sabato 9 luglio 2016

Corriere 9.7.16
Le crepe nella diga sociale
«Guerra civile» titola il New York Post
di Massimo Gaggi

«Guerra civile» titola il New York Post. E adesso l’America teme che l’estate delle Presidenziali divenga una stagione torrida di disordine e violenza, a cominciare dalla convention repubblicana di Cleveland, tra nove giorni. Ma il fuochista capo di questa campagna elettorale, Donald Trump, percepisce la gravità del momento e sceglie una linea assai meno incendiaria, esprimendo cordoglio e chiedendo il ritorno alla legalità e a condizioni di sicurezza nelle strade. Parole che, in questo caso, non sono troppo diverse da quelle di Hillary Clinton e dello stesso Obama che, dopo aver criticato gli eccessi della polizia nei casi che hanno sconvolto gli Stati Uniti nei giorni scorsi, condanna con estrema durezza ogni vendetta e rende omaggio al sacrificio delle forze dell’ordine. Ma le parole di responsabilità dei politici rischiano di avere un peso relativo in questo clima arroventato e davanti all’apparente fallimentodei tentativi di spingere le polizie che adottano i comportamenti più brutalie discriminatori a cambiare rotta. Il rischio è che qualcuno trasformi il cecchino di Dallas nell’angelo vendicatore che incarna una selvaggia visione della giustizia popolare. La sensazione è che proprio nell’ultima estate della presidenza Obama, il leader che doveva essere l’uomo della riconciliazione, sistiano pericolosamente moltiplicando le crepe nella diga che fin qui ha contenuto le manifestazioni di odio di una società violenta come quella americana .
Colpa delle violenze della polizia ma anche di chi, come Jesse Jackson, condanna i killer di Dallas ma li vede come la reazione ai «linciaggi legali» perpetrati dagli agenti. E adesso, con l’incubo che in altre manifestazioni pacifiche di «Black Lives Matter» spuntino imitatori degli assassini di Dallas, ci si chiede come sia stato possibile che l’America sia stata di nuovo scossa dalla discriminazione razziale, almeno nel mantenimento dell’ordine pubblico, proprio negli anni della presidenza Obama. Tra le promesse mancate dell’uomo andato al potere otto anni fa promettendo cambiamenti profondi e il superamento delle divisioni, l’insuccesso sul fronte della comunità nera è quello che brucia di più.
Un insuccesso che è frutto di un’impressionante concatenazione di eventi negativi. I più appariscenti sono stati quelli a sfondo politico: l’America conservatrice non ha mai digerito l’elezione di un presidente nero e ha fatto di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote, impedendogli di governare: due ministri della Giustizia di colore determinati e competenti, Eric Holder e Loretta Lynch, non sono riusciti a fare nulla per riformare un sistema di giustizia criminale squilibrato ed eccessivamente punitivo, soprattutto per la non collaborazione del Congresso. E in questo clima gli Stati e le contee più conservatori si sono sentiti ancor più liberi di adottare il «pugno di ferro».
Nell’era del terrorismo globale e delle infiltrazioni «jihadiste» in quasi tutto l’Occidente, poi, gli Usa fino a poco tempo fa avevano dovuto fare i conti solo coi lupi solitari razzisti sostenitori della supremazia dei bianchi. I disordini razziali, da Ferguson a Baltimora, per quanto gravi, non avevano mai prodotto sconfinamenti nel terrorismo, salvo, forse, nella notte dei roghi nel sobborgo di St. Louis.
Ma un ruolo importante ce l’hanno altri due fattori «ambientali» che complicano il rapporto tra forze dell’ordine e cittadinanza. Da un lato la diffusione sempre più capillare delle armi da fuoco. I casi di uso eccessivo della forza da parte degli agenti sono in continuo aumento (più 7 per cento dall’inizio dell’anno secondo l’ultima indagine del Washington Post ) nonostante tutti gli appelli alla calma e i corsi di «rieducazione» nelle caserme. Mano pesante dei poliziotti, ma è difficile non essere nervosi e sospettosi quando si sa che la persona che viene fermata con ogni probabilità ha un’arma in tasca col colpo in canna.
L’altro fatto è la diffusione delle «body camera» dei poliziotti e dei video girati nei luoghi dei conflitti. Dovevano funzionare da deterrente anti-violenza, ma per adesso non è successo. Così queste immagini che inchiodano gli agenti, alimentano anche l’odio e allargano le crepe della diga sociale.