Corriere 11.7.16
Visionario dell’odio Il mistero di Hitler
Da giovane era goffo, solitario, divorato dall’ansia
Poi scoprì che la sua oratoria elettrizzava le folle
E cominciò un’ossessiva corsa verso la distruzione
di Pietro Citati
Adolf
Hitler visse a Linz, la capitale della regione austriaca dove era nato,
dall’autunno 1905 alla fine del 1907. Non studiava. Passava il tempo a
disegnare, dipingere, leggere, scrivere poesie, dedicando la sera al
teatro di prosa e all’opera. Stava alzato fino a notte inoltrata: la
mattina dormiva fino a tardi, e il giorno fantasticava ad occhi aperti
sul suo futuro destino di grande artista; fantasticava, come avrebbe
fatto sempre, anche quando aveva tutto il potere tra le mani.
Aveva
un solo amico, August Kubizek: il quale racconta che il primo bisogno
di Hitler era quello di parlare, parlare, parlare, davanti a un piccolo o
un grande uditorio. Faceva arringhe su tutto: i difetti degli impiegati
statali, gli errori degli insegnanti, le cattive esecuzioni
operistiche, i brutti edifici di Linz. Acquistò, insieme all’amico, un
biglietto della lotteria. Era sicuro di vincere: con il danaro della
vincita, avrebbe fatto vita d’artista, andando a Bayreuth per ascoltare
le opere di Wagner, che poi definì il suo «immenso predecessore». Ma il
biglietto non vinse; e venne colto da uno di quei furibondi scoppi di
collera, che atterrirono sempre i suoi fedeli.
Nel settembre 1907
andò a Vienna per sostenere un esame all’Accademia di Belle Arti. Fu
respinto due volte, e riversò la sua collera sull’umanità intera,
colpevole di non apprezzarlo. A Vienna rimase dal febbraio 1908 al
maggio 1913. Non volle mai imparare un mestiere: per tutta la vita fu un
dilettante. Progettò grandiosi piani di città future e grandiosi
spettacoli: alcuni drammi, che abbandonò senza finirli: una bevanda, che
avrebbe preso il posto dell’alcol: un prodotto miracoloso per far
crescere i capelli; e lo Stato ideale. Andò dieci volte ad ascoltare il
Lohengrin : avrebbe voluto diventare un eroe wagneriano; a teatro
indossava un soprabito scuro, un cappello nero, e portava in mano un
bastone da passeggio col manico d’avorio. Come disse l’amico, «aveva
un’aria quasi elegante». Nell’autunno 1909, rimase senza danaro. Dormiva
in un dormitorio: aveva un posto fisso nella Casa degli uomini:
mangiava nei refettori dei conventi: indossava un logoro completo blu a
quadretti: spalava la neve per strada; e si improvvisò facchino alla
stazione. Ma teneva tutti gli altri a distanza, non tollerando che
qualcuno occupasse un posto nella sua misera vita.
Quando
ricevette l’eredità del padre, nell’aprile 1913, partì per Monaco.
Abitava vicino al quartiere di Schwabing. Leggeva fino a tarda notte,
alla luce di una lampada a petrolio. Ogni due o tre giorni dipingeva un
quadro: un modesto acquarello, copiato da una cartolina; e cercava di
venderlo, procurandosi di che vivere decentemente. Prendeva in prestito
libri alla biblioteca: li leggeva nei caffè, dove aveva giornali a
disposizione, o nel frastuono delle birrerie. Camminava fino allo
sfinimento per le strade e i parchi di Monaco. Era chiuso in sé stesso:
nascondeva la propria vita a sé stesso e agli altri; e rifiutava
qualsiasi amicizia. Non aveva alcun interesse ideologico e politico.
Sino alla fine della Prima guerra mondiale, non fu né antisemita né
anticomunista; forse era vicino al Partito socialdemocratico, al quale,
più tardi, dedicò un odio senza tregua e senza remissione.
