Corriere 15.7.16
Ripartiamo dalla cultura per rifondare l’integrazione
di Massimo Bray
La situazione sociale e politica che abbiamo di fronte merita di essere valutata con attenzione.
Non
ci si può, a mio avviso, rifugiare in interpretazioni riduttive e,
parzialmente, tranquillizzanti, ascrivendo ciò che sta accadendo sotto
l’etichetta di «populismo». Siamo di fronte a forme di protesta
generalizzate che investono gran parte del mondo occidentale. Un filo
rosso lega gli avvenimenti che si sono succeduti cronologicamente negli
Stati Uniti, in Grecia, in Spagna, in Francia, in Austria e in Italia. E
le risposte che i governi hanno sino ad ora saputo dare si sono
dimostrate in tutti i casi insufficienti. L’impoverimento della classe
media, ormai ridotta a sopravvivere è un’emergenza che, bisognosa di
urgenti risposte, sta rischiando di diventare strutturale. Le persone
hanno paura, reagiscono all’insicurezza che pervade la loro esistenza
con forme di intolleranza e non vogliono rinunciare a ciò che rimane
delle conquiste sociali raggiunte nel Novecento.
Non era mai accaduto
che i cittadini del nostro Paese perdessero così diffusamente la
fiducia nelle classi dirigenti, che queste fossero addirittura viste
come il nemico da sconfiggere. Il voto delle ultime amministrative in
Italia evidenzia che il governo è visto come il rappresentante dei
poteri costituiti, incapace di ascoltare, interpretare e dare risposte
alle richieste dei cittadini. Serve a poco, credo, dire se questa
reazione, così diffusa e dilagante, sia giusta o sbagliata. È il momento
di chiedersi perché si è giunti a questa situazione, e questa domanda
devono porsela principalmente i riformisti. Abbiamo di fronte alcuni
problemi congiunturali che non possono essere ignorati (penso a quelli
delle banche e del debito pubblico), ma non possono essere gli unici
nostri obiettivi. Occorre definire una politica che rilanci lo Stato
sociale, creda negli investimenti pubblici, aumenti il potere di
acquisto dei cittadini, ridando in questo modo fiducia e speranza.
Occorre proporre con coraggio un nuovo modello di Europa. Quello che è
accaduto con la Brexit è il rifiuto di una globalizzazione che ha
impoverito le tradizioni, le storie e le lingue nazionali, creando
un’ulteriore sovrastruttura burocratica e amministrativa.
Se si vuole
creare un sentimento di appartenenza delle donne e degli uomini che
vivono nei Paesi dell’Unione è necessario mettere in primo piano
quell’insieme di valori culturali e politici che, per quanto diversi
nelle singole tradizioni nazionali, hanno comunque elementi comuni e
tali da rendere credibile un vero progetto di integrazione.
La
cultura può essere uno straordinario strumento per ricostruire i
rapporti di fiducia all’interno di una comunità. Alla cultura, alla
scienza e all’arte si richiede uno sforzo ulteriore, come in altri
momenti della storia, in cui il pensiero ha saputo trovare nella
solidarietà e nell’unione la capacità di attenuare quelle forme di
intolleranza che rischiano di uscire vincitrici.
La cultura può
essere lo strumento giusto, perché è più rispettosa delle tradizioni,
delle storie, delle identità, perché ha più immaginazione, più
creatività. Perché le molte esperienze che si sono già affermate nel
nostro Paese colgono il valore e la forza dei modelli partecipativi che
partono dalla condivisione di un progetto (sociale e di impresa).
Siamo di fronte a una grande sfida per i democratici e per i riformisti.
Quale
progetto politico stiamo elaborando per il nostro Paese? La mia
convinzione è che una grande prospettiva di cambiamento debba muovere
dalla capacità di avere visione, dalla forza di alcune idee
fondamentali: le forme della democrazia, il bisogno di maggiore
eguaglianza, un’etica per la politica.
Occorre una riforma
intellettuale e morale, agire sulle coscienze, porre un problema di
antropologia culturale. Se il Partito democratico non sarà in grado di
dare al più presto risposte appropriate, credo che non sia difficile
prevedere che nelle prossime elezioni politiche possa ripetersi ciò che è
accaduto nelle amministrative. E non appartengo a quelli che ritengono
tale risultato il castigo di Dio, ma il risultato della difficoltà di
leggere ciò che nel Paese e nel mondo occidentale sta accadendo. Se non
faremo presto, la protesta e la speranza cercheranno altre vie
democratiche, diverse da quelle a cui siamo soliti pensare.