sabato 16 luglio 2016

Corriere 15.7.16
La guerra del Kosovo I dilemmi di D’Alema
risponde Sergio Romano


Dalla fine del Secondo conflitto mondiale l’Italia non ha partecipato direttamente a nessuna guerra, eccettuata quella del Kosovo, l’ultima combattuta nei territori della ex Jugoslavia, al tempo del governo D’Alema. C’era la copertura formale dell’Onu, ma in realtà l’intervento era sotto l’egida della Nato. Anche allora, come in tutte le altre situazioni di emergenza, non sarebbe stata migliore scelta per noi la linea della «non belligeranza»? Siamo nell’ambito della storia controfattuale, tuttavia solo con essa chiariamo e comprendiamo meglio il passato. Per lei l’intervento diretto del nostro Paese era proprio necessario e giustificato?
Mattia Testa

Caro Testa,
Per la verità l’Italia aveva già rinunciato al suo dogma pacifista nel 1991 quando aveva partecipato con una squadra navale e alcuni Tornado alle operazioni contro l’Iraq durante la prima guerra del Golfo. Ma il suo impegno nel conflitto contro la Serbia nel 1999 fu indubbiamente maggiore. Aggiungo che non vi fu in quella occasione la copertura dell’Onu, dove la Russia avrebbe certamente frapposto il suo veto. L’operazione fu interamente gestita dalla Nato sotto la guida degli Stati Uniti e la guerra, per Massimo D’Alema, fu indubbiamente una sorta di prova del fuoco. Nel libro-intervista scritto con Federico Rampini ( Kosovo , Mondadori 1999), ammise esplicitamente che «doveva passare degli esami. Mi infastidiva, ma era così. Partivo con un vantaggio, almeno all’interno dell’Unione Europa: per la mia lunga frequentazione dei socialisti europei conoscevo bene molti capi di governo e di alcuni ero anche amico. Il mio grande problema era il rapporto con gli Stati Uniti, il loro giudizio». Doveva dimostrare a Washington (il presidente era Bill Clinton) che un ex comunista poteva essere non meno «alleato» dei presidenti del Consiglio che lo avevano preceduto a Palazzo Chigi.
Sulle singole responsabilità del conflitto, invece, occorre fare qualche distinzione. Quando la Nato approvò l’«activation order», con cui veniva autorizzata una campagna di bombardamenti aerei sulla Serbia simile a quella realizzata nel 1995 sulla Bosnia, gli europei erano convinti che Slobodan Milosevic, dopo qualche bomba, avrebbe accettato un accordo per l’autonomia del Kosovo. Ma i kosovari dell’Uck (il loro esercito di liberazione) volevano l’indipendenza, godevano delle simpatie del segretario di Stato americano Madeleine Albright, ed erano decisi a soffiare sul fuoco per impedire qualsiasi compromesso. Come sempre accade in queste circostanze, nel campo serbo esisteva un partito non meno inflessibile e i due nemici divennero alleati all’insegna del tanto peggio tanto meglio. La strage di Racak (il villaggio in cui furono uccisi 45 kosovari) e l’espulsione dei kosovari albanesi dalla loro regione finirono per giustificare un conflitto in cui il peso politico degli europei divenne col passare del tempo sempre più irrilevante. Non credo che D’Alema in quel momento avrebbe potuto adottare una linea diversa da quella che gli fu imposta dalle circostanze.