All’improvviso
Hitler venne alla luce: a partire dal 1919, abbiamo molti ritratti di
lui, che sembrava sfuggire anche al più acuto osservatore. «Chi era,
Hitler?» tutti si domandavano. Era pallido, smunto, con i capelli
spioventi sulla fronte: gli occhi erano grandissimi, color azzurro
slavato, avvolti da una strana luce. Il volto aveva qualcosa di
doloroso. Aveva movimenti goffi e bruschi: si accorgeva di essere goffo;
e se ne adontava perché gli altri se ne accorgevano. Era incapace di
rivolgere la parola a qualsiasi persona importante. Ogni estraneo
risvegliava in lui «un’ansia perenne»: lo teneva lontano; e doveva
lavarsi continuamente le mani per abolire la sconosciuta e terribile
realtà quotidiana. Ora era visionario: ora indeciso: ora svelava un
istinto realistico acutissimo, e aveva il dono di riconoscere le
debolezze delle persone e di sfruttarle mirabilmente. A volte sembrava
uno spettro: o uno straniero, un eterno straniero; o un infimo
impiegato, o un sottoufficiale. Il fondo della sua persona era l’odio:
un odio feroce e crudele, che egli esaltò in una pagina di Mein Kampf .
La
rivoluzione del 1918-19 rivelò Hitler a sé stesso. L’esercito bavarese
lo incaricò di tenere corsi di impronta nazionalistica e anticomunista
alle truppe. Successe qualcosa che non aveva mai immaginato. Scoperse di
«saper parlare» alla gente, e in primo luogo ai soldati. «Hitler è nato
per parlare alla gente», disse un ufficiale: «Col suo accaloramento e
il suo stile popolare tiene avvinti gli ascoltatori».
«Per
parlare», Hitler disse, «ho bisogno di folle»: ne ebbe bisogno per molti
anni; e quando non sentì più questo rapporto con le folle, il suo
talento politico scomparve. «Le masse», diceva volgarmente, «sono delle
femmine, che hanno bisogno di venire possedute». Scandiva in modo netto
le parole, con una voce rauca e gutturale: mandava lampi dagli occhi:
ogni tanto si ravviava i capelli con la mano destra; parlava per due o
tre ore, facendo appello a rabbia, odio, rancore, ed elettrizzando le
folle. Dapprima parlava lentamente: poi, poco alla volta, le parole si
accavallavano: il pathos isterico raggiungeva il culmine; la voce era
strozzata, al punto che era difficile comprenderlo. Gesticolava: balzava
eccitato qua e là. Alla fine era esausto, coperto di sudore, prossimo
alle vertigini. Ma sapeva trasformarsi. Quando, come gli accadde più
tardi, parlava agli industriali della Ruhr, si presentava con un
completo scuro a doppio petto, e il discorso era attento, posato,
misurato.
Da principio, Hitler affermava di essere soltanto «un
tamburino che chiama a raccolta», accennando vagamente alla figura
lontana di un Führer. Presto scoprì di essere il capo di tutti i
violenti ed esagitati tamburini tedeschi. Era, lui stesso, il Führer.
Poi credette di essere il Cristo, il Salvatore dell’universo, il
Redentore: avrebbe portato a termine l’opera che il Cristo aveva solo
abbozzato. Infine disse: «Vado con la stessa certezza di un sonnambulo
lungo il cammino tracciato per me dalla Provvidenza». La Provvidenza lo
portava nel mondo dell’assoluto futuro, che lui solo illuminava con la
sua terribile luce.
L’8 novembre 1923, in una birreria di Monaco,
alzò in alto un bicchiere pieno di birra: lo bevve teatralmente:
estrasse la pistola, balzò su un tavolo, sparò contro il soffitto,
urlando: «La rivoluzione nazionale è scoppiata». La rivoluzione fallì
miseramente. In uno scontro con la polizia, quattordici nazisti
morirono. Hitler fu arrestato e condotto nella fortezza di Landsberg:
nel febbraio-marzo 1924 venne processato da un giudice compiacente, e
condannato a cinque anni di reclusione per alto tradimento. Con grande e
scandaloso anticipo, il 20 dicembre 1924 fu liberato.
