lunedì 18 luglio 2016

Corriere 18.7.16
I giovani perduti di Gezi Park
di Sara Gandolfi

Il Sultano ha riconquistato piazza Taksim. Da tempo non la si vedeva così piena di manifestanti e di eccitazione. Dall’epoca dei sit-in di Gezi Park, quando milioni di giovani e meno giovani scesero per la prima volta in strada, uniti da un ideale — fermare le ruspe di Erdogan — e da molto altro ancora. Questo fine settimana il popolo della piazza non era lo stesso. Il perché lo spiega Veli U., 30 anni, sales planner : «Festeggiano la vittoria, ma che vittoria è? Quella di venerdì scorso è stata una notte piena di crudeltà, la democrazia non può vincere con la violenza. Ora Erdogan è più forte di prima e questa forza è la vera minaccia per la democrazia turca».
Non è facile, oggi, parlare con chi tre anni fa osò sfidare il governo. Hanno paura di ritorsioni, chiedono di non scrivere il cognome, molti sono andati all’estero — come lo «standing man» Erdem Gündüz, divenuto il simbolo del movimento di protesta, che ora vive in Norvegia — altri, la stragrande maggioranza, si sono ritirati nell’ombra. «È troppo pericoloso esporsi», spiega Furkam, studente di medicina.
È rimasto poco di quella protesta oceanica, iniziata con un sit-in di una cinquantina di persone contro la costruzione di un mega-centro commerciale, all’interno di una finta caserma ottomana. Finì in un bagno di sangue: 11 morti, oltre ottomila feriti, cinquemila arrestati in tutto il Paese. «Volevamo più diritti civili, oggi ne abbiamo meno di allora. Sì, è stato un fallimento», riconosce Veli.
Un anno fa sono stati assolti i 26 portavoce della Piattaforma Taksim, che rischiavano pesanti condanne per «appartenenza ad un’organizzazione criminale». Fra di loro, l’architetta Mucella Yanici, che è ancora molto attiva su twitter ma è assai più prudente: «Dobbiamo essere calmi ora, né colpi di Stato né dittatura o fascismi. Nessuno di questi vincerà, l’umanità e la pace vinceranno», assicura.
Berfin Y., ingegnere che ai tempi frequentava l’università, è meno ottimista. Ci mostra l’sms che le è arrivato l’altro giorno: un invito a «manifestare per la democrazia», firmato dal governo della Turchia. «Non so come abbiano avuto il mio numero — dice —. Ci chiamavano terroristi perché scendevamo in piazza, spontaneamente, ora loro spingono la gente in strada a manifestare. Che ironia!».
Nessuno degli ex «indignati» turchi è favorevole al golpe — «la democrazia non è quello» — ma il futuro che si profila è altrettanto buio. Per avere informazioni, dicono in coro, usano solo twitter su cui si scambiano «tutto quello che non passa più sui nostri giornali e telegiornali».
Mostrano le foto di soldati poco più che adolescenti, forse di leva, pestati sul ponte del Bosforo. «La polizia ha permesso ai sostenitori di Erdogan di picchiarli selvaggiamente. È l’esercito privato dell’Akp (il partito del presidente, ndr), e li chiamano “protettori della democrazia”».
I sit-in del Gezi Park sono un sogno lontano. «I nostri genitori all’inizio avevano paura: loro avevano vissuto il golpe del 1980 e volevano proteggerci, per questo la nostra è stata a lungo una generazione apolitica — spiega Boris Kaleoglu, 26 anni —. Ma a Gezi Park abbiamo scoperto il nostro potere e quello dei social network. I nostri genitori sono cambiati assieme a noi: ricordo che mia madre un giorno mi inseguì sul pianerottolo per darmi dei limoni, “così il gas al peperoncino non ti brucerà gli occhi”».
Poi sono arrivati i violenti, gli infiltrati, i morti. Un paio di settimane fa, Erdogan è tornato a parlare di Gezi Park, rilanciando il progetto: «Dobbiamo essere coraggiosi», ha detto. Online è scattata la risposta di ciò che resta di Taksim Solidarity, la sigla-ombrello del 2013: «Noi siamo ancora qui. E se loro vogliono tornare a tagliare gli alberi e occupare Gezi avranno bisogno di molte più ruspe per spostarci».
Stavolta, probabilmente, pochi risponderanno all’appello. «Soprattutto ora, dopo il tentato golpe, non sarà più possibile un altro Gezi Park. Mezza Turchia sarebbe contro di noi — conclude Boris —. Era così anche allora ma oggi la violenza è accettata, normale». Una dittatura? Qualcuno, in silenzio, annuisce chinando il capo.