Corriere 8.7.16
Tra tifosi, rabbie e rivincite la sindaca-mamma prova a trasmettere normalità
di Goffredo Buccini
L
a manina si leva dalla seconda fila, zona famiglie. Prima timida, poi
più decisa, a fare «ciao, ciao!», «guardami, mamma, sono qui!». Dallo
scranno di sindaco di Roma in procinto di giurare, Virginia fa finta di
nulla. Per un po’. Poi risponde ai cenni, mentre il buon De Vito,
legnoso neopresidente dell’assemblea, prova ad andare avanti coi lavori.
«Ciao, ciao, Matteo, mamma ti ha visto!».
Se la Raggi o i...
diabolici comunicatori della Casaleggio Associati cercavano un palese
segno di discontinuità, beh, il segno si materializza alle quattro e
venti di questo pomeriggio torrido e persino storico, in un’aula Giulio
Cesare che pare la curva d’una partita della nazionale per quanto è
piena di tifosi e passioni, ruggiti («onestà, onestà!») e rabbie e
rivincite anche ingenue covate dai «cittadini» per una stagione o per
una vita, chissà.
Là dove, otto anni fa, i postfascisti di
Alemanno salirono col braccio teso nel saluto romano (« ’amo pijato er
Palazzo d’Inverno! »), mamma Virginia si insedia col braccino levato
d’un soldo di cacio dai capelli neri a spazzola che proprio non sta
nella pelle e sulla sedia, accanto al papà Andrea e dietro ai nonni
materni. Là dove lo svizzero-marziano Marino rilevò nientemeno che
«segni di cicche sul parquet dell’aula», lei si fa sgualcire fascia
tricolore e mise scura da cerimonia dal pargolo indemoniato che le
s’arrampica sino alla cintola, fino a farsi portare su, in braccio, tra
consiglieri e neoassessori e parlamentari pentastellati (file vip per
loro, non troppo da «uno vale uno»), su e più su, fino allo scranno
magico, quello che fu di Petroselli e Argan (debitamente citati da mamma
Virginia), Rutelli e Veltroni, e — ahinoi — Alemanno e Marino, appunto,
i due disastri capitali che stiamo scontando con la carica dei 29
(ventinove!) consiglieri Cinque Stelle. Lì, sullo scranno ormai suo,
Matteo s’acquieta, pigiando pulsanti, salutando De Vito: rimane dieci
minuti lì, mentre si vota. «Siamo cittadini, e cittadini dobbiamo
restare», dirà poi la mamma. E un tale uso delle famiglie, spinto oltre
cerimoniali e convenzioni, proprio questo deve comunicare, comunità
rinata, normalità ritrovata.
Tutto il contrario di ciò che pare
pensare Enrico Stefano, neoescluso dalla giunta (ma le poltrone non
contano, naturalmente), quando ci spiega che «è una giornata
particolare» (chissà quanto consapevole della scivolosa citazione),
mentre i solerti guardiani dell’ufficio stampa danno la caccia ai
giornalisti, che vorrebbero fuori dall’aula Giulio Cesare e dal contatto
con l’umanità grillina: errore grave, corretto poi dal caldo che tutto
sbraca e dal clima festaiolo (eppure segno d’una allergia che per
qualche militante si traduce in insulti: «Il tuo giornale fa
vomitare...»).
È il dark side del grillismo che però oggi viene
ampiamente sconfitto e illuminato dalla carica di mamme, zie, fratelli,
mariti di 29 romani che raccontano tre o quattro generazioni di speranze
e illusioni sull’Italia (la consigliera grillina più anziana è stata
«angelo del fango» nell’alluvione di Firenze). Se è strategia, da romani
siamo contenti: Virginia ha fiuto. Se è fortuna, idem: ché quella serve
sempre.
Così ci godiamo la mamma di Alessandra Agnello, prof che
si descrive scampata al ‘68 («mio marito mi disse che al liceo Giulio
Cesare m’ammazzavano, andai ad insegnare alle medie») e giura di avere
trasmesso alla figliola avvocatessa delle Poste il «seme della
giustizia». Ci lasciamo avviluppare da Marco, marito di Alessandra e
teorico della decrescita felice, alle Poste pure lui, «ma in part-time,
così vado in bicicletta. Il pane me lo faccio da solo a casa, non
abbiamo bisogno di tante cose ». Grillo aveva conquistato prima lui,
«Ale però è quella brava». Molti mariti qui hanno aperto la strada per
essere poi sopravanzati dalle mogli. Proprio come Andrea Severini, il
tormentato consorte di Virginia. Davanti a lui, Lorenzo Raggi, papà
della sindaca (uno Spencer Tracy con la barba bianca) si svela «più
emozionato per Matteo là sullo scranno di sindaco che per Virginia. Se
lei e la Appendino cadono, cade tutto il Movimento». Alla buvette
Virginia arriva in una pausa con Matteo, nonno Lorenzo li filma, i
cameramen filmano loro. Il piccolo guarda uno schermo acceso sull’aula e
dice «mamma, quella è la tua poltrona!». Idee già chiare.
Dentro,
Di Battista, come un primattore in astinenza da fan, anima tutti i
capannelli, sempre dando le spalle al consiglio che intanto vota. Quando
Matteo rientra, gli chiediamo quanti anni abbia. «Sei!», dice lui,
fierissimo. Papà Andrea si sdegna: «Domande ai bambini, ma per favore!»,
come se ci fossimo incontrati per strada, come se al centro di questa
giostra l’avessimo messo noi. È quasi bispensiero. Ma citare Orwell, in
un giorno così lieto, pare, se non altro, scortese.