venerdì 1 luglio 2016

Corriere 1.7.16
Cinesi d’Italia, cosa nasconde la rivolta
Sfruttati come schiavi
in ditte che hanno spazzato via le imprese italiane
Il ruolo del carabiniere che tenta di mediare
Dopo gli incidenti a Sesto Fiorentino. Regole violate dalle aziende e dialogo a rischio
Quei giovani lavoratori arrabbiati e il rischio che si fermi il dialogo
di Dario Di Vico

Notte di guerriglia a Sesto Fiorentino tra la comunità cinese e le forze dell’ordine. A scatenare la rivolta l’ispezione della Asl in un’azienda. Gli scontri hanno provocato due arresti. Il sindaco di Firenze Nardella ha ribadito che non saranno permesse zone franche. Manifestazioni di protesta davanti al Palazzo di Giustizia e alla sede del consolato cinese: «Vogliamo più Stato ma non solo per essere multati».
È difficile dare il giusto peso a quanto è accaduto mercoledì a Sesto Fiorentino. Una contrapposizione così radicale tra la comunità cinese e le forze dell’ordine italiane non si era vista nemmeno nella vicina Prato, una delle maggiori Chinatown d’Europa, dove pure negli anni scorsi i controlli nei confronti delle ditte asiatiche venivano condotti con ampio spiegamento di mezzi e persino con l’appoggio di elicotteri. È chiaro che il problema di fondo non è stato risolto né a Sesto né altrove e il modello di business delle aziende cinesi non è facilmente emendabile. La competitività è ottenuta con lo sfruttamento dei connazionali, nessun diritto riconosciuto e la violazione pressoché sistematica delle norme di sicurezza. Gli operai e i giovani che si sono radunati minacciosi nella contrada di Osmannoro e hanno sventolato la bandiera di Pechino sono però insieme «vittime e carnefici». Vittime perché lavorano come schiavi, carnefici perché quel dumping sociale è servito alle loro aziende per spazzar via dal mercato una porzione significativa del sistema delle Pmi italiane. Non si contano più gli oggetti che ormai sono prodotti solo dai cinesi perché le nostre micro-imprese non riuscirebbero a tenere quei prezzi neanche a morire. Ma il rischio della notte di Sesto è che si interrompa il dialogo tra comunità che ha visto protagoniste le seconde generazioni cinesi, capaci di spiegare la discontinuità dei loro comportamenti ai tradizionalissimi genitori e abili nell’intessere relazioni con la democrazia italiana. Il carabiniere italiano di origini cinesi che nella foto prova a ristabilire la ragione e ad evitare il peggio a Sesto è anch’esso l’emblema di questo processo e mostra la forza genuina dei personaggi del grande cinema neorealista.
La lunga notte fiorentina cade anche in un momento in cui abbiamo in testa le riflessioni sulla working class inglese che votato contro la Ue perché si considera tra gli sconfitti della globalizzazione. Lo ha scritto ieri Gordon Brown nell’articolo pubblicato sul Corriere parlando delle città industriali che si sono svuotate per il crollo dell’industria manifatturiera causato dalla concorrenza asiatica e della conseguente crisi di identità di «una quota sproporzionata di lavoratori semi-qualificati». C’è un elefante nella stanza, sostiene Brown, ed è proprio la globalizzazione.
In Italia il rendiconto delle conseguenze del mondialismo è più complicato. Le disuguaglianze macroscopiche riguardano i giovani e il Sud e sono figlie delle strozzature della nostra struttura economico-sociale, non possiamo metterle nel conto della globalizzazione. Gli effetti negativi di quest’ultima, come già detto, si sono scaricati per lo più sulle Pmi e naturalmente sui loro addetti ma non esiste il fenomeno di una classe operaia no-global. In più lo sviluppo del commercio internazionale ha consentito a centinaia di medie imprese italiane di mettere l’export al centro dei propri piani aziendali e il successo di quest’operazione ci ha salvato la pelle durante i lunghi sette ani della Grande Crisi.
Non per questo però il tema della concorrenza sleale dei cinesi è da derubricare. Anzi, è stata proprio la Confindustria a sostenere con maggior intensità la posizione contraria al riconoscimento europeo della Cina come economia di mercato, votata poi dal Parlamento di Strasburgo. La ratio di questa battaglia è fin troppo chiara: l’economia ha bisogno di regole e proprio l’adozione di norme riconosciute ad Ovest come ad Est può servire (anche) ad evitare che si allarghi nella società occidentale la platea di coloro che, forse solo come percezione, si considerano «gli sconfitti della globalizzazione».
Ma per essere onesti fino in fondo noi italiani dobbiamo sapere che il momento nel quale mettiamo nel mirino la concorrenza sleale asiatica è lo stesso che ci vede come il maggior destinatario degli investimenti diretti di Pechino in Europa. Lo testimoniano l’acquisizione della Pirelli da parte della ChemChina, la più grande operazione industriale condotta in porto nel Vecchio Continente, e la parallela conquista da parte di cordate asiatiche di entrambe le squadre milanesi. Sapremo salvare capra e cavoli, ovvero difendere il valore delle regole e continuare ad attrarre i capitali cinesi? Converrebbe a tutti .