Corriere 4.7.16
Nella scuola dei terroristi «Erano pieni di rabbia»
«Scholastica» è l’istituto superiore più prestigioso di Dacca. Qui hanno studiato almeno due degli attentatori
di Lorenzo Cremonesi
T
utti figli di «famiglie bene», diremmo in Italia. Giovani promesse
delle migliori scuole a Dacca, i cui genitori sono parte delle
avanguardie intellettuali del Bangladesh: docenti, alti funzionari dello
Stato, medici, politici. Studenti che negli ultimi due anni di liceo si
radicalizzano via Internet, trovano i loro nuovi «guru» tra i leader
locali e internazionali di Isis. Un mondo che per alcuni versi ricorda i
nichilisti russi dell’Ottocento o certi tra i terroristi europei «figli
di papà» degli anni Settanta. È il ritratto che emerge dalle biografie
del commando jihadista responsabile del massacro al bar-caffè Holey
Artisan Bakery venerdì sera al Gulshan 2, il quartiere più benestante
nella capitale del Bangladesh.
Sono stati per primi i giornalisti
locali a segnalare la «stranezza». «Pensavo che mi sarei imbattuto nelle
figure dei terroristi tradizionali. Da noi come in Pakistan o in
Afghanistan: bambini cresciuti tra le pieghe di povertà e conflitti,
spesso profughi, addirittura orfani abbandonati ed educati nelle
madrasse (le scuole religiose islamiche, ndr ) pagate con i fondi-carità
sauditi e dei Paesi del Golfo. Nel passato sono state la fucina di Al
Qaeda. E invece ho trovato i rampolli delle classi più abbienti. Mi
aspettavo di incontrare sottoproletari nutriti di Corano e fanatismo, ma
ho scoperto ragazzi che hanno studiato inglese e non sfigurerebbero in
un’università di Londra», sostiene Jihan Gir, reporter della maggiore
agenzia stampa di Dacca. Con lui ieri pomeriggio abbiamo visitato una
delle quattro sedi di «Scholastica», l’istituto superiore più
prestigioso della capitale, la cui filiale in Gulshan 2 è situata a soli
500 metri dalle transenne della polizia che bloccano l’accesso al
locale del massacro. «Pare che almeno due, e forse addirittura tre
componenti del commando terrorista abbiano studiato qui sino a due anni
fa — spiega —. La polizia sostiene di aver ucciso sei terroristi, uno
sarebbe stato catturato ferito, ma vivo, ora viene interrogato. Pare un
certo Tahmid. Ma non viene mostrata alcuna prova di ciò, se non alcuni
nomi molto rari nel nostro Paese: Akash, Don, Bikash, Ripon, Badhon»,
aggiunge. L’edificio è chiuso per le feste della settimana finale del
Ramadan. Appare però evidente che siamo di fronte ad una palazzina
solida, ben curata, con gli intonachi rifatti di fresco, le piante nel
giardino potate. «Qui abbiamo circa 750 allievi, ognuno paga una retta
pari a oltre 3 mila dollari all’anno, che nel nostro Paese sono un sacco
di soldi», dicono i guardiani.
