiara, in mostra, la Vita di Michelangelo scritta da Ascanio Condivi e pubblicata nel 1553, quando Michelangelo era ancora vivo. Michelangelo, vi si legge, «ebbe l’origine sua da’ conti di Canossa, donde ne nacque la contessa Matilde, donna di rara e segnalata prudenza e religione».
In parte la mostra è dedicata al mito di Matilde, che include l’ipotesi, da tempo coltivata, che la Matelda che accoglie Dante alle soglie del Paradiso Terrestre sia la contessa di Canossa, il cui corpo, da San Benedetto Po dov’era sepolto, fu trasferito da Urbano VIII in San Pietro nel 1632 e posto in una tomba sormontata da una statua del Bernini. Tuetur et unit , ovvero «protegge e unisce», fu il motto che accompagnò la figura del melograno nell’araldica di Matilde di Canossa. Ed ecco allora che in un dipinto di Orazio Farinati (1559-1616), venuto da San Benedetto Po, l’abbazia del Polirone carissima alla contessa, Matilde — ammantata di rosso e con il melograno d’oro nel pugno — cavalca un bianco destriero con finimenti rossi e oro. Altre volte è un suo «ritratto», tradizionalmente attribuito al Parmigianino, che però copia un’invenzione della fine del Trecento o dell’inizio del secolo seguente.
Dalla Biblioteca Vaticana è qui esposta la Vita della contessa, scritta prima del 1115 dal monaco Donizone (pubblicata da Jaca Book) nel monastero di Sant’Apollonio a Canossa, un vero capolavoro della miniatura italiana dell’età romanica. In grandi e franchi disegni a penna campiti di colori decisi, sfilano gli antenati di Matilde, dal marchese Tedaldo fino a lei. Hanno abiti preziosi, descritti con una estrema attenzione ai particolari, siedono talvolta su troni sontuosi o, se stanno in piedi, i ricchi manti ne chiudono i corpi come corazze. Beatrice e Bonifacio sono ciascuno in trono, mentre una composizione di tre archi, una vera architettura romanica, accoglie Attone e Ildegarda con i loro tre figli, ossia il vescovo di Brescia Goffredo, Rodolfo, Tedaldo. Anche Matilde è rappresentata in trono. Siede su un trono diverso dagli altri, poiché è coperto da un baldacchino regale, e a una regina può essere comparata effettivamente la contessa cui il monaco Donizone offre il codice che narra la sua vita.
La sontuosità dei troni e degli abiti, le corone di Beatrice e di Matilde contrastano con altre dichiarazioni di umiltà di Matilde, la quale amava firmarsi con il nome Mathelda iscritto in una croce e il titolo dei gratia si quid est, «per grazia di Dio, quello che è».
Il codice di Donizone ebbe tale autorità che le sue composizioni furono a loro modo «aggiornate» nel Trecento nei monumentali disegni che illustrano gli Atti della contessa in un magnifico codice qui esposto.
Lontano dalle celebrazioni, un posto a parte occupa il codice proveniente dal monastero di benedettine di Admont, in Austria, già appartenuto a sant’Anselmo d’Aosta, vescovo di Canterbury. Si tratta di una raccolta di preghiere e di meditazioni scritte a sant’Anselmo, tra le quali ne segnalo una intitolata Quando l’anima intende rivolgersi a Dio , espressione toccante della nuova sensibilità che accompagnò il coraggioso movimento di riforma della Chiesa strenuamente guidato da Matilde di Canossa e Gregorio VII.
Nel contrasto con l’imperatore, che si sarebbe risolto solo nel 1125 nel concilio di Worms, si affinavano le armi di un’arte che, in Italia, trovava una rinnovata ispirazione nei monumenti dell’età paleocristiana. Era l’arte della riforma gregoriana. Roma acquistava una nuova centralità e gli artisti romani si facevano araldi di un’arte raffinata che traduceva in discorso lineare e coerente i modelli dell’ antichità. Maestri romani li troviamo dappertutto. A Colonia, in Borgogna, tra le pagine di un codice di Cluny con la vita di sant’Ildefonso, conservato a Parma, e nel meraviglioso salterio del Polirone, dall’archivio municipale di Mantova, che nelle due miniature a piena pagina si rivela opera di un maestro romano, mentre nei numerosi, minuti disegni che costellano il testo maestri lombardi intervengono a commento teologico dei salmi.
Anche se Matilde non riuscì a dominare pienamente le grandi città del suo vasto territorio, tanto che nel 1081 Gregorio VII dovete scomunicare il vescovo Eriberto di Modena, che nutriva simpatie per l’ impero, tuttavia eccezionale monumento dell’età matildina è la «relazione sull’innovazione della cattedrale di Modena», un codice conservato nell’archivio capitolare che, in scenette argute, racconta passo passo le vicende della costruzione sotto la guida dell’architetto Lanfranco e l’aiuto d’un inatteso miracolo di san Geminiano. Esplode qui il gusto della cronaca con cui si apre un’età nuova.
Nelle sculture di Wiligelmo, trasferite in seguito sulla facciata del duomo, sono i gesti espressivi dei progenitori a condurli nell’attualità dei costruttori di cattedrali. Si era capito che si poteva intendere una storia millenaria nella sua umana verità. Il gusto del racconto si nutriva della novità delle prime chanson de geste , ma anche di una rilettura quasi quotidiana della Bibbia.
Un aspetto fondamentale della riforma era infatti la riedizione della Bibbia in codici di grande formato, e perciò detti «atlantici», che i riformatori consegnarono ai monasteri riformati perché l’intera Bibbia fosse letta nel circolo dell’anno. La scrittura è stupefacente per la regolarità quasi tipografica e poche iniziali, con ornati geometrici, ravvivano i candidi fogli di pergamena. Era appunto questa la chiarezza auspicata dai riformatori.