Corriere 7.7.16
Il Colle e l’ipotesi che vinca il No, Italicum da correggere per il voto
di Marzio Breda
Mattarella contrario alle urne con due sistemi, un esecutivo per le modifiche
N
on esiste un «piano A» o un «piano B» di Sergio Mattarella nell’ipotesi
che, perdendo il referendum di ottobre, il premier dovesse dimettersi.
Non c’è alcun disegno per insediare Dario Franceschini (dipinto come
grande amico del presidente) a Palazzo Chigi, qualora si materializzasse
quello scenario.
Certe
ricostruzioni politico-mediatiche degli ultimi giorni sul futuro della
legislatura, nell’eventualità di una sconfitta di Matteo Renzi sul
fronte della riforma costituzionale, irritano il Quirinale. Si osserva
che veicolare un coinvolgimento del capo dello Stato in «trame
fantasiose» come queste, descrivendolo già impegnato a precostituire la
nascita di governi alternativi (istituzionali o no), rischia di
lesionare il suo ruolo di «arbitro», rivendicato esplicitamente fin
dall’insediamento.
Un’idea
insopportabile, per lui, che non accetta l’idea di farsi reclutare da
una parte o dall’altra nella partita in corso. Partita divenuta
scivolosissima dopo che Renzi, durante la recente direzione del Pd, ha
nuovamente drammatizzato il responso del voto d’autunno. «In caso di no
al referendum, il premier, il governo e — ma non spetta a me dirlo —
anche il Parlamento dovrebbero prenderne atto». Ora, l’uomo al quale
«spetta dirlo» (sciogliendo le Camere, ecco il minaccioso sottinteso
renziano) è Mattarella. Per cui non è poi così bislacco chiedersi —
certo, rispettando i suoi poteri, che comincerà a dispiegare solo
qualora l’esecutivo cadesse — cosa potrebbe fare se alle urne
prevalessero davvero i contrari alla «rivoluzione Boschi».
Interrogativo
cruciale e delicato, che ha come preambolo la data della consultazione.
Su questo si sa che sul Colle non sono considerati praticabili
slittamenti significativi: il mese indicato resta quello di ottobre, si
ragiona al massimo su una forbice di una ventina di giorni rispetto alle
date azzardate finora. Ma il cuore della questione riguarda oggi le
decisioni che il presidente della Repubblica potrebbe assumere davanti a
un teorico primato dei «no».
Mattarella,
si sa, per formazione politica e per dovere d’ufficio, non darebbe
affatto per scontata la caduta del governo Renzi, nato peraltro come
«costituente», e il congedo anticipato del Parlamento. Fatalmente, la
sua preoccupazione sarebbe di verificare la possibilità di formare un
esecutivo (che potremmo definire «di scopo») in grado di cambiare
l’attuale legge elettorale, cioè l’Italicum.
E
qui viene il punto politico. Per lui, infatti, grande esperto di
sistemi elettorali e con un forte spirito maggioritario, andare al voto
con due leggi diversissime come le abbiamo ora finirebbe con il
provocare una grave «zoppìa». Da scongiurare a ogni costo, in quanto
determinerebbe un’estrema difficoltà nel gestire il risultato delle
urne. Beninteso: nella storia repubblicana è quasi sempre accaduto che i
sistemi elettorali fossero diversi, tra Camera e Senato, ma mai sono
apparsi diversi in modo così lacerante. Lo provano, del resto, i ricorsi
pendenti davanti alla Consulta.
Così,
a dispetto di quel che sostengono parecchi costituzionalisti, per il
capo dello Stato prima di mandare i cittadini a votare è preferibile —
anzi, indispensabile — varare una serie di correzioni e armonizzazioni
sull’Italicum. E i nodi più critici sono quelli che riguardano la
rappresentatività e il premio di maggioranza.
Una
missione decisiva e da affidare a un nuovo governo. Posto che un Matteo
Renzi eventualmente sconfitto scegliesse sul serio di ritirarsi a vita
privata, come ha promesso (nell’entusiasmo dei suoi oppositori), legando
all’esito del referendum il proprio futuro politico.