Corriere 7.7.16
Il caso Ilaria Capua
il valore di sapere chiedere scusa
di Paolo Mieli
L’Italia
ha scarsa considerazione per la scienza. Ne è prova l’incredibile
vicenda di Ilaria Capua, la ricercatrice che per prima isolò il virus
dell’aviaria e che, come ha raccontato ieri sul Corriere Gian Antonio
Stella, di punto in bianco nel 2014 fu accusata di aver fatto ignobile
commercio delle sue scoperte «al fine di commettere una pluralità
indeterminata di delitti di ricettazione, somministrazione di medicinali
in modo pericoloso per la salute pubblica, corruzione, zoonosi ed
epidemia». Dopo essere stata accusata praticamente di tentata strage,
per ventiquattro mesi fu pressoché ignorata dai giudici. Per essere
infine prosciolta perché «il fatto non sussiste». Ilaria Capua ha subito
un torto dal sistema giudiziario del suo Paese. E non solo da quello.
Ma qui da noi se uno scienziato subisce un’ingiustizia, sia pure un
sopruso più che evidente, nessuno, possiamo starne certi, si sentirà in
dovere di chiedergli scusa. Forse — per come ne conosciamo la storia —
farà eccezione il settimanale L’Espresso che due anni fa decise di
inchiodare la Capua in copertina alla stregua di una «trafficante di
virus». Forse. Il periodico aveva evidentemente ricevuto le «carte» da
qualche magistrato o da qualche altro inquirente e non ebbe esitazione a
puntare il dito contro la ricercatrice che, per giunta, era adesso
anche una parlamentare del gruppo facente capo a Mario Monti. La
deputata grillina Silvia Chimienti ne chiese le immediate dimissioni.
C
ose che sono capitate anche ad altri negli ultimi decenni. Del che
qualcuno ha fatto ammenda, qualcun altro no. E i no sono infinitamente
di più. Nei confronti degli scienziati — forse per il motivo di cui
all’inizio, forse perché sono più indifesi, forse perché, a causa delle
loro rivalità, non formano una comunità coesa — si è in genere restii a
riconoscere torti (nostri) e ragioni (loro). Anche quando sono entrambi
evidenti. Ilaria Capua ebbe la vita devastata dal combinato mediatico
giudiziario. I colleghi deputati la abbandonarono al suo destino, i
giornali anche.
L’inchiesta,
come spesso accade, fu «spacchettata» e finì nel nulla. Recentemente
un’università americana le ha offerto un posto di grande prestigio, lei
si è dimessa dal Parlamento e si è trasferita in Florida. Infine il
proscioglimento, anche per reati che nel frattempo avrebbero potuto
essere prescritti. Nulla di ciò che le è stato imputato «sussiste». Già
questo fa una certa impressione. Ma un dettaglio non può non aver
colpito chiunque abbia letto con attenzione l’articolo di Stella. Lo
trascriviamo per intero. «Lei ha visto il procuratore aggiunto di Roma
Giancarlo Capaldo che avviò l’inchiesta?», domandava Stella. «Mai. O
meglio, nel 2007 (molti anni prima della storia del traffico di virus,
ndr ) per un’altra faccenda. Dove mi ero presentata per rendermi utile»,
rispondeva Capua. «Ma in questi due anni?», insisteva Stella. «Mai».
«Altri magistrati, forse?». «Mai». «Quindi non è mai stata
interrogata?». «Mai». Abbiamo letto e riletto queste parole. E speriamo
che le abbia lette anche il presidente dell’Associazione nazionale dei
magistrati Piercamillo Davigo. Di modo che abbia modo di spiegare, se
crede, come è possibile che questo sia accaduto. E qual è la cosa grave?
Non già che possa configurarsi un errore giudiziario e nemmeno che sia
stata avviata un’inchiesta forse doverosa: tutte eventualità che la
giustizia deve contemplare come possibili. Ma non è di questo che
dovrebbero dare spiegazioni i rappresentanti della corporazione togata.
Bensì di come sia concepibile che all’imputata non siano stati concessi
neanche trenta secondi per offrire la propria versione dei fatti. In un
periodo di tempo lungo oltre due anni, due anni nel corso dei quali la
sua reputazione è stata fatta a brandelli, non c’è stato uno solo dei
magistrati chiamati a occuparsi del caso che si sia premurato di darle
ascolto. Ilaria Capua si è vista costretta a lasciare il suo incarico in
Parlamento e la sua attività scientifica nel nostro Paese senza che si
sia fatto vivo un solo magistrato per chiederle la sua versione sui
terribili fatti per i quali era finita alla loro attenzione.
Sorge
in noi perfino il dubbio che ci stiamo occupando di ciò che è capitato a
Ilaria Capua solo perché la conosciamo, appunto, per essere lei una
scienziata di fama internazionale. E che ci siano chissà quante persone
che hanno vicissitudini giudiziarie ancora più travagliate della sua
senza che nessuno, neanche una volta, abbia deciso di ascoltare la loro
voce. Qualcosa di ben diverso, ripetiamo e sottolineiamo, da un errore
giudiziario o da un’indagine che non porta a nulla.
Un
ultimo elemento di questa vicenda può offrire uno spunto di riflessione
al mondo della politica. Ieri all’alba la parlamentare del Movimento
Cinque Stelle di cui si è detto poc’anzi, Silvia Chimienti (quella che
aveva chiesto le dimissioni immediate), ha telefonato oltreoceano alla
Capua per esprimerle il proprio rammarico per la sua presa di posizione
di oltre due anni fa. Lei lo ha fatto. Altri no. Nelle riflessioni che
facciamo ogni giorno sulle evoluzioni politiche del nostro Paese e in
particolare sulla natura degli appartenenti al Movimento di Beppe
Grillo, forse questo minuscolo episodio è degno di considerazione. Nel
senso che quelli capaci di chiedere scusa — come fecero a suo tempo i
radicali di Marco Pannella in merito alla campagna che nel 1978 aveva
portato alle dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone
(anche allora, per una pura coincidenza, coprotagonista L’Espresso ) —
guadagnano titoli di merito che rendono le loro posizioni rispettabili. E
più resistenti all’usura del tempo.