Corriere 9.7.16
La Nato e il problema russia le incognite di una strategia
di Franco Venturini
Nel
’39 le potenze democratiche dell’Occidente decisero di fermare Hitler
anche a costo di «morire per Danzica» . Oggi, in un mondo molto diverso,
la Nato vuole prevenire tragedie come la Seconda guerra mondiale. Vuole
convincere Vladimir Putin, che non è Hitler, della determinazione
occidentale a morire se necessario per Varsavia, per Vilnius, per Riga,
per Tallinn. E nell’intento di creare una deterrenza militare capace di
pesare sulle intenzioni del Cremlino, schiera quattromila soldati
dell’Alleanza nei Paesi più esposti, crea depositi di armi nei loro
territori, irrobustisce la nuova forza di intervento rapido, accresce la
sorveglianza aerea sulle Repubbliche Baltiche e quella navale nel Mar
Nero. Mentre con l’altra mano offre a Mosca la piena ripresa di un
dialogo interrotto due anni fa dopo l’annessione della Crimea.
Il
vertice atlantico che si tiene da ieri a Varsavia ha reso operative
queste misure. E nel clima di normalità burocratica che sempre
accompagna gli appuntamenti della Nato, anche i più importanti, è
possibile che l’Articolo 5 non sia nemmeno citato, o lo sia soltanto di
sfuggita. Eppure nel campo occidentale molto, moltissimo viene da quel
testo.
L’Articolo 5 del Trattato di Washington è la ragione stessa
dell’esistenza della Nato. Stabilisce che tutti gli alleati (gli Usa
per primi) correranno obbligatoriamente in soccorso di un Paese membro
aggredito. E’ stato attivato soltanto una volta, dopo l’11 Settembre,
quando gli alleati degli Usa vollero mostrare la misura della loro
solidarietà con l’America colpita dagli stragisti. Ma in maniera meno
palese l’Articolo 5 è anche al centro delle decisioni che ora vengono
prese a Varsavia.
Dopo l’annessione della Crimea da parte della
Russia nel 2014 e la cronicizzazione della rivolta del Donbass
nell’Ucraina orientale, le Repubbliche Baltiche e la Polonia hanno posto
alla Nato una questione che può essere riassunta così: la Russia ci
minaccia e noi non siamo sicuri che voi siate davvero pronti a morire
per Varsavia, per Vilnius, per Riga e per Tallinn. Vogliamo una
garanzia, un pegno umano sulla piena applicazione dell’Articolo 5 se
veniamo attaccati da Mosca. L’ideale sarebbe schierare da noi forze
multinazionali dell’Alleanza, così le potenze atlantiche sarebbero
coinvolte e dovrebbero reagire per forza.
La Nato ha acconsentito,
limitando però il numero dei soldati e prevedendo un sistema di
rotazioni per non violare gli accordi con Mosca che vietano la presenza
di forze alleate «permanenti» ai confini della Russia. La sicurezza
dell’Europa ne guadagna, si rafforza la credibilità dell’Alleanza, il
deterrente anti Russia funzionerà? La Nato prova a risolvere una
equazione diabolica — rassicurare gli alleati più a rischio senza
innescare il boomerang di una reazione violenta di Mosca — e non
possiamo che augurarci un pieno successo delle misure adottate. Ma
qualche dubbio è lecito. Per quattro motivi.
Primo. L’allargamento
della Nato verso est dopo la vittoria nella Guerra fredda e il crollo
dell’Urss è stato storicamente inevitabile e moralmente giusto. Ha avuto
luogo nel segno della libera scelta, non in quello dell’Armata Rossa
come avvenne in opposta direzione di marcia alla fine della Seconda
guerra mondiale. Ma il vantaggio che la geografia concede alla Russia
non è stato né poteva essere superato. E schierando ora pochi uomini in
prima linea, l’Alleanza ammette implicitamente che il patto solenne e
cruciale dell’Articolo 5 può non bastare se non appoggiato da «garanzie»
sul terreno. La credibilità dell’impegno subisce un vulnus, non una
esaltazione.
Secondo. Non è detto che sia destinata a crescere la
sicurezza dei Paesi che si vuole tranquillizzare. La Russia dispone
dell’enclave di Kaliningrad, l’ex Könisberg che dette i natali a
Immanuel Kant e che confina con Polonia e Lituania. Missili russi
Iskander a gittata variabile e con capacità nucleare sono probabilmente
già presenti a Kaliningrad, o lo saranno presto nell’ambito delle
«contromisure» di Mosca. La sicurezza non aumenterà, si affiderà invece
ancor più di oggi al livello delle risposte atomiche confermando nel
cuore dell’Europa l’equilibrio del terrore tra Russia e Occidente.
Terzo.
Cresce la possibilità di incidenti militari tra le parti o di
provocazioni, per esempio nell’ambito di quella «guerra ibrida» con
utilizzo di soldati senza insegne cui la Russia ha già fatto ricorso in
Crimea. E uno scontro con i mille uomini della Nato in un Paese scelto
dal Cremlino potrebbe essere l’inizio di una escalation incontrollabile.
Quarto.
Non sarà un incontro tra ambasciatori in calendario a Bruxelles
mercoledì prossimo a dare sostanza al dialogo con la Russia. Così come
non è bastata la telefonata tra Putin e Obama, dedicata alla Siria.
Eppure quasi tutti in Occidente riconoscono che Mosca rimane un
interlocutore indispensabile in Medio Oriente, contro il terrorismo
jihadista, nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, nel disarmo. Ora è
invece possibile che la Russia si ritiri dal trattato Inf sui missili
intermedi, quelli che maggiormente coinvolgono l’Europa.
Tutto ciò
non può in alcun modo condurre a una eccessiva arrendevolezza della
Nato nei confronti del Cremlino. Vladimir Putin ha giocato sporco in
Ucraina anche se oggi non è l’unico responsabile della mancata
applicazione degli accordi di Minsk. Con l’annessione della Crimea ha
violato il diritto internazionale malgrado i particolari e secolari
legami storici della penisola con la Russia. E in casa guida un regime
nettamente più totalitario che democratico. Putin ha attirato su di sé
la perdita di fiducia dell’Occidente, come ha detto Angela Merkel. Ma
proprio per questo, accanto a una fermezza meglio calibrata, la priorità
dovrebbe essere quella di capire se la fiducia possa essere
ristabilita, senza far rinascere in Russia complessi di accerchiamento
atavici e davvero pericolosi. Sarà questo il dossier più caldo che il
prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà affrontare, e l’Europa
resterà ancora una volta ai margini. A dispetto dell’indispensabile
Nato.