Corriere La Lettura 17.7.16
Solo i matti da legare sono sani di mente
A
tutta prima, nel leggere il nuovo romanzo di Gesuino Némus (alias
Matteo Locci) I bambini sardi non piangono mai , ti chiedi cosa gli
abbia preso, tanto distante ti par d’avvertirlo dalla Teologia del
cinghiale (2015) premiato col Campiello Opera Prima.
Perché ti
sembra quasi un romanzo normale, con un incipit da thriller, per quanto
subito incrociato con inserti personali (una lettera all’editore nella
quale racconta del suo essere scrittore, e in qual modo), e poi da
capitoli di narrazioni memoriali su fatti risalenti al 1968, ciascuno
dei quali aspetti affidato a differenti caratteri tipografici.
Il
tutto cadenzato da citazioni poste a esergo di capitolo, che hanno però
in sé il senso, se non la trama stessa di quanto poi si legge. Dove però
l’errore sta, invece, nel restare del lettore troppo legato al primo
libro, interamente dominato dal Gesuino tornato a 57 anni al paese,
Telévas, «dopo quarant’anni in giro per manicomi» (come ribadisce anche
nel nuovo romanzo); e che aveva quale elemento portante la figura del
Gesuino undicenne e del suo amico dodicenne Matteo (evocato anche nel
nuovo romanzo) che davano alla Teologia del cinghiale un alone di poesia
e da cantastorie.
E di tutto questo l’autore è ben consapevole
se, a pagina 98 — quando sei comunque ormai entrato nel nuovo meccanismo
narrativamente felice —, ti trovi un Le mie scuse al lettore che egli
ritiene forse «leggermente incazzato» per essersi ritrovato in una sorta
di thriller anomalo.
Che è poi quanto I bambini sardi non
piangono mai è davvero; persino più marcatamente thriller del primo
romanzo, anche se il legame che va gradualmente emergendo col mondo di
quello rende il risvolto «giallo» qualcosa di ancor diverso. Perché qui
si hanno due storie che paiono viaggiare in parallelo, lanciandosi però
sotterranei legami, sì da completarsi a vicenda. C’è un presente a
cavallo tra 2015-2016 che mette in scena il cadavere di Melchiorre
Mossìle sparato in faccia e riconosciuto solo grazie all’«odore
pestilenziale» che sempre emanava da vivo e, poco dopo, uno scheletro
incatenato ritrovato in una grotta, sui quali indaga il simpatico
capitano Marino Terrevazzi, un milanese che ha volutamente scelto la
Sardegna. E c’è il passato: il 1968 caratterizzato da strani fermenti
indipendentisti, con curiosi legami tra Corsica e Sardegna e cospicui
sostegni finanziari esteri.
Due avvenimenti che ruotano attorno al
«mentecatto» Gesuino che «vive solo, nel punto più alto di su Cuccuru»,
«non esce quasi mai di casa da quando sta scrivendo le sue memorie»,
senz’altri amici che Agenore Contu, altro «matto da legare» ma «sano di
mente».
Un Gesuino autentico deus ex machina nel suo gestire il
continuo intreccio tra presente e passato in quel di Telévas e monti
circostanti, con passaggi morbidi segnati dal variare dei font . Con due
toni anche differenti: ove il font che caratterizza il ricordo si rifà a
un andamento più linearmente narrativo, che vede il balbuziente Gesuino
come personaggio tutto preso dalla stesura delle sue memorie, con
sguardo anche interno al ragazzo che era, segnato da vera passione per i
libri, che vien consegnando alla vecchia Olivetti i suoi lontani
incontri con strani personaggi tra banditismo (il brigante Bastianeddu,
molto ben disegnato) e finanziatori esteri (lo sfuggente parigino
Jérôme); mentre il font del presente vede sempre Gesuino ma in veste di
scrittore autoriale, un Gesuino Némus-Locci che si fa quasi angelo
custode del capitano, suggerendogli comportamenti, chiedendogli scusa,
sollecitandolo, ma anche come postillatore di atteggiamenti e
situazioni. Un Gesuino che entra ed esce a mano libera dalla vicenda che
vede Terrevazzi indagare, incontrando anche procuratori più o meno
infidi (ma Nasturzio è poco più che una macchietta, al pari della
tirannica moglie ogliastrina), accompagnandosi al simpatico brigadiere
Maludrottu, ma pure a un colonnello dei servizi segreti più o meno
deviati, con andamenti tendenti talora anche alla teatralità.
Un
deus ex machina però anche inconsapevole: come quando, attratto dalla
promessa del capitano di far leggere il suo dattiloscritto alla sorella
editor, gli consente di leggerlo e fotocopiarlo. Consentendo così a
Terrevazzi di sbrogliare la matassa di quegli enigmi radicati nel
passato, fatti di presunti morti, travestimenti, motivazioni politiche
tradite dall’avidità umana; ma pure di ritrovarsi di fronte alla sua
coscienza, allorché quale premio, il capitano si sente proporre di
entrare a far parte di quegli stessi servizi segreti.
Un romanzo
che rinuncia dunque per diversi aspetti alla componente antropologica
della Teologia del cinghiale a favore d’una struttura più propriamente
narrativa, comunque ben orchestrata e disposta in crescendo di tensione.
Senza però rinunciare alla ricchezza affabulatoria e comunque ben
gestendo i continui passaggi tra dentro e fuori la storia, e tra passato
e presente, così come il ricco dialogato; anche se certe venature si
perdono rispetto al primo romanzo per via d’una accentuazione di
traduzioni degli inserti di lingua sarda, che lascia meno spazio a una
resa italiana di andamento dialogico e pertanto più «imaginifica». E con
qualche innamoramento di troppo per il gusto della battuta, del
commento, e dell’autocitazione.