Ancora più stupito nel vedere la
foto del 22enne Rohan Ibn Imtiaz tra le cinque apparse sulle
rivendicazioni di Isis via rete è un suo ex compagno di scuola. Non
vuole rivelare nulla della sua identità. E non è il solo. Tra i cinque o
sei studenti iscritti (o diplomati da poco) allo «Scholastica» che
abbiamo interpellato, nessun altro ha accettato di parlare. «Ovvio che
abbiamo paura. Voi all’estero non potete capire. Qui negli ultimi anni
sono stati barbaramente assassinati decine e decine di blogger,
scrittori, giornalisti laici. Ci conoscono tutti. Meglio non aggiungere
benzina al fuoco», si giustificano. E comunque il racconto per telefono
che ne fa l’ex compagno anonimo appare esaustivo. «Ricordo benissimo
Rohan, siamo stati nella stessa classe per cinque anni. Un tipo
riservato, calmo, sempre controllato. Non si eccitava neppure per lo
sport. Io sono indù, lui musulmano. Per tanti nostri compagni la cosa
era irrilevante. Ma per lui certo no. Apparteneva a quella categoria di
abitanti del Bangladesh che dividono il mondo tra amici e nemici, tra
musulmani e non musulmani». C’era nel suo comportamento qualche indizio
di fanatismo? Cosa può averlo spinto a sgozzare tanti civili stranieri e
poi battersi con la polizia sino alla morte? «Sinceramente no. Sono
rimasto assolutamente sbalordito. Ricordo che appariva come combattuto
da una tensione interiore, si controllava, ma sembrava come rabbioso,
offeso. Non so proprio per quale motivo però. La sua è una famiglia
ricca. Hanno una grande villa nel quartiere di Lalmatia. La madre,
Zabeen, indossa il velo, ma è anche docente di matematica allo
Scholastica. Una donna affabile, aperta, sempre pronta ad ascoltare. Il
padre è invece Imtiaz Khan Bablu, tra i massimi leader del partito di
governo, Lega Awami, e della municipalità nella capitale. A me fa paura
che un tipo come Rohan abbia scelto questa strada e con lui altri due
studenti dei nostri. Sono contento di aver scelto di continuare gli
studi a Londra. Qui il pensiero laico ha poche possibilità di successo.
Se i figli delle nostre élite diventano terroristi islamici significa
che è la fine di un progetto culturale». Verso sera proviamo a visitare
la casa della famiglia per cercare il padre. Era lui stesso ad avere
denunciato la sparizione del figlio il 30 dicembre scorso. Vorremmo
chiedergli se era a conoscenza delle scelte militanti del giovane. Ma
apre un parente che dice brevemente dalla porta socchiusa: «Non ci
interessa parlare, andate via. Il padre di Rohan in ogni caso è in
ospedale per un’operazione».
Una biografia molto simile è quella
di Mobbasher Hayat Mahmud, a sua volta 22enne ex allievo di
«Scholastica» e soprattutto figlio di un noto maggiore dell’esercito Mir
Hayat Kabir. Anche nel suo caso un rampollo dell’establishment.
«Finalmente la verità sta venendo a galla. Speriamo che almeno il
massacro degli stranieri qui a Dacca sia utile per far squillare
seriamente il campanello d’allarme. Occorre capire che Isis sta
monopolizzando le menti e i cuori delle giovani generazioni scolarizzate
nel nostro Paese. Pensavamo che sarebbe stato vero il contrario, che la
buona scuola sia condizione necessaria e sufficiente per tenere lontano
il terrorismo. Ma non è affatto così», afferma Mohammad Noor Khan, 55
anni, esperto di estremismo islamico. Lo incontriamo ormai a sera
avanzata. Presso il luogo del massacro si è raccolta una piccola folla:
candele, fiori, lettere di condoglianze con i nomi delle vittime
italiane bene in vista. Oggi è prevista una manifestazione di
solidarietà. Ai rari visitatori italiani la gente offre timidi sorrisi,
parole di conforto. Tre giovani tedeschi recitano una breve preghiera
con gli occhi arrossati, quindi spariscono nel traffico a bordo di un
potente gippone.
Anche Noor Khan offre il suo contributo e insiste
sulla gravità del «fenomeno Isis via Internet». Tutto ciò, nonostante
la polizia locale torni a insistere sulla «estraneità» degli attentatori
con Isis.
Spiega: «Da sempre i giovani cercano soluzioni radicali
alle situazioni di crisi. In Bangladesh imperano corruzione,
disoccupazione, povertà e rifiuto della classe politica. Risultato:
Isis, nato e cresciuto all’estero, diventa l’alternativa totale e
gratificante per chiunque cerchi azioni rapide. Un movimento radicale
come lo Jamat Ulmujaheddin Bangladesh, che prima si limitava alle
rivendicazioni localistiche, si coniuga ormai con il Califfato via rete.
Gli scritti di un leader storico come Abdel Rachman, impiccato dalla
polizia nel 2006, vengono rilanciati sui blog con l’aggiunta del marchio
di Isis. Lo stesso vale per il Maolana Jassim Uddin, che pure si trova
in carcere. Così la tradizione dell’Islam radicale, parte integrante
della lunga storia dei nostri difficili rapporti con India e Pakistan,
torna ad essere attuale, pericolosa».