domenica 17 luglio 2016

Corriere La Lettura 17.7.16
Piani per la de-estinzione di massa
Cinque catastrofi hanno portato alla scomparsa di molte specie
Il Muse di Trento indaga i grandi traumi planetari e cerca soluzioni per evitare che si ripetano
Una mostra affronta i rischi della sesta: quella causata dall’uomo
di Alessandro Minelli

L’ambito in cui si svolge la nostra esistenza quotidiana è circoscritto da confini che siamo inclini a considerare chiari e indiscutibili. Ci sono i confini nello spazio: naturali alcuni, segnati dai mari, dai fiumi o dalle montagne; convenzionali altri, ad esempio quelli che delimitano uno Stato, un campo di calcio o una proprietà privata. Ci sono poi i confini nel tempo, segnati ad esempio dalla nostra nascita (un giorno così importante da essere registrato sui documenti), o dal momento in cui diventa esecutiva una legge, o dai drammatici momenti in cui un terremoto rade al suolo una città. Ci sono, ancora, i confini fra le specie, anche se a questo proposito ci sono aree di incertezza, che in genere però liquidiamo come eccezioni che non confermano la regola. L’importante è che non ci siano ibridi fra l’uomo e qualche altro animale.
Nell’insieme, è improbabile che nel nostro quotidiano sorgano dubbi a proposito dei confini fra le diverse specie viventi che abitano con noi la Terra. Questo non significa, però, che ogni specie esista da sempre né, tantomeno, che possa continuare a esistere per sempre. Nei tempi lunghi, ciò che una specie può fare si riduce a due cose: trasformarsi, magari dividendosi in due specie figlie; oppure estinguersi.
Estinzione è una parola dura, che suggerisce l’idea di una perdita definitiva, irreparabile. Ma è anche una parola ambigua. Si dà spesso per scontato che tutte le specie vissute nel lontano passato si siano estinte, e questo lo credevano anche grandi scienziati, come Georges Cuvier. Coetaneo di Napoleone — otto giorni separano le loro nascite nel 1769 — Cuvier è considerato, a pieno merito, uno dei padri fondatori dell’anatomia comparata e della paleontologia. Nei resti fossili di specie vissute nel passato, delle quali non risulta essere sopravvissuto alcun esemplare, Cuvier vedeva la prova di gigantesche catastrofi naturali che nel corso della storia della Terra avevano portato alla scomparsa degli abitanti del pianeta e che ogni volta erano state seguite da una nuova creazione. Queste cose, Cuvier le scriveva qualche decennio prima che Charles Darwin pubblicasse L’origine delle specie . A parte Jean-Baptiste de Lamarck, collega di Cuvier presso il museo di storia naturale di Parigi, non si parlava ancora di evoluzione, di trasformazione delle specie.
Le cose, però, sono cambiate. Oggi sappiamo che le specie si modificano in modo incessante. Potremmo dire che le specie viventi attuali sono figlie di quelle di ieri, se non fosse che tra le une e le altre non ci sono confini precisi. Non c’è un luogo o un tempo in cui da due genitori della specie A nascono dei figli della specie B. Nei rari casi in cui le rocce ci hanno restituito i resti fossili di una fitta sequenza di generazioni di una stessa linea evolutiva, ogni divisione fra specie di partenza e specie di arrivo sarebbe arbitraria. Di solito, però, molti segmenti di questa sequenza di generazioni sono stati cancellati (vale a dire, non se ne sono conservate tracce fossili), per cui è possibile riconoscere qualche differenza fra l’antenato e il discendente, e finiamo per dare loro due nomi diversi: la specie A, più antica, ha dato origine alla specie B, più recente. Tutto bene, se non fosse che in questa maniera la specie A finisce automaticamente nella lista delle specie estinte. In realtà, essa sopravvive sotto altro nome, come specie B. L’estinzione, quella vera, è un’altra cosa: è la scomparsa di tutti i rappresentanti di una specie, della quale non esistono discendenti «camuffati» sotto un altro nome. È ben vero che gli uccelli sono così strettamente imparentati con i dinosauri da giustificare l’affermazione secondo cui essi sarebbero dei dinosauri sopravvissuti, ma è anche vero che Tyrannosaurus rex è davvero una specie estinta, così come si sono estinti i Velociraptor , le ammoniti, i mammut.
