Corriere 13.7.16
Per Renzi è troppo rischioso rinunciare alla guida del Pd
di Gianfranco Pasquino
Da
qualche tempo, la/le minoranza/e del Partito democratico (neanche al
plurale sembrano essere consistenti) battono su un tasto
politico-istituzionale che considerano molto importante: la separazione
fra la carica di presidente del Consiglio e quella di segretario del
Partito democratico. La coincidenza delle due cariche sta nello Statuto
del Partito democratico, sostenuta da alcune buone ragioni.
La
prima è che questa coincidenza è la norma in moltissime democrazie
parlamentari alle quali, per una volta, si è guardato apprezzabilmente.
La
seconda è che molti ricordano che il segretario della Democrazia
cristiana era il primo sfidante del presidente del Consiglio
democristiano, sfida molto spesso coronata da successo.
Terzo, che
la sfida nascesse dai fatti e non dalla natura della Dc e dalle diffuse
capacità manovriere di quelle mobili correnti, apparve chiaro quando,
completata la cavalcata iniziata al Lingotto, Veltroni divenne il primo
segretario del Partito democratico nell’ottobre 2007. Avendo reso
pubblico il suo programma di governo, non un progetto di partito, Walter
Veltroni divenne lo sfidante di Romano Prodi che cadde quasi subito.
Quanto
a Matteo Renzi, prima, dicembre 2013, ha vinto la carica di segretario
del Partito democratico. Poi, febbraio 2014, proprio in quanto
segretario del Pd fu nominato dal presidente Napolitano a capo di un
governo molto più «politico» di quello guidato da Enrico Letta.
Sono
fragili le motivazioni in base alle quali le minoranze vorrebbero che
Renzi rendesse disponibile la carica di segretario. Lamentano che Renzi
dispone di un potere eccessivo, rispetto a che cosa: alla sua abilità di
svolgere entrambi i compiti? Renzi si occupa del governo, ma non ha
trovato né il tempo né il modo di occuparsi del partito. Essendoci due
vicesegretari, è anzitutto a loro che bisognerebbe chiedere conto dello
stato del partito. Forse apprenderemmo che neppure loro hanno fatto
granché, ma che la latitanza dipende dalla visione che Renzi ha del
partito.
Non è interessato alla presenza sul territorio,
all’elaborazione politica, alle strutture, alle donne e agli uomini
iscritti perché vogliono partecipare attivamente a un’impresa
collettiva.
Renzi scommette che il suo modo di governare si rifletterà positivamente sul partito, quantomeno sul «partito nell’elettorato».
Renzi
non crede, al contrario di molti dirigenti per lo più rottamati, ma
anche di molti studiosi, che la presenza organizzata di un partito, il
buon funzionamento delle sue strutture, la vivacità (contrapposta al
conformismo) del suo gruppo dirigente produrrebbero conseguenze
apprezzabili sulla percezione e sull’azione del governo.
Temendo
la sfida di un eventuale segretario successore, Renzi non intende
affatto rinunciare al doppio ruolo. Cercando di fare breccia nei
dirigenti del Pd che nutrono qualche preoccupazione, le minoranze hanno
fatto circolare l’idea del loro ticket con un candidato alla presidenza
del Consiglio post Renzi e un candidato alla segreteria del partito. La
mossa tattica è interessante, però, nulla lascia pensare che quel
segretario seguirà il «suo» presidente del Consiglio senza sentirsi già
incanalato nella carriera che conduce a Palazzo Chigi.
Quello che
riguarda non solo la parrocchia del Partito democratico, ma il Paese, è
che la soluzione non danneggi l’azione del governo.
Messi da parte
gli strumenti, vale a dire le promesse di carriera nel partito e nelle
istituzioni, che producono ossequio e conformismo, magari riconoscendo
esclusivamente agli iscritti il potere di eleggere il loro segretario,
il Partito democratico riuscirà a diventare più dinamico e più
democratico, di una democrazia che non si misura con il numero e la
frequenza delle riunioni né con la lunghezza dei dibattiti .