Avvenire.it 09.07.16
Gli USA del secondo emendamento
Disarmare la diffidenza
di Vittorio E. Parsi
La
tragedia di Dallas, che segue le uccisioni di neri da parte di
poliziotti bianchi, riapre ferite americane mai veramente rimarginatela.
E che hanno una lunga storia. Il diritto dei cittadini a portare le
armi è sancito dal Secondo emendamento della Costituzione ed è motivato
dalla diffidenza nei confronti del "governo", così tipica della
componente libertaria all'origine degli Stati Uniti d'America La
dichiarazione d'indipendenza, come si ricorderà, costituì l'ultimo,
doloroso, passo della lotta degli abitanti delle tredici colonie contro
una Corona che si ostinava a privarli dei loro legittimi diritti
posseduti in quanto sudditi britannici.Tale diffidenza si ritrova nel
sentimento di ostilità nei confronti del >big government, così
diffusa nella cultura politica americana. Che contro un governo
tirannico il popolo debba essere in grado di insorgere anche con le
armi, esattamente come accadde nel 1776, è perciò inscritto nel Dna
della pur virtuosa tradizione politica americana. Grazie a una sua
interpretazione estremamente estensiva, il controverso emendamento,
consente, che qualunque persona, anche a prescindere dai suoi precedenti
penali, possa dotarsi di un vero arsenale. Chiunque abbia provato a
proporre una limitazione della vendita e del possesso di armi da guerra
ha argomentato sull'inattualità di quell'emendamento, sostenendo a buon
titolo che il governo federale non possiede alcuno dei caratteri tipici
di un sistema tirannico. A queste richieste, dettate dal buon senso, la
Corte Suprema ha sostanzialmente opposto il principio secondo cui lo
potrebbe sempre diventare, considerando che neppure la Corona britannica
era pensabile come una tirannia, prima che iniziasse a comportarsi come
tale. D'altra parte, non dovrebbe essere mai dimenticato che anche
l'altro spartiacque della storia americana, il tentativo di secessione
degli Stati schiavisti del Sud che portò alla Guerra civile, venne
presentato come il diritto a lottare, anche con le armi, contro
l'intrusione del governo federale nella libertà della comunità. È
l'altra faccia della stessa medaglia, potremmo dire. Quello che però qui
interessa mettere in evidenza è che, come avvenne in occasione del più
sanguinoso conflitto mai combattuto dagli Stati Uniti (la Guerra civile,
appunto), danni enormi possono prodursi nel corpo sociale quando un
diritto rivendicato nel nome della libertà si basa su un'idea non
condivisa della libertà stessa. In quel caso, ciò che spaccava la
società americana era la contrapposizione tra la visione abolizionista,
che considerava la schiavitù dei neri uno sfregio alla libertà, e quella
di una cultura apertamente razzista, che invece la giustificava proprio
nel nome della libertà (dei bianchi). Per venire ai giorni nostri, ciò
che preoccupa gli osservatori meno superficiali, a partire dal
presidente Obama, è il riproporsi della questione razziale (mai
completamente superata, neppure a 60 anni dalla fine del segregazionismo
e a quasi 120 dalla conclusione della Guerra civile) all'interno di una
società pesantemente armata. Il timore, per intenderci, è quello della
riproposizione di una nuova edizione della guerra civile, in una sua
versione questa volta "privatizzata", in cui i singoli cittadini e
persino i singoli tutori dell'ordine, applicano una propria visione
segregata della società e si muovono di conseguenza: sparando ai neri,
perché la loro vita non è abbastanza "sacra", o ammazzando poliziotti,
come legittima misura di rappresaglia nell'ambito di una guerra.
L'elezione di un nero alla presidenza degli Stati Uniti, per la prima
volta nella storia, avrebbe dovuto essere un simbolo e uno stimolo del
superamento della divisione razziale. E in parte sicuramente lo è stato.
Allo stesso tempo però, proprio la presidenza di un nero ha esasperato
quella cultura razzista che, normalmente, si "accontenta" della
segregazione (sia pure non più sancita dalla legge), ma che di fronte
"all'assedio da parte degli afroamericani" si sente in diritto di
reagire anche con le armi. Vedremo come la questione prenderà forma
nella campagna elettorale che contrappone Donald Trump e Hillary
Clinton. L'unica cosa di cui possiamo essere certi è che i rispettivi
strateghi staranno già studiando come sfruttarla a proprio vantaggio. La
sola vera nota di speranza sta nella nuova e diversa accoglienza che le
insistenti parole di papa Francesco sulle armi stanno ricevendo su tale
delicata questione, contribuendo ad aprire un dibattito che lentamente
ma finalmente accetti di riconsiderare l'attualità di una libertà antica
che rischia sempre più di trasformarsi in una contemporanea licenza di
uccidere.