giovedì 7 luglio 2016

Corriere 7.7.16
Breve storia dell’Onu Deludente ma necessaria
risponde Sergio Romano

Non sarebbe ora di valutare una sorta di Itexit, ma dall’Onu? A prescindere dalla triste soluzione a «staffetta» tra Italia e Olanda per il seggio non permanente nel biennio 2017-2018, ha ancora senso essere membri della Organizzazione delle Nazioni Unite? E contribuire a mantenerla? Soprattutto visti non solo i molti interventi per nulla risolutivi che l’hanno contraddistinta in questi decenni (ex-Jugoslavia in primis !) ma anche i tanti, troppi, contributi a pioggia che non hanno cambiato granché nel continente africano che sta demograficamente esplodendo. Non sarebbe stato meglio che ogni Paese ricco avesse adottato un Paese povero contribuendo a migliorarne le infrastrutture e accollandosi il debito pubblico, anziché portare tutto all’ammasso dell’Onu?
Mario Taliani 

Caro Taliani,
Dopo la fine della Grande guerra, Franklin D. Roosevelt, allora assistente segretario della Marina, assistette al parziale fallimento del grande progetto internazionale di Woodrow Wilson. I vincitori avevano accettato le proposte del presidente americano e si erano accordati per la creazione di una grande Società delle Nazioni. Ma il Congresso americano si era opposto alla ratifica del Trattato di pace e aveva impedito così che gli Stati Uniti ne divenissero membri. Una delle maggiori ambizioni di Roosevelt, venticinque anni dopo, era la correzione di quello che considerava un madornale errore. Illustrò il suo progetto alla conferenza di Yalta e ottenne, con qualche importante concessione, l’approvazione della Unione Sovietica. Nelle sue speranze l’Onu era il necessario embrione di un «governo mondiale». La sua assemblea, in cui avrebbero trovato posto tutti gli Stati del mondo, sarebbe stata il suo Parlamento; il consiglio di sicurezza, in cui le maggiori potenze avrebbero avuto un seggio permanente, sarebbe stato il suo governo. Roosevelt morì prima della nascita della sua creatura ed ebbe la fortuna di non dovere assistere alle crescenti difficoltà di una organizzazione a cui la Guerra fredda impediva di agire con il necessario consenso dei membri maggiori.
Una occasione si presentò dopo la fine della Guerra fredda, quando un nuovo segretario generale eletto nel 1992, l’egiziano Boutros Boutros-Ghali, si installò nel Palazzo di vetro. Vi fu un vertice a New York fra i capi di Stato dei Paesi appartenenti al Consiglio di sicurezza che gli chiesero di proporre una Agenda per la pace. Fra le altre proposte contenute nell’Agenda di Boutros-Ghali, vi fu la creazione di un esercito dell’Onu composto da contingenti «prenotati» di eserciti nazionali che il Consiglio di sicurezza e il segretario generale avrebbero potuto utilizzare. Ma la proposta avrebbe dato all’Onu una maggiore capacità d’intervento e non piacque alle maggiori potenze. Da allora il grafico dei veti ha registrato una forte impennata. E oggi il numero dei veti americani e quello dei veti russi sono un continuo testa a testa.
Dovremmo dedurne che l’Onu è inutile? Credo che se l’Italia decidesse di andarsene, ci accadrebbe quello che è accaduto a molti paladini britannici del «Leave» dopo il referendum britannico degli scorsi giorni. Scopriremmo che gli aiuti umanitari sono in grande parte una responsabilità dell’Onu, che sono numerosi i luoghi dove non si combatte grazie alla presenza dei «caschi blu» e che le sue istituzioni migliori sono, come accade spesso, quelle di cui si parla meno.