Corriere 15.7.16
Il tunisino era in Francia dal 2011. Precedenti penali, ma nessuna segnalazione all’antiterrorismo. Interrogata la moglie
Il killer
Violento, depresso e pieno di debiti così Mohamed ha trasformato i suoi demoni nell’orrore omicida
di Carlo Bonini
NIZZA.
Chi era davvero Mohamed Lahouaiej Bouhlel? Quale demone ha trascinato
questo giovane uomo nato il 31 gennaio del 1985 a Msaken, periferia
della tunisina Sousse, al volante di un Tir bianco per farne il nuovo
osceno detentore del trofeo di vite umane cancellate da un solo uomo, in
un solo luogo, in un solo momento? Dove, insomma, in questo orrore,
finiscono la sociopatia e la deriva psicotica e cominciano la religione,
il culto mortifero e macabro della parola del Profeta? Oggi, del
passato di un uomo che sembra non averne, neppure negli archivi
dell’Intelligence per i quali era «un assoluto sconosciuto » , resta
un’unica traccia. Nei cinque chilometri e mezzo di strade a gomito che,
come una mezza luna, collegano una stamberga al primo piano di Route de
Turin, nel quadrante orientale della città, ai dodici piani del
falansterio all’8 di Boulevard Henri Sappia, quartiere popolare
aggrappato alla collina che guarda la vecchia Nizza e che è tagliato
dall’autostrada A8.
In Route de Turin, un anno e mezzo fa, era finito
spiaggiato da debiti e pendenze giudiziarie l’uomo che si sarebbe fatto
mostro. In Boulevard Henri Sappia, era naufragato in un abisso di
collera e violenza il ragazzo padre di tre figli piccoli incapace di
tenere insieme il matrimonio con una giovane moglie franco-tunisina,
ieri interrogata, che diceva di amare e per la quale, con la contrarietà
del padre, un islamista radicale, era arrivato a Nizza dalla Tunisia
nel 2011.
Rashid, un maschietto di 14 anni con la maglia del Paris
Saint-Germain, indica la porta di legno leggero che affaccia su un
lercio pianerottolo al dodicesimo piano del blocco “Bretagne C” in
Boulevard Henri Sappia. Esattamente in cima a un’ultima rampa di scale
dal corrimano laccato rosso. Rashid spiega di ricordarle ancora le grida
di Mohamed. Quasi quanto i suoi muscoli, coltivati ossessivamente in
palestra. «Picchiava la moglie. La picchiava spesso. Urlava. Soprattutto
nell’ultimo periodo, prima di separarsi». Già, quel giorno, quello in
cui si richiuse la porta alle spalle, imbrattò della sua merda
l’appartamento, defecando dove poteva e fin quando non ne ebbe più.
Quindi, squartò con un coltello gli orsacchiotti di pelouche della
figlia più piccola, per poi fare a pezzi i materassi del suo letto
matrimoniale e quelli dei suoi bambini. Poi sparì. Salvo cominciare a
ripresentarsi saltuariamente con i modi e il fare gentile del padre
separato che viene a trovare i suoi figli in attesa della sentenza di
divorzio. Maxim, un condomino sulla quarantina, ne parla accarezzando la
testa dei suoi due bambini maschi. «Mohamed? Certo che lo conoscevo.
Parlavamo spesso della scuola dei suoi e dei miei ragazzi. E posso dirti
che quello che ha fatto alla Promenade con la religione e l’Islam non
c’entra nulla. Se proprio dovessi dire, aveva un solo problema.
Finanziario. Negli ultimi tempi se la passava male. Insomma, Mohamed
beveva, non rispettava il Ramadan. Gli piaceva andare a ballare la
salsa. Era sempre profumato» . Né si vedeva mai in moschea, a sentire la
locale “Association culturelle Nice nord” per l’integrazione religiosa e
razziale. Un luogo non lontanto da boulevard Henri Sappia, dove Mohamed
era conosciuto. Ma proprio per l’assenza di qualsiasi passione che
ricordasse la sua fede, piuttosto che la sua terra di origine.
Un
musulmano secolarizzato, insomma. Che aveva trovato un lavoro saltuario
da autista e, qualche mese fa, aveva ottenuto l’abilitazione alla guida
di mezzi pesanti. Un depresso che alternava picchi di gentile e sincera
euforia a scostanti silenzi, a scoppi di collera incontenibile e
violenta. Come quello che, il 24 marzo scorso, gli era valso una
condanna sospesa a sei mesi di reclusione per lesioni, dopo aver
gonfiato con una mazza da baseball due fratelli per un banale
tamponamento. Come quelli per cui si era fatto notare dai suoi nuovi
vicini di casa, al primo piano di Route de Turin, il suo ultimo
domicilio, quello sfondato dai piedi di porco della polizia giudiziaria
ieri mattina. E dove, a un certo punto, si era informato se fosse
possibile “affittare” una seconda buca delle lettere. Dio solo sa
perché. Anche se un perché, evidentemente, doveva esserci.
Fonti di
polizia e intelligence sostengono che dalla casa di Route de Turin,
insieme a un computer portatile e uno scatolone di carte, siano usciti
indizi che fanno dire al primo ministro Manuel Valls che la storia di
Mohamed non sia solo affare psichiatrico. Che c’entri l’islamismo
radicale in questo orrore. Che i legami tra Mohamed e lo jihadismo
esistano. Eccome. E non solo per il “format”. Ma per la rete, il
contesto di frequentazioni, che quest’uomo alla deriva si era messo a
bazzicare, a cui lo stesso Procuratore di Parigi Francois Molins ha
fatto ieri riferimento indiretto e che, in qualche modo, lo avrebbe
accompagnato ed eccitato nell’incubare la sua spaventosa uscita di
scena. Uno scenario che lascia singolarmente tiepido il ministro
dell’Interno francese Bernard de Cazeneuve («Mohamed era legato allo
jihadismo? No», ha detto rispondendo ieri alle domande di un’intervista
televisiva), ma che calzerebbe come un guanto con la più spaventosa e
per certi aspetti realistica delle previsioni che l’Antiterrorismo
francese va facendo da tempo. Che esista un secondo stadio, una sorta di
evoluzione “finale” e “definitivamente asimmetrica” del Terrore
seminato dai cosiddetti “lupi solitari”. Quello che li vorrebbe
“neutri”, impermeabili nei modi e nelle parole (quantomeno quelle
pubbliche) al “radicalismo islamista”, che è poi primo e unico degli
indizi che, in qualche modo, li rendono riconoscibili alla comunità in
cui vivono prima ancora che ai poliziotti che dovessero avere la fortuna
o l’intuito di individuarli. Che li vorrebbe dunque “fantasmi”,
estranei a qualsiasi forma di censimento preventivo (come sono in
Francia le cosiddette fiches “S”, le segnalazioni che accompagnano i
profili ritenuti a rischio) di fronte anche alla più occhiuta e
penetrante delle polizie di prevenzione. Consegnandoli tutt’al più, come
era del resto accaduto a Mohamed, a piccoli precedenti penali.
Violenza, armi. Quelli che, ancora oggi, fanno dire all’avvocato
Corentin Delobel, suo legale nel processo per rissa dell’inverno scorso,
che «nulla avrebbe mai fatto immaginare che quell’uomo potesse
commettere atti di tale disumanità». E a suo padre, Mohamed Mondher
Lahouaiej Bouhlel, che suo figlio, di cui aveva perso i contatti da
cinque anni, «aveva un solo problema. La depressione. Ne soffriva dal
2002. Prendeva dei farmaci».