giovedì 14 luglio 2016

Corriere 14.7.16
Sant’Anna , la strage indicibile
Il piccolo Alberto sfuggì alle SS, ma perse la mamma. Suo figlio ne ha raccolto i ricordi
di Iacopo Gori

I bambini giocavano in piazza a Sant’Anna di Stazzema, sulle montagne dell’Alta Versilia in Toscana, nell’estate del 1944. Ignari che la mattina del 12 agosto sarebbero stati quasi tutti uccisi, insieme alle loro mamme e ai loro nonni, in una delle peggiori stragi nazifasciste della storia italiana. Tra di loro c’era anche Alberto, «il rossino, figliolo dell’Elena». Aveva dieci anni. Era salito in montagna con la madre da Tonfano, Marina di Pietrasanta, perché i tedeschi avevano ordinato l’evacuazione di tutto il litorale. Quella mattina di un giorno qualsiasi che gli avrebbe per sempre cambiato la vita, quando si udirono i primi colpi di fucile in fondo alla valle, non ascoltò Elena che gli diceva di restare con lei: disubbidì a sua madre. Seguì il suo amico Arnaldo: «Alberto, vieni con me nel bosco». Fu quella la sua salvezza.
Nascosto tra gli alberi, vide arrivare i soldati tedeschi delle SS che misero in colonna gli abitanti delle prime case. Sua madre era con loro. L’avrebbero uccisa insieme ad altre 400 persone usando bombe, mitragliatrici e dando fuoco ai corpi. Alberto e Arnaldo sentirono per ore le raffiche di mitra e le esplosioni; impauriti e tremanti dentro una grotta videro il fumo che saliva oltre i castagni. Quando tornò il silenzio, Alberto corse nella casa vuota, prese una coppia di pane da una madia e scappò col cuore in gola fino al paese di Valdicastello, in cerca di conoscenti. La sera stessa già si sapeva dell’eccidio.
Alberto tornò il giorno dopo a Sant’Anna insieme a un’amica della mamma, l’Angiò e incontrò il suo amico Arnaldo che vagava sconvolto: «La tua mamma è ancora viva, è ferita, è alla Vaccareccia». Lungo il sentiero per raggiungere quel luogo in pochi minuti, animali fucilati, stalle crollate, cadaveri umani ancora fumanti e «un insopportabile odore di carne bruciata». Il bambino trovò la madre distesa vicino alla fontana, perfettamente cosciente, ferita alla coscia e sotto un riparo costruito alla meglio con dei rami di castagno: «I suoi capelli erano diventati tutti bianchi». «Elena — le disse l’Angiò — stai tranquilla, torniamo presto: andiamo a cercare qualcuno che ci aiuti a portarti giù. Ci vuole una barella». Passò almeno un giorno prima che Alberto e l’Angiò riuscissero a trovare un aiuto: ritornarono alla Vaccareccia con alcuni uomini. «La mamma era ancora lì, sotto il riparo dei castagni, ma non respirava più. L’Angiò mi prese mentre urlavo come un disperato e non so se gli uomini che erano con noi la seppellirono o la lasciarono così. La mamma è il fantasma che ha attraversato la mia vita».
Settant’anni dopo, Alberto di sua madre conserva pochi ricordi: non gli è rimasto niente, solo una fotografia, «l’unica cosa che le sia sopravvissuta». Oggi, a 82 anni, Alberto Pancioli Guadagnucci (Pancioli è il cognome dell’uomo che l’ha adottato, un ex fascista per un altro giro della sorte, mentre Guadagnucci è il cognome della madre Elena, che aveva avuto l’unico figlio da un uomo già sposato, da cui Alberto non è mai stato riconosciuto legalmente), orfano a dieci anni, ha trovato nel figlio Lorenzo l’unica persona che potesse aiutarlo a dare forma e parole a questa profonda vicenda familiare.
Lorenzo Guadagnucci, giornalista e scrittore, è l’ultimo protagonista di una storia lunga tre generazioni. Anche la sua vicenda personale si intreccia — seppure in modo molto diverso — con la storia del Paese: Lorenzo, anni più tardi, ha subito una violenza cieca durante il G8 di Genova del 2001. Era l’unico giornalista all’interno della scuola Diaz la notte della «macelleria messicana»: picchiato e arrestato senza motivazione. Di quella esperienza ha raccontato nel libro Noi della Diaz .
Lorenzo Guadagnucci ora firma un libro che racconta in prima persona la storia del padre Alberto (Era un giorno qualsiasi , Terre di Mezzo editore) con un’avvertenza in prima pagina: «L’io narrante del libro è Alberto, il padre dell’autore, il quale si è immedesimato nel genitore. Il testo è da attribuire per intero all’autore che ha utilizzato alcuni testi autobiografici scritti da Alberto sulla propria infanzia e giovinezza e sui giorni della strage».
Questo sdoppiamento dell’autore nel padre-io narrante fa sì che questo libro inizi con una testimonianza inedita di un crimine che in Italia è stato quasi dimenticato fino al processo clamoroso del 2004 che l’ha tolto all’oblio (responsabili nazisti individuati e condannati all’ergastolo grazie alla tenacia del magistrato Marco De Paolis). Poi si trasforma in una ricostruzione storica dei fatti, attraverso la voce e le vicende dei protagonisti che spiegano perché «la strage per tutti noi sopravvissuti sia stata un fatto pressoché indicibile». Fino a chiudersi in un dialogo laico tra un padre e un figlio (Alberto e Lorenzo) che davanti all’unica foto di Elena (madre e nonna), riflettono — con posizioni lontane ma mai incoerenti — sul senso del ricordo e sul rischio della commemorazione, su cosa significhi non violenza, sul bisogno di trovare un punto di partenza per un «pensiero nuovo, per una cultura diversa di pace».
Perché i massacri che sono seguiti a Sant’Anna di Stazzema (uno per tutti, Srebrenica, 21 anni fa) mostrano che il cammino per la pace è un’utopia da perseguire con fatica ogni giorno.