Corriere 12.7.16
Migranti e accoglienza un progetto concreto e qualche paletto in più
di Mauro Magatti
La
questione dei rifugiati è un tema scottante attorno al quale gli animi
si accendono e si dividono. Va dato atto a Renzi di avere tenuto una
posizione coraggiosa. Pur rischiando l’impopolarità, sull’accoglienza il
premier ci ha sempre messo la faccia. Smarcandosi da tanti colleghi
europei che hanno immaginato di poter affrontare il problema erigendo
muri. La sforzo dell’Italia — sostenuto dal lavoro della Marina Militare
impegnata da anni a salvare vite nel Canale di Sicilia — ha ottenuto
diversi riconoscimenti internazionali. Ora, però, occorre evitare la più
classica delle eterogenesi dei fini. Ricapitoliamo il punto in cui
siamo. Secondo i recenti dati del ministero dell’Interno, attualmente ci
sono 91.151 rifugiati nelle strutture temporanee (Cas, Centri di
accoglienza straordinaria), 14.250 nei centri di prima accoglienza e
negli hotspot, mentre 20.086 sono inseriti nello Sprar (Sistema di
protezione per richiedenti asilo e rifugiati, esplicitamente deputato
all’integrazione di coloro che hanno ricevuto il permesso di restare in
Italia). Uno sforzo significativo.
Il problema è che la rete
costruita — che impegna cospicue risorse economiche — ha diverse
smagliature. In questi anni i centri di prima accoglienza hanno permesso
di fronteggiare gli sbarchi. Ma non mancano le criticità: prima di
tutto perché soggetti seri e qualificati operano a fianco di realtà
improvvisate. Per qualcuno l’ospitalità si è trasformata in un affare.
Il problema nasce dal fatto che il mandato di questi centri è limitato
alla fase — sempre troppo lunga — di attesa della risposta alla domanda
di asilo. Cosicché il gestore può limitarsi al minimo indispensabile,
mentre l’ospite assapora il gusto agrodolce dell’assistenza: mangiare,
dormire, qualche ora di italiano (quando c’è) e un primo contatto con la
società circostante, che forzatamente ruota attorno a piccoli consumi.
Insomma, nulla più di una lunga attesa vuota, senza un progetto per
l’eventuale inserimento.
Il programma Sprar — che ha avuto
difficoltà ad ampliarsi anche per la scarsa disponibilità dei Comuni a
impegnarsi in un servizio delicato e poco amato dai cittadini — è un
collo di bottiglia che rischia di stringersi sempre di più. Cresce
infatti il numero di coloro che, pur avendone i requisiti, di fatto sono
esclusi (semplicemente perché non ci sono abbastanza posti) da questa
seconda fase del progetto. In più, i dati dicono che stanno aumentando i
dinieghi delle commissioni prefettizie. Se a chi fa ricorso viene data
la possibilità di rimanere nel programma di protezione, si intasano i
centri di prima accoglienza. Ma nell’attesa, dove altro si può andare?
Il problema è persino più grave per coloro per cui la domanda viene
respinta. Inammissibili, sono fuori dal progetto ma non vengono
rimpatriati. Operazione che, oltre a essere costosa, è difficile da
realizzare, oltre che umanamente assai delicata. Il risultato è che
molti rifugiati entrano in un limbo da dove nel passato si usciva o
mediante l’espatrio o una sanatoria. Due vie che oggi sono precluse.
Sorge allora la domanda: che ne sarà di tutti quei giovani a cui viene
rifiutata la domanda di asilo? Non c’è il rischio di stare caricando una
vera e propria bomba sociale?
Già alla fine del 2015, un rapporto
di Medici senza Frontiere parlava di oltre 10.000 rifugiati e
richiedenti asilo al di fuori del sistema di accoglienza. Invisibili che
finiscono nell’accattonaggio o nelle mani di sfruttatori, con
conseguenza sulla sicurezza. Se si rimane dentro la filosofia seguita
fino ad oggi — soldi e servizi — ci sono solo due soluzioni (rimpatriare
chi non ha diritto o garantire per tutti una generica assistenza ad
libitum) entrambe impraticabili. Anche se necessari, soldi e servizi non
bastano a rispondere né alla domanda di vita dei rifugiati, né alle
richieste di sicurezza e sostenibilità dei cittadini.
Occorre
allora fissare paletti un po’ più realistici a quello che si fa. Primo,
rendere effettivo il rimpatrio definitivo. Secondo, non smettere di
porre la questione in sede europea, esigendo il rispetto degli accordi
sulle quote dei rifugiati e lavorando nei Paesi di partenza.Terzo,
impostare diversamente il rapporto con chi viene preso in carico:
l’Italia sostiene il percorso di chi dimostra di volere effettivamente
diventare cittadino italiano, dotato di diritti ma anche portatore di
doveri. Il che comporta — al di là dello sguardo emergenziale che è
l’eredità perversa della Bossi-Fini — un’idea politica, prima che
amministrativa, su chi vogliamo diventino queste persone. Sapendo che,
come è giusto dare, è giusto (e necessario) anche chiedere. Quarto,
incentivare le forme diffuse di inserimento e di integrazione (che
significano poi educazione e lavoro), evitando i grandi numeri,
premiando quelle comunità (e ci sono già molti esempi) capaci di
interventi innovativi e efficaci. Tutto questo sapendo che
l’integrazione di cittadini che vengono da culture molto diverse dalla
nostra è un lavoro difficile, lungo e costoso. Con molti fallimenti. Il
che impone il senso della misura.
Certo, sappiamo anche che,
quando va a buon fine, alla lunga si rivela un buon investimento per il
Paese ospitante. Ma tale risultato si ottiene solo quando si lavora
bene, con idee chiare e sapendo mobilitare le energie diffuse ma
presenti nel tessuto sociale.
Se non si è capaci di creare le
condizioni adatte, meglio dircelo subito. Perché il conto alla fine
potrebbe diventare molto salato.