Nella
fortezza di Landsberg Hitler venne trattato come l’ospite di riguardo di
un grande albergo, piuttosto che come un carcerato. Leggeva molti
libri, il fondamento della sua cultura: Nietzsche, Ranke, Marx,
Treitschke, e i ricordi di guerra di generali e statisti tedeschi.
Cominciò Mein Kampf , a cui mani compiacenti tolsero gli errori di
tedesco. Uscito dal carcere divenne vegetariano: non toccò mai più una
goccia di alcol — ciò che giudicava essenziale per la formazione di un
grande Führer.
Tutto accadde velocissimamente: con una rapidità
che Hitler giudicava sua propria; mentre gli avversari si muovevano con
disgustosa lentezza. Nel gennaio 1933 conquistò il potere: distrusse ed
abolì gli avversari: nel 1938 conquistò l’Austria, poi la
Cecoslovacchia, la Polonia, la Norvegia, la Francia, i Balcani; nel 1941
assalì la Russia e voleva spingersi lontano, sempre più lontano, verso
il Caucaso e l’India. Nessuno, mai, era stato così veloce: nemmeno
Napoleone, al quale Hitler si sentiva immensamente superiore. Ma questa
velocità era la sua hybris : scatenava sé stesso, il partito,
l’esercito, le SS, la Germania, fino a una meta lontanissima, che aveva
un solo nome: distruzione.
Negli ultimi anni mutò profondamente.
Aveva sempre riconosciuto l’origine del proprio potere nel rapporto con
la folla. Ora, non parlava più alla folla: né dal Palazzo dello Sport né
alla radio. Si allontanò e diventò invisibile. Non riconobbe più sé
stesso e il proprio segno in niente di quello che i suoi gerarchi,
sempre ispirandosi a lui, facevano: si tenne visibilmente lontano sia
dall’assassinio degli ebrei sia dall’assassinio dei malati. Non volle
creare uno Stato coerente ed unitario: detestava gli Stati e qualsiasi
forma di organizzazione politica ed economica; importava soltanto che
tutte le luci convergessero su di lui, sempre più intense via via che
tutto precipitava nella distruzione.
Scelse due luoghi
privilegiati. Il primo stava alle spalle di Rastenburg, nella Prussia
orientale: la Tana del lupo. Come disse Galeazzo Ciano, era una via di
mezzo tra il monastero e il campo di concentramento. Non c’era una sola
macchia di colore, né una nota vivace. Tutto era grigio sporco e
paludoso: puzzava di uniformi e di stivali pesanti. Come scrisse una
segretaria a un’amica, c’era «rischio di perdere ogni contatto con la
realtà». L’evento principale di ogni giornata era il punto sulla
situazione militare, a mezzogiorno. Durante il pranzo, Hitler si
atteneva, come sempre, a una dieta rigorosamente vegetariana. Spesso
consumava il pasto da solo. Alle 17 invitava le segretarie a prendere un
caffè, dedicando un complimento a quelle che mangiavano un biscotto.
Dopo cena, faceva proiettare un film. Bastava una parola, e si lanciava
in una arringa interminabile contro il bolscevismo. Guardava una carta
d’Europa: teneva il dito puntato su Mosca e diceva: «Tempo tre o quattro
settimane, e saremo a Mosca. Mosca verrà rasa al suolo». Ascoltava
dischi: sempre gli stessi; Beethoven, Wagner, Hugo Wolf.
Non aveva
amicizia per nessuno: l’uomo, diceva, era «un risibile batterio». I
nemici erano insetti nocivi da schiacciare tra le dita. Aveva tenerezza
solo per la sua cagna. Il popolo tedesco era spregevole. Un giorno,
accanto al suo treno, si fermò un treno pieno di soldati tedeschi
feriti: si rifiutò di vederli e di parlare con loro; fece abbassare
immediatamente la tendina del suo scompartimento. Da lì, dalla Tana del
lupo, Hitler dirigeva la guerra. Aveva un profondo disprezzo per i suoi
generali, che considerava incompetenti e traditori: pensava di essere il
più grande condottiero di tutti i tempi. Obbediva a un principio: le
truppe non dovevano mai ritirarsi, anche a costo di venire accerchiate e
distrutte; e costrinse la Wehrmacht ad alcune terribili sconfitte.
