Corriere 6.7.16
Le scelte del popolo sovrano
di Angelo Panebianco
Lo
choc di Brexit ha innescato ovunque furiose discussioni sul valore e il
significato della democrazia. Ci si è chiesti se sia opportuno affidare
al «popolo» le decisioni più delicate. La discussione è divampata anche
da noi. Influenzata però dallo stato di precarietà e confusione in cui
da sempre versano in Italia le idee democratiche. Ricordiamoci che
questo è il Paese nel quale fior di opinionisti sono sempre stati pronti
a lodare il popolo, ad esaltarne la maturità democratica, quando esso
votava per la loro parte politica e, viceversa, ad accusarlo di
barbarie, di essere preda di nefande (e stupefacenti) «mutazioni
antropologiche» quando non lo faceva.
La discussione innescata da
Brexit su valore e limiti della democrazia è utile ma solo a patto di
sgombrare il campo da un equivoco. Quelli che si raccontano che il
popolo è troppo bue e ignorante per poter decidere alcunché di serio
(sottintendendo che loro non fanno parte del suddetto popolo), sono i
peggiori, i meno affidabili di tutti. Del resto, con le sciocchezze
dette e scritte dai colti, veri o presunti, sulle faccende pubbliche in
due secoli di storia della democrazia occidentale ci si potrebbe
riempire la Biblioteca del Congresso (che è uno spazio piuttosto ampio).
Il
tema dunque è: ha senso fare decidere il «popolo» (plurilaureati
compresi) sulle faccende pubbliche? Non sarebbe meglio, almeno in certi
frangenti, mettere da parte l’ambiguo mito della sovranità popolare?
P
er dare ordine a una discussione piuttosto confusa bisogna distinguere
fra i due significati della parola «democrazia». Stiamo parlando della
democrazia rappresentativa (l’elezione di rappresentanti a cui vengono
affidate le decisioni collettive) oppure della democrazia diretta (sono
gli elettori che prendono le decisioni collettive)? Democrazia
rappresentativa e democrazia diretta sono cose diversissime, modi
antitetici di governare la cosa pubblica. Con l’eccezione della piccola
Svizzera, con la sua particolare storia, in nessun Paese occidentale la
democrazia diretta ha un peso e un ruolo paragonabili a quello della
democrazia rappresentativa.
La democrazia rappresentativa, al di
là del mito, è il miglior meccanismo per contare le teste anziché
tagliarle, per assicurare ricambi pacifici nelle élite di governo. È uno
strumento, forse insuperabile, di risoluzione non violenta dei
conflitti politici. Non richiede da parte del cittadino-elettore
particolari competenze o conoscenze. Sono sufficienti il suo giudizio e
la sua percezione, giusta o sbagliata che sia, che i governanti in
carica meritino una riconferma o, quanto meno, una prova d’appello,
oppure che occorra sostituirli senza indugi con qualcun altro il quale
poi, a sua volta, dovrà essere messo alla prova. Il popolo non decide
sulle questioni pubbliche, fa una scelta fra coloro che, dicendo il vero
oppure millantando, asseriscono di sapere prendere decisioni sagge.
Nonostante
coloro che hanno sempre confuso la democrazia col socialismo, la
democrazia rappresentativa non richiede uguaglianza di reddito o di
livelli di istruzione. Richiede solo uguaglianza giuridica, uguaglianza
di fronte alla legge.
Impagabile strumento di risoluzione pacifica
dei conflitti, la democrazia rappresentativa ha anche un’altra virtù: è
il migliore habitat per la protezione delle libertà personali. In
teoria, quelle libertà potrebbero anche essere assicurate, entro certi
limiti, da un dispotismo illuminato e, inoltre, le democrazie corrono
sempre il rischio di degenerare, di diventare democrazie autoritarie.
Tuttavia, l’esperienza storica mostra che la democrazia rappresentativa
è, in genere, il miglior baluardo a difesa di quelle libertà.
La
democrazia diretta è un’altra cosa. Qui agli elettori è richiesto un
minimo di conoscenza delle poste in gioco. Ma ciò li consegna mani e
piedi ai vari gruppi di élite che hanno il potere di trasmettere tali
conoscenze. Ad esempio, il fatto che i laburisti britannici abbiano
fatto una campagna reticente e ambigua (e in vari luoghi del Paese,
probabilmente, nessuna campagna) in occasione del referendum, ha
comportato che certi elettori — più facilmente raggiungibili dai
laburisti che dai conservatori —, in alcune zone depresse della Gran
Bretagna, scegliessero Brexit senza neppure sapere quale fosse l’entità
dei finanziamenti europei a sostegno di quelle zone depresse.
Finanziamenti che, ovviamente, non arriveranno più. Forse è
effettivamente saggia la Costituzione italiana che vieta referendum su
trattati internazionali, leggi tributarie e di bilancio, amnistia e
indulto.
Ed è anche evidente che le varie utopie circolanti sulla
«democrazia del web», la democrazia diretta in salsa informatica, non
prefigurano chissà quali nuovi luminosi traguardi democratici ma incubi
totalitari ove il massimo di manipolazione del «popolo» da parte di
ristrettissimi gruppi si accompagnerebbe al massimo di retorica
sull’ormai raggiunto obiettivo della «vera democrazia».
Non è
contrario alla deontologia democratica sostenere che Cameron abbia fatto
un errore indicendo il referendum sull’Unione (anche se forse la
situazione del suo partito era tale che egli non aveva scelta). La
democrazia diretta non è la migliore risposta a problemi complessi,
anche se può essere un strumento assai utile quando si tratta di
decidere su temi relativamente circoscritti (come fu il caso del
divorzio in Italia). Sfortunatamente, il ricorso alla democrazia diretta
per fronteggiare problemi complessi segnala spesso un fallimento della
democrazia rappresentativa: è l’espediente a cui certi governanti
ricorrono quando il sistema rappresentativo non riesce a decidere. Un
espediente che a volte ha successo ma a volte aggrava il male.
Naturalmente, vanno esclusi da questo discorso i referendum
costituzionali. In questo caso, «l’appello al popolo», come insegna la
dottrina costituzionalista, serve a dare la più ampia legittimazione
alla nuova costituzione.
Non si devono commettere due errori.
Pensare che siccome solo in pochi, per ragioni di mestiere, sono
addentro ai problemi, hanno sufficienti conoscenze per farsi un quadro
abbastanza chiaro (ma mai completamente chiaro) delle varie poste in
gioco, allora tanto vale lasciarli decidere senza neppure controlli ex
post . Il secondo errore, se e quando la democrazia diretta dà esiti che
riteniamo insoddisfacenti, consiste nel gettare discredito anche sulla
preziosa democrazia rappresentativa.