Corriere 17.7.16
Jihadismo e follia
L’analisi francese sui foreign fighter dice che uno su 10 è schizofrenico
di Alessandra Coppola e Guido Olimpio
L’analisi francese sui foreign fighter dice che uno su 10 è schizofrenico
E chi non va in Siria viene riciclato dai predicatori radicali come lupo solitario
T
ra la follia e il jihadismo a volte un legame c’è. Non è solo storia
tragica di questi giorni, ma si rintraccia nelle analisi che gli
investigatori di Parigi già da qualche mese hanno elaborato, soprattutto
sulla base delle copiose indagini sui «foreign fighters» francesi: il
10 per cento di chi è partito per la Siria o per l’Iraq è schizofrenico.
Uno su dieci.
La diagnosi si associa spesso a quella degli
assassini di massa americani, e infatti gli studi degli inquirenti
europei (sostenuti dalle valutazioni di molti psicologi) si stanno
indirizzando apertamente in quella direzione. Profili criminali che si
incrociano. Si tratta di individui isolati sul piano psicologico,
«perdenti» nel contesto sociale, con una vita familiare spesso
turbolenta o precaria, segnata da fratture profonde (un divorzio
doloroso, un licenziamento inatteso, il rifiuto di un prestito o ancora
una questione burocratica inceppata).
La valvola di sfogo può
essere l’Islam radicale. Alle prese con problemi personali ed economici,
questi individui sublimano i propri guai nella causa fondamentalista,
trovando nell’Isis un’organizzazione che non si pone problemi ad
accettarli. Non tutti diventano combattenti al fronte, però. Chi non
riesce a partire per il Medio Oriente può essere facilmente «riciclato»:
sono i «lupi solitari» incoraggiati all’azione nei Paesi in cui si
trovano. Non sono in grado di raggiungere il Medio Oriente, ma sono
capaci di aprire il fuoco in una discoteca o di salire su un camion per
fare una carneficina. Gli attentatori — vale per Bouhlel a Nizza o per
Omar Mateen che ha fatto strage a Orlando, per esempio — si considerano
«vittime di ingiustizie», vere, presunte o inesistenti. Ciò che conta è
la loro percezione. Si sentono minacciati, in guerra con il prossimo,
per cui pensano che il gesto estremo possa gratificarli. E anche
redimerli.
Se fossero laici, si toglierebbero la vita. Cresciuti
da islamici, invece, benché spesso ignoranti della propria religione,
attratti dalle promesse di «gloria» dei predicatori radicali (in carne e
ossa o più spesso sul web) cercano un’uscita di scena da «martire» e
imitano — il punto è qui — gli attentatori suicidi. In questo modo, il
proprio nome non sarà associato a un solitario atto di follia, destinato
a essere presto dimenticato, bensì all’attacco di un’organizzazione
famosa come lo Stato Islamico o Al Qaeda. In questo modo, inoltre, la
vita precedente di peccati e fallimenti viene «purificata» e
riabilitata.
Mohamed Lahouaiej Bouhlel, in realtà, solo dopo il
massacro sulla Promenade è diventato «un soldato del Califfato». Fino al
giorno prima, era un autista introverso e solitario, allontanato dalla
moglie, evitato dai vicini. Il suo percorso ricorda di nuovo quello dei
«mass shooter» statunitensi che per lungo tempo macerano nei propri
tormenti, simulano una vita anonima e innocua. Poi all’improvviso una
scintilla, una situazione contingente che accende la miccia e li
trasforma in bombe. C’è un’evidente sovrapposizione tra le due realtà:
la prima appartiene al privato, la seconda arriva quando scoprono
l’impegno politico. In questa ultima veloce fase, il killer sceglie il
movente che preferisce per giustificare la sua follia.
L’analisi
degli investigatori francesi si è allargata anche ai jihadisti che
restano all’interno dei confini, soprattutto dopo tre episodi. Il primo a
Digione, nel dicembre 2014: un uomo, allora definito «squilibrato», al
grido di Allah Akbar investì con la sua auto 11 persone, ferendole.
Storia minore, ma che andrebbe rivista sotto una lente diversa. Il
secondo, più conosciuto, nel giugno 2015: Yassin Salih decapitò il suo
datore di lavoro nell’Isère, si scattò un selfie con la testa mozzata e
inviò l’immagine a un militante jihadista. Un uomo disturbato che
scimmiotta gli orrori dello Stato Islamico e fornisce spiegazioni
confuse. L’ultimo a gennaio di quest’anno, protagonista Tarek Belgacem,
ucciso dalla polizia a Parigi dopo aver cercato di aggredire gli agenti
con un coltello: indossava una finta fascia da kamikaze e portava un
messaggio di rivendicazione per conto dello Stato Islamico, che s’era
scritto da solo .