Corriere 2.7.16
Guntram Wolff, economista, è il direttore
dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, e uno dei più autorevoli osservatori
di cose europee:
«Attenzione, c’è il rigetto di tutto l’establishment politico»
Prima la Brexit, poi l’annuncio del secondo voto in Austria, subito dopo l’estate. Che cosa rischia l’Unione Europea?
intervista di Luigi Offeddu
«In
molti Paesi c’è una sensazione generale: il rigetto di ogni
establishment politico. E questa è una minaccia presente non solo in
Europa, ma in tutto il mondo occidentale, anche negli Usa con la
possibile vittoria di Donald Trump».
Guntram Wolff, economista, è
il direttore dell’Istituto Bruegel di Bruxelles, e uno dei più
autorevoli osservatori di cose europee: l’Ecofin o i Parlamenti tedesco,
inglese e francese come quello Ue lo chiamano spesso per ascoltare i
suoi pareri.
Come può reagire l’Ue a questa minaccia?
«Deve
dimostrare i suoi valori, e questo non può essere fatto soltanto con
fatti economici. L’Ue deve mostrare che sa affrontare meglio problemi
concreti e attuali come l’immigrazione, il controllo delle frontiere, la
disoccupazione, i fondi europei. Deve raggiungere il cuore della gente,
saperle parlare. Ci vuole più leadership, ci vuole una miglior
comunicazione».
E sul piano economico?
«È necessario subito
uno stimolo agli investimenti pubblici, pari all’1-2% del Pil nel Nord
Europa, per esempio in Germania, Francia, Olanda. E allo 0,5-1% al Sud,
per esempio in Italia».
A proposito dell’Italia, che cosa può o deve fare a sua volta?
«Qualcosa
di assolutamente imperativo: risolvere i suoi problemi nel sistema
delle banche, ripulirlo. Pena conseguenze negative per l’economia, o
l’occupazione. Poi, il problema fondamentale da 20 anni, quello della
crescita: il sistema dei salari non è adattato allo sviluppo della
produttività. Ma se non si risolvono i problemi della corruzione e del
crimine organizzato, specie al Sud, laggiù il problema resterà».
Torniamo all’Ue. Per qualcuno quest’ultima è una sfida più grande di quella portata dalla caduta del Muro…
«Forse.
Una cosa è certa: la crisi del 2008, la cui minaccia immediata è stata
superata, colpì l’establishment economico; questa volta, come si diceva,
c’è il rigetto di quello politico… Eppure, razionalmente l’Ue è una
parte della soluzione del problema: per esempio, se non ci fosse l’Ue,
l’immigrazione verrebbe affrontata meglio? Io non credo proprio, tutto
sarebbe anzi più difficile».
Questa crisi ci ha insegnato comunque qualcosa, ci sono dei casi esemplari da tener presenti, in positivo o in negativo?
«Certo.
Guardiamo per esempio alla Gran Bretagna: le regioni che pochi giorni
fa più hanno sostenuto la scelta della Brexit, l’addio all’Unione, sono
state quelle colpite economicamente per vent’anni dal declino
industriale. Mentre in Germania la Ruhr, regione delle miniere e
dell’acciaio che da ragazzo io ricordo anch’essa colpita da una pesante
crisi, si è reinventata: lo ha fatto con la cultura, con le industrie
creative, e oggi possiamo dire che è una regione relativamente a posto».