Le vicende di estinzione finiscono tutte allo stesso modo, ma si assomigliano solo in questo. Tuttavia, esistono delle situazioni in cui l’estinzione è più probabile. Pensiamo a una specie che vive su una remota isola oceanica e non ha i mezzi per raggiungere altre isole o un continente lontano. Un periodo climaticamente sfavorevole può mettere in forse la sua sopravvivenza; con l’arrivo di una nuova specie può trovare un predatore o un competitore con cui non è in grado di confrontarsi; e la stessa isola, prima o poi, potrebbe scomparire sotto il pelo dell’acqua.
I delicati equilibri biologici che si sono creati nel tempo su tante isole remote sono stati messi rapidamente in crisi, nei secoli passati, dall’occasionale approdo di una nave dalla quale, con un piccolo numero di marinai che ne sono presto ripartiti, sono sbarcati sull’isola gatti, cani, ratti, maiali o manguste che presto hanno portato all’estinzione di molte specie native, fra gli uccelli soprattutto. Così se ne è andato il dodo, osservato per la prima volta nel 1598 da un marinaio olandese e mai più avvistato dopo il 1662.
In realtà, il contributo dell’uomo all’estinzione di un numero crescente di specie animali e vegetali era cominciato da tempo, ma è nell’Ottocento che il fenomeno ha preso un’improvvisa accelerazione. Le cause sono note, dalla deforestazione all’inquinamento, sull’onda di un incremento demografico della nostra specie, la cui popolazione globale non accenna ancora a stabilizzarsi. L’uomo, pertanto, è diventato la causa prima di una vera e propria estinzione di massa.
Secondo i paleontologi, che fin dai tempi di Cuvier hanno conservato una forte sensibilità per questi eventi, la grande estinzione che sta avvenendo sotto i nostri occhi è la sesta di una serie iniziata quasi mezzo miliardo di anni fa.
Delle cinque estinzioni di massa che la biosfera ha conosciuto fino a oggi, la più famosa è quella che ha visto scomparire i grandi dinosauri. Si tratta peraltro anche della più recente delle big five , avvenuta 66 milioni di anni fa. Che ne sia stato responsabile l’impatto sulla terra di un gigantesco asteroide rimane un’ipotesi molto accreditata. Si calcola che questa estinzione abbia interessato tre quarti delle specie allora viventi. Della stessa entità erano state le perdite in occasione dell’evento precedente, alla fine del periodo triassico, 201 milioni di anni fa; qui la lista delle vittime non include nomi famosi, ma è egualmente ricca di rettili di grandi dimensioni.
Risalendo ancora nel tempo incontriamo la più drammatica delle estinzioni, che si colloca a 252 milioni di anni fa, alla fine del periodo permiano: si stima che allora sia scomparso il 70 per cento delle specie terrestri (all’epoca meno numerose e varie, rispetto ai nostri giorni) e il 96 per cento di quelle marine.
Meno precise sono le nostre conoscenze sulle due prime estinzioni, avvenute rispettivamente nel tardo devoniano, fra 375 e 350 milioni d’anni fa, e tra la fine dell’ordoviciano e l’inizio del siluriano, 450-440 milioni d’anni fa. In entrambi i casi, si è trattato in realtà di una serie di episodi susseguitisi a distanza relativamente breve, piuttosto che di un evento quasi istantaneo, come alla fine dell’era dei rettili.
Oggi, comunque, la responsabilità di una nuova estinzione è largamente nelle nostre mani. L’estinzione minaccia ormai da vicino anche molte specie carismatiche che ciascuno di noi ha cominciato a conoscere fin dalla prima infanzia, come rappresentanti di un mondo naturale che immaginiamo esista ancora, e possa esistere per sempre. Purtroppo, non è così.