Era
malato. Quando Goebbels, nella primavera del 1943, andò a trovarlo alla
Tana del lupo, Hitler gli fece «un’impressione sconvolgente»: era
invecchiato: soffriva di capogiri; la sola vista della neve gli dava un
acuto malessere. Aveva l’aria stanca, il volto sfinito: gli occhi erano
vacui e giallastri: le spalle curve; la mano sinistra tremava di
continuo. Soffriva di una terribile insonnia: temeva l’angoscia della
notte; a volte singhiozzava. Era nelle mani del suo medico, che lo
riempiva di medicine, ventotto diverse pasticche al giorno. Pallido e
stanco per la lunga veglia, giocherellava nervosamente con gli occhiali e
le matite di vari colori, che teneva infilate tra le mani. Aveva
emicranie, mal di denti, crampi allo stomaco, attacchi di cuore. Stava
disteso apaticamente sul suo lettuccio da campo: balbettava; sembrava
che la volontà di vivere l’avesse abbandonato completamente. Mangiava
solo dolci. Era — disse un ufficiale — «un rottame umano rimpinzato di
dolci».
Il 16 gennaio 1945 Hitler fece ritorno alla Cancelleria
del Reich a Berlino, in un bunker a due piani scavato a otto metri di
profondità. Il suo studio era una piccola stanza di tre metri per
quattro: con una scrivania, un tavolo, tre poltrone, e un enorme
ritratto di Federico il Grande. Emergeva solo ogni tanto, molto di rado,
per una boccata d’aria insieme alla cagna. Andava a letto alle 5 di
mattina, o anche più tardi. Cercava di non vedere la luce. Teneva sotto
gli occhi un plastico di Linz, dove — diceva — si sarebbe ritirato in
vecchiaia, dopo la vittoria. Quando il plastico fu ultimato, lo
contemplava con entusiasmo: lo osservava da tutti i punti di vista, e
sotto diverse illuminazioni. Nel bunker l’atmosfera era funerea. Quando
un ufficiale si felicitò con lui per l’anniversario della sua presa del
potere, Hitler accolse le felicitazioni con aria apatica: aveva
l’aspetto distratto, il volto cadaverico. Ordinò una controffensiva a
una divisione panzer: la controffensiva non avvenne mai, perché la
divisione panzer non esisteva più. Fece fucilare il cognato di Eva
Braun. Poco dopo la mezzanotte del 29 aprile 1945, tra il rumore sempre
più vicino delle cannonate russe, sposò Eva Braun; e dettò alla
segretaria il proprio testamento politico.
Nel bunker, tutti
discutevano sul modo migliore di suicidarsi. Un sergente aprì a forza le
fauci della cagna di Hitler e la avvelenò. Subito dopo egli entrò nella
stanza: vide al suolo l’animale senza vita; lo guardò fisso per qualche
istante, e senza dire una sola parola si allontanò col volto
impassibile. Quando un cameriere aprì la porta della sua stanza, vide il
Führer ed Eva Braun distesi, l’uno accanto all’altro, sopra un divano:
dal corpo di lei veniva un penetrante odore di mandorle amare, l’odore
dell’acido prussico. Hitler aveva la testa piegata: il sangue colava da
un foro sulla tempia destra. La pistola giaceva ai suoi piedi.
I
due corpi vennero bruciati nel giardino della Cancelleria, mentre i
superstiti gridavano per l’ultima volta «Heil Hitler ». Non erano ancora
le diciotto e mezza del 30 aprile 1945. Il giorno dopo, la radio
tedesca annunciò che il Führer «era caduto in combattimento, lottando
contro il bolscevismo». Era l’ultima menzogna di una lunga serie di
menzogne, che per molti anni avevano insanguinato la terra.