giovedì 14 luglio 2016

Corriere 14.7.16
Le ferite (rimosse) del sud
di Federico Fubini

Provate voi ad aprire un’impresa in un Comune in cui i funzionari si presentano al lavoro con un cartone in testa, per timbrare in incognito e andarsene. Provate a fare lo studente pendolare su una rotta ferroviaria in cui i treni sono moderni, ma il binario è unico e la segnaletica dipende da una tecnologia di molto prima che voi nasceste.
Naturalmente niente di tutto questo è un’esclusiva del Mezzogiorno d’Italia. Gli sfacciati che timbrano il cartellino in pantofole e se ne vanno si sono già visti, purtroppo, in Liguria o in Lombardia: il caso di Boscotrecase sulle pendici del Vesuvio non è il primo né probabilmente sarà l’ultimo. E un incidente simile a quello di Corato, in Puglia, ha ucciso undici persone a Bad Aibling in Baviera sei mesi fa. Ciò che è unico nella cronaca di questi giorni è la storia che le fa da cornice. Del Mezzogiorno non è più di moda parlare da quando sono venute meno due condizioni: la criminalità è diventata molto meno pittoresca e visibile; e i presunti rimedi tradizionali ai disagi del Sud — più elargizioni assistenziali in deficit — non sono più disponibili. C’è da capire dunque il ceto politico e i suoi guru che preferiscono non dare risalto a un tema che non sanno come affrontare .
E ppure ciò che è successo rappresenta un disastro tale che l’Italia non sarebbe più vista come la grande malata d’Europa, se solo riuscisse a chiudere quella ferita. Oggi il reddito nelle regioni del Sud è del 18% più basso di dove sarebbe se fosse continuata la (fragile) crescita degli anni fra il 2001 e il 2007. Essere giovane e donna in Calabria ed avere un posto di lavoro è ormai una stranezza statistica: solo il 4,7% lo ha, a confronto di un già bassissimo 56% della media nazionale.
Soprattutto, al Sud sta succedendo qualcosa che dovrebbe dominare il dibattito dell’intero Paese: un’area vasta come l’Olanda sta rinunciando alle sue persone più dotate di talento, istruzione e energia. Anche su questo i dati non lasciano scampo. L’anno scorso le regioni del Mezzogiorno hanno perso 63 mila residenti e la realtà è probabilmente anche più preoccupante, perché molti sfuggono alle statistiche andandosene senza avvertire l’anagrafe. Di questo passo la popolazione del Sud diminuirà dell’uno per cento ogni triennio, un ritmo doppio rispetto al resto del Paese. È come se il Sud perdesse in pochi anni l’intera provincia di Lecce, o di Cosenza, con due differenze radicali rispetto alle migrazioni di altri tempi: ad andarsene sono soprattutto i laureati (resta chi probabilmente ha meno mercato) e questi non manderanno parte dei loro risparmi alle famiglie d’origine.
Naturalmente l’Italia può scegliere di fare ciò che in sostanza ha fatto finora: disinteressarsene. In fondo la polarizzazione tra aree ricche e disagiate, città dense di talenti e città che ne perdono ogni giorno, è tipica dell’Occidente. È vero a San Francisco contro la «Rust Belt» negli Stati Uniti, è vero a Londra contro l’Inghilterra del Nord. Oggi soprattutto Milano beneficia dell’afflusso di intelligenze e energie dal Mezzogiorno.
L’alternativa però è farci qualcosa, usando il buon senso e i soldi che ci sono. Dal picco pre crisi il crollo degli investimenti al Sud è stato del 37% (35 miliardi in meno ogni anno) e in Puglia del 30%. Con questo retroterra è inammissibile che l’intera programmazione dei fondi europei 2014-2020 — 122 miliardi insieme ai cofinanziamenti nazionali — tardi ancora perché sono serviti tre anni solo per creare il nuovo Dipartimento per le politiche di coesione presso la Presidenza del Consiglio. La legge che lo istituisce è del 30 ottobre 2013, le ultime firme per farlo partire di una decina di giorni fa. Ed è inammissibile, di fronte ai morti del binario unico di Corato, che in Italia i tempi medi per un’infrastruttura da oltre 10 milioni di euro siano di quasi nove anni.
Ancora un punto: il voto di scambio. Dopo i ballottaggi delle Comunali, il Corriere ha mostrato come l’analisi dei flussi riveli la sua presenza endemica al Sud. Ogni euro speso per comprare un voto è un investimento nel controllo della spesa pubblica, dunque è garanzia di corruzione. Sarebbe evitabile, apportando piccoli cambiamenti alle modalità di scrutinio che possono rendere queste pratiche molto più difficili. Basta volerlo fare, appunto.