La grande mostra Estinzioni. Storie di catastrofi e altre opportunità allestita presso il Muse, il Museo delle Scienze di Trento, invita il visitatore alla scoperta delle catastrofi biologiche, ma anche delle fortune e delle sfide del passato e del presente, in un dialogo fra scienza, storia e società.
La mostra appena inaugurata, che rimarrà aperta fino al 26 giugno 2017, è dedicata sia alle cinque grandi estinzioni di massa che si sono succedute nel passato geologico del pianeta, sia alla sesta estinzione, quella dell’antropocene, l’era dell’uomo.
Accanto allo spettacolare scheletro di un dinosauro proveniente da un giacimento giurassico del Wyoming vengono esposti preziosi reperti originali appartenenti alle collezioni di numerosi musei italiani. Di particolare interesse sono i documenti relativi ad alcune storie di estinzioni avvenute in tempi vicini: quella della colomba migratrice nordamericana, una specie che duecento anni fa contava miliardi di individui e della quale l’ultimo esemplare morì nello zoo di Cincinnati nel 1914; o quella del tilacino, del quale non si hanno più notizie certe di sopravvivenza dal 1936.
Che fare? La splendida mostra realizzata al Muse — curata da Massimo Bernardi, Alessandra Pallaveri, Michele Menegon e Telmo Pievani — sollecita il visitatore a riflettere su cosa si potrebbe o si dovrebbe fare per contrastare la sesta estinzione di massa. Certo, i problemi da affrontare coinvolgono scelte politiche, economiche e sociali che vanno molto al di là del potere d’intervento di un singolo cittadino. Ci sono in gioco il controllo demografico, la limitazione delle emissioni inquinanti, lo sfruttamento sostenibile delle risorse naturali, le misure di conservazione dirette alla salvaguardia di luoghi ed ecosistemi di particolare pregio.
Da qualche tempo, però, si parla anche di de-estinzione e la mostra di Trento invita a riflettere anche su questa. De-estinzione vorrebbe dire riportare in vita una specie estinta. Negli anni Venti e Trenta del Novecento, con una serie mirata di incroci fra razze di bovini domestici si tentò, in due giardini zoologici tedeschi, di ricostruire l’uro, il bovino selvatico che abitava le foreste dell’Europa centrale fino alla sua estinzione nel 1627. I risultati, come c’era da attendersi, furono insoddisfacenti. Oggi ci si riprova, utilizzando però nuove conoscenze e nuove tecniche. Si estrae il Dna da resti dell’animale estinto e lo si fa esprimere in cellule di specie affini. Insomma, operazioni di ingegneria genetica, come a Jurassic Park. Solo che, un po’ più realisticamente, non si parla di dinosauri, ma del tilacino e del dodo, della colomba migratrice e del mammut lanoso della Siberia. Per il momento, qualche risultato è stato ottenuto con lo stambecco dei Pirenei, dall’ultimo individuo vivente del quale, una femmina morta nel 2000, fu prelevato del tessuto: da questo sono stati estratti nuclei cellulari inseriti quindi in cellule uovo di capra domestica e ne è nata una piccola che è vissuta solo sette minuti, quanto basta per poter affermare che la de-estinzione è possibile.
O no? Per sottoscrivere questa affermazione occorre accettare l’idea che un essere vivente non è altro se non la realizzazione di un programma scritto nei suoi geni, nel suo Dna. Ma le cose non stanno così. I geni sono importanti, ma anche il resto della cellula ha qualcosa da dire; per non parlare del comportamento, cioè del fatto che uno stambecco molto probabilmente non crescerebbe in modo normale se potesse frequentare solo capre, fin dalla nascita.
Oltre a questi importanti problemi che riguardano la biologia, c’è poi da chiedersi: le risorse necessarie per portare avanti un tentativo di de-estinzione , non sarebbe meglio spenderle per salvare qualche specie da un’estinzione ormai prossima?