Corriere 20.7.16
Il doppio volto del terrore
di Stefano Montefiori
In
coda all’aeroporto o seduti in metropolitana, per gioco macabro o vera
ansia, molti si saranno chiesti almeno una volta: chi ha il volto
dell’attentatore? Chi potrebbe farsi esplodere, o tirare fuori un
coltello? Il pregiudizio indurrebbe a fissare lo sguardo sul devoto in
djellaba e barba sul mento, segni visibili di lunga e convinta
appartenenza religiosa islamica. Ma sul treno in Germania a colpire è un
17enne autoradicalizzato di recente, e a Nizza il tir lo ha guidato «il
George Clooney del quartiere», come i vicini chiamavano l’assassino:
sorriso da attore, fisico scolpito in palestra, dedito all’alcol, al
sesso con uomini e donne, mai andato in moschea. Sull’orlo della follia,
ma reclutato in extremis da uno jihadista algerino dell’Isis.
Terrorista islamico, quindi, anche lui.
Gli orrori di questi
giorni mostrano che esiste il terrorismo dell’Isis, ma non un unico
profilo religioso, etnico, culturale, e poi operativo dei suoi adepti.
La minaccia quindi è ancora più grave. Per affrontarla, due posizioni —
ugualmente ideologiche — si sono ormai cristallizzate da anni: un campo
tende a sminuire il ruolo dell’Islam, connotato in modo sbrigativo come
«religione di pace»; l’altro individua nel Corano i germi di una
inevitabile violenza, e accusa di cecità e sottomissione chiunque provi a
distinguere tra musulmani e fondamentalisti predestinati al terrorismo.
«Benpensanti» contro «islamofobi», secondo il lessico delle accuse
reciproche.
G li eventi sembrano dimostrare che entrambe le
griglie non funzionano. Se l’obiettivo è capire il rapporto tra
religione islamica e radicalismo islamista, bisogna provare a mettere
insieme i fatti, senza processi alle intenzioni. La storia personale di
Mohamed Bouhlel, l’attentatore di Nizza, è importante e va raccontata
non perché qualcuno potrebbe usarla per assolvere l’Islam incolpando la
malattia mentale (poveri malati mentali, tra l’altro), ma perché mostra
chi sono i nemici che abbiamo di fronte.
L’Isis si avvale — lo ha
sempre fatto ma adesso appare più chiaro — di chiunque sia utile ai suoi
scopi. Esseri umani lucidi e determinati, così come personalità
disturbate e ingestibili. Ubriaconi e delinquenti, magari rapper amanti
della musica tanto odiata dai predicatori salafiti, così come fedeli
ligi ai precetti delle cinque preghiere e del Ramadan. E bisessuali, che
l’organizzazione accoglie come suoi «soldati» a Orlando e Nizza con
solennità postuma mentre a Raqqa, capitale del Califfato, verrebbero
fatti volare giù da un palazzo per punizione.
È terrorismo
islamico quello del 13 novembre a Parigi: un’azione coordinata e
complessa, ideata in Siria e portata a termine da combattenti
addestrati. Ed è terrorismo islamico pure quello del 14 luglio, un
camion di 19 tonnellate che piomba sul lungomare di Nizza. Il fatto che
l’attentatore fosse un 31enne con problemi psichici che si è
radicalizzato — o meglio convertito — all’improvviso non toglie nulla al
carattere terroristico, ideologico e politico del suo gesto: ha
compiuto un’azione invocata già dal settembre 2014, e rivendicata
adesso, dallo Stato islamico.
Mohamed Bouhlel può non essere mai
andato in moschea in vita sua, ma l’Isis è stato comunque in grado di
orientare la sua conversione e dargli la copertura morale per la
carneficina della Promenade des Anglais. E non importa se sia
«artigianale», dipinta a mano, la bandiera dello Stato islamico trovata a
casa del ragazzo afghano autore due sere fa dell’assalto sul treno in
Germania. Quel simbolo gli ha fornito comunque la forza per calare
l’accetta sui passeggeri.
Il punto è che la propaganda dell’Isis è
efficace quale che sia il percorso religioso e culturale dei suoi
seguaci. Anzi, prolifera soprattutto tra quanti, nelle giovani
generazioni, hanno abbandonato l’Islam dei padri. L’Isis arriva a
colmare un vuoto, e fa presa persino su tanti europei che si sono
formati lontano dall’Islam. I famosi convertiti rappresenterebbero circa
il 20 per cento dei combattenti stranieri nel Califfato. Tra loro c’è
Maxime Hauchard, un ragazzo dai lineamenti delicati e gli occhi azzurri,
nato e cresciuto non nelle «banlieue degradate», come si è soliti dire,
ma in una famiglia cattolica del piccolo villaggio di Bosc Roger en
Roumois, tra le mucche e i cavalli della Normandia, e finito poi a
tagliare teste in Siria con il nome di Al Faransi («il francese»).
Certe
volte i predicatori islamici preparano il terreno per il passaggio alla
jihad. Più spesso la stessa religione — l’Islam — serve da argine,
riesce a trattenere giovani che altrimenti sarebbero tentati dall’Isis
come da una setta. Per questo lo Stato islamico tende a disprezzare i
musulmani che continuano a vivere in Europa (nella terra dei
«miscredenti»): spesso sono di cultura islamica ma ormai secolarizzati,
quindi — nell’ottica del Califfato — vicini all’apostasia meritevole
della morte. Oppure, se religiosi praticanti, i musulmani europei
restano in maggioranza fedeli a un Islam tradizionale che non ha la
portata rivoluzionaria auspicata dallo Stato islamico. L’Isis sospetta i
musulmani europei di connivenza con il nemico, teorizza che siano
vittime collaterali sacrificabili, e a Nizza lo ha messo in pratica.
Attribuire
al terrorismo islamico gli attentati compiuti da individui con scarsi
legami organici con l’Isis non significa essere «islamofobi». Segnalare
il rapporto spesso conflittuale tra religione islamica e radicalismo
islamista non è una tesi da «benpensanti» che non vogliono aprire gli
occhi. Le due realtà convivono. Lo dimostra l’attentato del 14 luglio a
Nizza: sulle 84 vittime del terrorismo islamico dell’Isis, oltre trenta
sono musulmane .