martedì 12 luglio 2016

Corriere 12.7.16
Ci siamo preparati male all’Iraq post Saddam
di Niall Ferguson

«Tutte le carriere politiche, se non si interrompono a metà per qualche felice circostanza, finiscono con un fallimento», osservò una volta Enoch Powell. Sia Tony Blair che David Cameron sanno fin troppo bene che cosa intendesse. Ma chi dei due è finito peggio? A giudicare dalla stampa britannica, la risposta è inequivoca. «L’eredità di Tony Blair? Infliggere a un mondo fragile e instabile una tempesta di fuoco terrorista». Questo era il titolo dell’editoriale di Trevor Kavanagh sul Sun di giovedì scorso, a seguito della pubblicazione della tanto attesa Inchiesta sull’Iraq presieduta da Lord Chilcot. «Ho forti dubbi sulla salute mentale di Tony Blair», ha scritto Steven Glover sul Daily Mail . «Una mostruosa illusione», diceva un altro titolo del Mail della scorsa settimana. «Tony Blair ha pensato di essere il Messia e spesso si truccava il viso, afferma l’ex amico dell’ex primo ministro». Questo era l’ Express di venerdì.
Tutti questi giornali erano stati favorevoli alla Brexit. Hanno quindi contenuto le critiche sul fallimento di David Cameron, l’aver indetto un referendum sull’adesione britannica alla Ue per poi perderlo. È troppo presto per dire quanto gravi saranno le conseguenze della Brexit, ma Fleet Street è ancora piena di ottimisti strabici che fantasticano sul fatto che Theresa May o Andrea Leadsom possano essere la prossima Margaret Thatcher. Nessuno ancora mette in dubbio la salute mentale di Cameron.
Il fallimento di Tony Blair ha preso una forma diversa. Come scrissi il 14 marzo del 2003, sei giorni prima dell’invasione americana dell’Iraq, il suo errore fu quello di «allinearsi più o meno acriticamente alla politica del presidente americano sull’Iraq, che mirava esplicitamente a un cambio di regime con l’impiego di mezzi militari». I benefici di questa politica, per il Regno Unito, mi sembravano «inconsistenti», mentre «il prezzo di un sostegno a Bush è immediatamente evidente: dobbiamo combattere una guerra e forse sostenere un’occupazione destinata a costare sangue e denaro, divenendo il terzo bersaglio preferito dei fanatici islamici (non dimenticate Israele)».
Non tutti la vedevano in questo modo, si badi bene. In effetti, alcuni tabloid britannici hanno preso una posizione del tutto diversa.
Il 13 marzo del 2003, proprio Trevor Kavanagh lodò Blair per aver «calpestato quel verme di Jacques Chirac, contrario alla guerra... in una tempestosa performance alla Camera dei Comuni». Altrove, il S un augurò sia a Blair che a Bush «ogni successo» nel «lungo e difficile cammino verso la pace» in Medio Oriente. Melanie Philips, sul Mail del 17 marzo, salutò l’avvento di un «nuovo ordine mondiale».
Il senno di poi è una bellissima cosa. Significa che se il successo ha molti padri, il fallimento ne ha sempre e solo uno. Anche noi storici possiamo beneficiare del senno di poi. Nel giudicare, però, cerchiamo di capire cosa sapeva nel momento della decisione chi aveva il potere di decidere. Il grande merito del Rapporto Chilcot è ricostruire quel processo decisionale meticolosamente, mostrando dove si è sbagliato. Sappiamo dell’intelligence errata, che ha convinto tante persone che Saddam possedesse armi di distruzione di massa. A mio avviso è stato però più grave per i governi degli Stati Uniti e del Regno Unito aver sottovalutato la difficoltà di governare l’Iraq post Saddam. È stato particolarmente grave se si considera la ben documentata esperienza britannica in Iraq dopo la Prima guerra mondiale.
