domenica 10 luglio 2016

Corriere 10.7.16
Ascoltare il tempo e la natura La religiosità laica di Handke
di Alessandra Iadicicco

Era proprio così. Peter Handke l’aveva intuito e intonato in un canto trent’anni fa, e il tempo gliel’ha confermato. La durata è il sentimento della vita, più profondo dell’estasi dell’attimo e ugualmente fugace e imprevedibile; ha a che vedere con gli anni, con i decenni, con l’intimità di un luogo domestico e segreto — la stanza di lavoro, il suo giardino — come pure con l’avventura nel mondo; comunque, ovunque, irradia calore, regala conforto, induce a pensare, diffonde la quiete e il silenzio, ristora… Parafrasiamo così ciò che questo immenso autore austriaco cantava nei versi composti nel 1986 per un’urgenza, una necessità di ricorrere alla poesia dettata da quella stessa incomputabile misura di tempo che non avrebbe mai potuto descrivere, o «trasformare in scrittura» attraverso un saggio, un dramma, una storia.
Così nacque, o «gli arrivò in volo», come a Handke piace esprimersi, il Gedicht an die Dauer , tradotto ai tempi con una sintonia felice e perfetta come Canto alla durata da Hans Kitzmüller per la piccola casa editrice Braitan di Brazzano in provincia di Gorizia — situata sullo sfondo del paesaggio friulano del Carso così noto e caro a Handke — e riproposto ora prestigiosamente da Einaudi nella stessa versione curata da Kitzmüller (con testo tedesco a fronte).
Trent’anni sono un battito di ciglia per la cadenza temporale della durata, e il canto che la celebra risuona oggi quanto mai vero. Tanto più che la grossa vena poetica da cui proruppe allora, sgorgando spontaneo, originario, è la stessa che nutre da sempre la scrittura di un autore così pensoso, così concentrato, a prima vista spinoso, complicato — dalle asperità di una teoresi sempre tesa, dalle circonvoluzioni di una prosa ultrasorvegliata e da un fraseggio «architettonicamente» imponente, sontuoso, sorretto da un delicato gioco di incastri tra proposizioni subordinate — ma capace di un nitore smagliante, cristallino, sfavillante. Specie quando si scioglie in poesia. Lo stesso splendore del Canto alla durata, la stessa voce nitida, la stessa tonalità intima, sommessa, genuinamente lirica, la stessa melodia, la stessa musica abbiamo ritrovato e riconosciuto in un testo recentissimo che, libero dal rigore metrico del versificare, è scandito dal metronomo dei giorni, dell’esperienza, dell’esistenza. Si tratta di un diario, degli appunti che Handke — lettore e scrittore disciplinato e attentissimo — ha annotato nel corso dell’ultimo decennio (esattamente dal 2007 al 2015) e che l’editore austriaco Jung und Jung ha appena pubblicato con il titolo di Vor der Baumschattenwand nachts. Ovvero qualcosa come: «Davanti alla parete con l’ombra degli alberi, di notte», e i disegni che Handke incastona dentro le sue righe di scrittura (riprodotti nel volume), gli schizzi di quella danza di luce, pittura su vetro, diorama lunare disegnato dal «suo» cedro, o dal suo castagno, il suo noce, il suo melo, sulla parete del suo studio a Chaville, lasciano ben intuire a quale miracoloso manifestarsi del mondo, a quale maliosa epifania della natura, a quale goethiana seduzione dei fenomeni l’autore si riferisca.
Di notte, nel tempo prolungato e sospeso che più si confà alla durata, Handke raccoglie frammenti di pensieri che brillano come scaglie di mica, e generano la luce magica più adatta ad animare gli arabeschi delle ombre. Scrive di amore «in cui si può solo perdere» e di quel sentimento che nasce dalla commistione di amore e volontà, l’entusiasmo, «che si può solo condividere». Della neve che giunge sempre come un miracolo, come l’attimo, come «l’adesso», e delle rondini, che approfondiscono e «innalzano il cielo». Del linguaggio «che tutto sa», della «magnificenza della lingua tedesca», dell’idioma «che abbraccia l’intero pianeta» espresso dal «passo di un bambino che saltella». Del beneficio illuminante di un errore e della forma grammaticale della verità. Delle nefandezze della fretta, dell’impazienza, e dell’altro tempo, quello del vorticare delle foglie, l’oscillare dell’erba, il ticchettio della rugiada, il ritmo dell’anima («sta lì la durata?»). Scrive di soglie temporali più precise dell’alternarsi delle stagioni: il giorno in cui si arrossano le fragole, rintocca il picchio, frullano i passeri... il giorno in cui «camminando scalzo per il giardino le prime margherite restano impigliate tra le dita dei piedi».
Sono note che hanno il carattere della confessione, della rivelazione, a tratti la vibrazione esplicita della preghiera: «Preghiera del mattino: lascia!» «Preghiera: Dio, che bello!» «Il peccato della mancanza di felicità. Esistenza benedicimi». Sono gli appunti di un asceta laico e a momenti intensamente religioso, ubbidiente a una fortissima legge morale: «Giro il mio mantra: la matita nel temperino». Regola di chi cammina: «procedi fino alla prima stella», «fino all’ultima curva», «fino alla scomparsa dei pregiudizi». «Una mia legge dittatoriale: di domenica solo voci di uccelli». «Uno degli undicesimi comandamenti: cerca gioiosamente». «Proposito per l’anno nuovo mangia le arance o i mandarini solo uno spicchio alla volta». «Il miracolo della moltiplicazione del pane. Il miracolo del pane». «Dacci oggi la nostra innocenza quotidiana». «Prendete e leggete. Alzati e scrivi». E ancora: «... nessuno è sicuro di saper scrivere». Per questo, appunto, è il diario di uno scrittore (o «scriba», «scrivano», come Handke ama dire) autentico, preso di sorpresa, di notte, nell’ombra, libero da progetti e da intenzioni. È il taccuino di un cronista della durata, di un uomo che abita nella durata, che ha stretto amicizia con il tempo e si dice: «Smettila di immaginarti di essere giovane —. Perché ?».