lunedì 18 luglio 2016

Corriere 18.7.16
I molti capogiri della democrazia
di Luigi Ferrarella

Il regime di Erdogan è forse legittimo perché per difenderlo venerdì si sono mobilitati i muezzin e in strada sono scese migliaia di persone?
Da Londra la Brexit fa la domanda e, in assenza di risposte, dalla Turchia la ripropone l’apparente tentato golpe. Sembrano, e ovviamente sono, eventi diversissimi tra loro. Accomunati, però, dal marcare un’estate 2016 che passerà alla storia come quella che ha messo in tensione, fin quasi a strapparlo in qualche punto, il tessuto del concetto di democrazia.
Con il referendum inglese vinto da 17,4 milioni di fautori dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea contro 16,1 milioni di contrari, i destini di un intero continente e gli interessi di 508 milioni di cittadini dell’Unione Europea sono stati stravolti dalla scelta di una ultraminoranza nella Ue, nel contempo però maggioranza relativa di una libera consultazione diretta convocata dal premier del proprio Paese e risoltasi sul filo del 51,9 contro il 48,1 per cento. E il margine risicato, l’abbuffata di bugie e dati falsi che (specie sull’immigrazione) hanno alimentato la campagna referendaria, il quasi-pentimento del giorno dopo, e in precedenza la sensazione (e a volte l’esplicita dichiarazione) di un voto non consapevole sul merito ma ritorsivo in chiave di politica interna, sono stati tali da ridare persino un qualche fiato alle teorie che vorrebbero «pesare» i distillati diritti di voto dei supposti «saggi», anziché «contare» i diritti universali di voto degli asseriti «ignoranti».
Ora arriva il tentato golpe turco. Di un regime che non ha certo cominciato adesso a fare piazza pulita degli oppositori, a chiudere i giornali sgraditi, a buttare in galera avvocati e giornalisti, e che con l’occasione o il pretesto di un tentato golpe incarcera due giudici costituzionali con 58 membri del Consiglio di Stato, rimuove altri 2.745 magistrati e ne arresta già 456, solitamente nessuna Cancelleria occidentale saluterebbe «il ripristino delle istituzioni democratiche». E invece è quello che succede al regime di Erdogan. Dipende forse dal fatto che lo si ritenga legittimo in quanto frutto di votazioni (relativamente) libere e regolari? Se fosse questo il criterio, allora non soltanto ci sarebbe da camminare sulle uova nel giudicare ad esempio gli atteggiamenti verso gli interventi militari in Egitto nell’altalena Mubarak-Morsi-Al Sisi dal 2011 a oggi; ma bisognerebbe spiegare perché nel 1992 furono salutati con favore i militari che in Algeria cancellarono con un sanguinoso colpo di Stato il successo del Fronte islamico di salvezza che aveva appena vinto le elezioni amministrative e il primo turno di quelle politiche, strappo che poi per anni ha gettato benzina sul fuoco del terrorismo di matrice estremista islamica. Senza contare che l’esclusivo parametro della legittimità elettorale finirebbe con il definire ed esaurire una democrazia soltanto nel suo momento genetico nelle urne, e non anche nel successivo rispetto delle regole (poste a presidio delle minoranze) da parte delle maggioranze uscite dal voto: quasi che la democrazia fosse solo un lancio di dadi non truccati sul tavolo verde delle elezioni, e poi però lasciasse ai vincitori mano libera sulla sorte successiva dei birilli collocati su quel tavolo da un (più o meno) regolare voto.
Il regime di Erdogan è invece forse legittimo perché per difenderlo venerdì notte si sono mobilitati i muezzin dalle moschee, e in strada sono scese migliaia di persone? Se questo fosse il criterio, allora non si capirebbe perché le coalizioni internazionali siano andate a militarmente rovesciare dittatori, come Saddam in Iraq e Gheddafi in Libia, che all’inizio delle loro parabole, e in parte ancora persino al crepuscolo dei bombardamenti dei loro Paesi, godevano del sostegno esplicito di consistenti settori delle loro popolazioni.
Più sincero suona l’argomento della «realpolitik»: la Turchia è dopo gli Stati Uniti il secondo più importante esercito della Nato, è (al netto di tutte le sue ambiguità con lo Stato Islamico) un bastione della guerra al terrorismo, da una base turca partono per la Siria i bombardieri dell’alleanza; e dando ad Ankara sei miliardi di euro, l’Europa ha appena concluso un accordo (che grida vendetta per quanto straccia il diritto internazionale sui profughi) volto a fermare la partenza dei migranti verso la Grecia e a tenerne parcheggiati nei campi turchi due milioni e settecentomila.
La «realpolitik» è un argomento che può anche avere una sua (per quanto spregiudicata) dignità. A condizione che non lo si condisca con la retorica del «rispetto delle istituzioni democratiche», per giunta magari nel medesimo momento in cui dopo ogni strage terroristica si leva l’altro coro retorico: quello secondo il quale l’Occidente dovrebbe con maggiore decisione riconoscere la ragione per cui è odiato dai jihadisti, e quindi difendere con i denti i valori delle proprie democrazie presi d’assalto dai camion rivolti contro i passanti, dagli aerei lanciati contro i grattacieli, dalle bombe messe sui treni e nelle metropolitane. Ma se facciamo fatica a «crederci» per davvero noi, perché mai dovrebbero «crederci» i terroristi?