La storia non era stata del tutto dimenticata. Grazie al rapporto Chilcot (punto 3.6.855), ora sappiamo che nel gennaio 2003 il Dipartimento per il Medio Oriente del ministero degli Esteri avvertì che «un contributo del Regno Unito sarebbe stato molto difficile da sostenere... se ci fosse stata un’opposizione alla nostra occupazione dell’Iraq». Secondo il rapporto del ministro degli Esteri al primo ministro, il Regno Unito non «doveva rischiare che si ripetesse la situazione del 1920», alludendo all’insurrezione che aveva allora infiammato l’Iraq. Ma questo è tutto. Solo dopo l’invasione, mentre il Paese era scosso da un vortice di violenza, la lezione della storia si è rivelata dolorosamente evidente.
Oggi, tredici anni dopo, chi ha visto ignorati i propri avvertimenti è in una posizione migliore per criticare Tony Blair rispetto a chi lo ha incoraggiato. Eppure io mi sento in dovere di difenderlo. A differenza dei suoi critici voltagabbana, Blair ha avuto il coraggio di esprimere «dolore, rammarico e scuse». Come ha detto Blair la scorsa settimana nella sua appassionata apologia: «È importante ricordare l’atmosfera di quel momento... poco più di un anno dopo l’11 Settembre». Ha pregato i suoi critici di mettersi nei suoi panni: «Vedete l’intelligence parlare di armi di distruzione di massa. E questo nel mutato contesto di migliaia di vittime causate da una nuova e virulenta forma di terrorismo. Dovete almeno prendere in considerazione la possibilità di un altro 11 Settembre qui in Gran Bretagna. E la vostra responsabilità primaria... è quella di proteggere il vostro Paese».
Su questa base, decise di sostenere Bush — «una decisione approvata dal Parlamento, con i leader dell’opposizione che avevano accesso alle identiche informazioni dell’intelligence che avevo io». L’Onu era paralizzato, dopo che la Francia e la Russia avevano posto il veto all’azione che la risoluzione 1.441 riteneva giustificata. Abbiamo allora appoggiato la guerra di Bush, perché — dice Blair — «ho pensato che il costo umano... di lasciare Saddam al potere sarebbe stato più alto per la Gran Bretagna e per il mondo».
Sostenni un punto di vista diverso, come abbiamo visto. Ma come posso sapere che avevo ragione? Come ha fatto notare Blair la scorsa settimana, dobbiamo chiederci cosa sarebbe potuto accadere se la scelta fosse stata opposta: e se Saddam fosse stato lasciato al potere? La successione di eventi alternativi che Blair ci chiede di immaginare non è del tutto improbabile. Se le forze riunite nel marzo 2003 non fossero state utilizzate, «le sanzioni si sarebbero rapidamente erose», il sistema di ispezioni si sarebbe frantumato, e un Saddam «immensamente... rafforzato» avrebbe ripreso i suoi programmi di armi di distruzione di massa.
Inoltre, se Saddam fosse stato ancora al potere nel 2011, non avrebbe potuto esserci una rivoluzione araba anche in Iraq? «In quel caso», ha affermato Blair, «l’incubo che vive la Siria di oggi ci sarebbe anche in Iraq».
Lo so, lo so. Dopo tutto quello che è andato storto in Iraq a partire dal marzo del 2003, è difficile immaginare uno scenario peggiore. Ma questo illustra perfettamente il motivo per cui tutte le carriere politiche sono destinate a concludersi con un fallimento. Perché i leader devono agire sulla base di ipotesi, oltre che di informazioni dell’intelligence. Nel 2003 Tony Blair pensava che lasciare Saddam al potere sarebbe stato peggio che rovesciarlo. Nel 2003 la maggior parte di Fleet Street era d’accordo con lui. Oggi ai giornalisti che una volta acclamavano Blair sembra ovvio che si era sbagliato. La realtà è che non possiamo esserne sicuri. Tutto quello che possiamo fare è essere onesti con noi stessi. Anche il fallimento ha molti padri.
(Traduzione di Maria Sepa)