mercoledì 6 luglio 2016

Corriere 6.7.16
La prospettiva della Brexit ha lo «sguardo corto»
di Giuliano Noci

Passano i giorni e Brexit sembra sbiadire il carattere ultimativo della logica referendaria mentre cresce il popolo di quelli che dicono «avevamo scherzato». Ma a voler ben guardare il risultato referendario ci dice molto di più del semplice voto contro l’Europa perché due questioni «globali» si spalancano di fronte a noi.
In primo luogo, il risultato ci pone il tema dell’adeguatezza dell’organizzazione statuale dei nostri giorni e della distanza di percezioni, di cultura, interessi e benessere che separa la grande città metropolitana dal resto del Paese. È la visione di Benjamin Barber, politologo americano, che guarda alle città come istituzioni, culla della democrazia, capaci di reagire alle sfide globali e di spingere la crescita meglio degli Stati-nazione, istituzioni ormai arcaiche. Le metropoli sono del resto il luogo dove vive il 78% della popolazione dei Paesi sviluppati e si genera l’80% del Pil mondiale. E se Londra, Glasgow, Manchester hanno votato per il remain, le campagne inglesi e il Galles — che non c’entrano nulla con quel formidabile hub di conoscenza, economia e finanza che è Londra — hanno manifestato (vincendo) un rimpianto per un mondo che non c’è più. Mi chiedo se abbia ancora un senso organizzare pensieri, opinioni, sistemi economici attorno a forme di Stato nate al tramonto della seconda guerra mondiale; molto più opportuno (e serio) sarebbe ammettere che la competizione si gioca sempre più a livello di grandi centri metropolitani che non possono essere considerati alla stregua di piacevoli e sereni pascoli. Altro che Europa a due velocità!
Una seconda riflessione riguarda invece il tema ricorrente della crescita del populismo che trova in Brexit un ulteriore acceleratore. Per quale motivo, ovunque si guardi, vincono movimenti dallo sguardo corto e dalle ricette impossibili ma allo stesso tempo passionali? Viene da dire, con Bogart: è internet bellezza! Da tempo il cambio di velocità dei media ha impresso una svolta alla logica dell’argomentare tutta a favore di una dimensione emotiva.
Con la crisi delle professioni e delle relazioni della mediazione, con l’affermarsi di un pur pallido (e quanto demagogicamente agitato) rapporto di democrazia diretta, con il moltiplicarsi dei protagonismi e della quotidianità, spesso insolente, del linguaggio si accendono i motori delle idee dallo «sguardo corto». È il trionfo del passa-parola, nemico — come si sa — di qualsiasi controllo serio della fonte (di ogni buon giornalismo) e amico della demolizione dell’identità delle persone.
Si afferma nei social la polemica «di pancia» che alimenta la vocazione all’identificazione emotiva ed al primato dell’appartenenza sull’intelligenza. La parola della politica sempre più spesso diviene la parola della «canaglia politica». E i politici — sempre più esposti ai venti (anzi ai post) degli elettori — tristemente si uniformano postando troppo spesso banalità il cui fine è la condivisione: naturalmente sui social network. Del resto la regola di Twitter induce all’aforisma (e assai pochi ne conoscono la luce).
Ne usciremo? Forse (e lo dobbiamo sperare). Ma occorre andare oltre la prospettiva dell’ipertesto, in profondità, dritti alle sfide che il mondo di oggi ci pone. Come regolare il pendolo democratico che oscilla tra la moderna città-Stato ed il «resto» del Paese? In Gran Bretagna come in Turchia.
Come ricostruire la pratica di una retorica perduta, intesa come il buon argomentare, contro la nuova sintassi dei nuovi media? E come non ricordarci che il Manifesto di Ventotene non nasce dalla cialtroneria «anonima» di quei navigatori ma dalla visione di tre persone straordinarie?