Avvenire.it 08.07.16
Mezzo secolo di diritti civili, ma questa ferita non guarisce
di Giorgio Ferrari
La
violenza, le proteste, le vittime della lunga partita – a volte letale,
com'è accaduto nelle ultime ore a Dallas, a St Paul nel Minnesota, a
Baton Rouge in Louisiana – fra i neri e i bianchi, i neri e la polizia, i
neri le istituzioni non ci devono stupire. Perché la questione razziale
negli Stati Uniti è ancora una ferita aperta. Fin dai tempi del
Proclama di Emancipazione di Abraham Lincoln il rapporto fra l'etnia
dominante dei bianchi e quella subalterna dei neri ha conosciuto
stagioni di altissima tensione e reciproca diffidenza. Sebbene già nel
1864 il Tredicesimo emendamento della Costituzione avesse abolito la
schiavitù, per quasi un secolo – fino agli anni Sessanta del Novecento –
le relazioni fra bianchi e neri furono scandite dalle cosiddette "Jim
Crows Laws", ovvero le leggi locali che di fatto istituivano una
segregazione razziale per i neri americani e per gli altri gruppi etnici
diversi dai bianchi. Come è noto, negli Stati del Sud si protrasse a
lungo il divieto di contrarre matrimoni misti, di votare, di utilizzare
gli stessi bagni pubblici, gli stessi mezzi di trasporto, di frequentare
le medesime scuole, anche dopo che nel 1954 la Corte Suprema aveva
dichiarato incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole. Un
anno dopo vi fu il clamoroso gesto di disobbedienza civile di Rosa Park,
la donna di colore che si rifiutò di cedere il proprio posto su un
autobus a un bianco. Ma ci sarebbero voluti altri dieci anni – tra la
resistenza di governatori segregazionisti come Wallace in Alabama, la
marcia su Washington di Martin Luther King, attentati e disordini,
chiese bruciate e un orribile massacro di attivisti neri nel Mississippi
ad opera del Ku Klux Klan – prima che il presidente Johnson vedesse
approvato il Civil Rights Act del 1964, la legge che dichiarava illegali
le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale
nelle scuole, sul posto di lavoro e nelle strutture pubbliche in
generale. Ma quello che de jure veniva definitivamente sancito, non
liberava per nulla l'etnia nera (quella dei nativi americani era troppo
esigua per creare reali problemi e quella asiatica è sempre stata di
relativamente rapida assimilazione) da una sorta di diffusa e spesso
inconfessa diffidenza che permane tuttora in molte aree del Midwest e
del profondo sud americano, soprattutto in quella "Bible Belt" dove più
accanita è stata la difesa dei privilegi dei bianchi. E se forte era
stata la resistenza dei democratici del Sud ai cambiamenti imposti dal
Congresso, anche gli afroamericani avevano espresso politicamente i loro
anticorpi: non solo Martin Luther King, ma anche l'attivista radicale
del Nebraska Malcom X, fondatore della Nation of Islam. Poco dopo la sua
morte (venne assassinato a New York nel 1965) scoppiò la prima vera
grande rivolta razziale nel quartiere di Watts a Los Angeles. Sei giorni
di devastazione e un bilancio ufficiale di 34 morti e 1.032 feriti.
L'anno successivo nascevano a Oakland in California i Black Panthers,
movimento radicale per l'affermazione dei diritti degli afroamericani.
Celebri quei due pugni guantati di nero ai Giochi Olimpici di Città del
Messico dei due velocisti Tommy Smith e John Carlos, immobili sul podio
nel saluto delle Pantere Nere. Accanto alla cronologia delle tante
piccole e grandi rivolte innescate immancabilmente dalla morte di
qualche membro della comunità afroamericana (le più importanti: 23 morti
e 700 feriti a Newark nel 1967, 43 morti e 1.189 feriti a Detroit nello
stesso anno, 54 morti e 2.000 feriti a Los Angeles nel 1992 in seguito
alla morte di Rodney King) prosegue strisciante la diffidenza reciproca
fra la comunità afroamericana e i quella bianca. Un sondaggio ordinato
lo scorso anno dal New York Times rivelava che 6 americani su 10
reputano problematiche le relazioni fra le diverse razze e 4 su 10 che
durante il doppio mandato di Barack Obama siano addirittura peggiorate.
In certi giornali del nord, come nel Wisconsin o nel Minnesota, al nome
Barack viene sempre fatto seguire il secondo nome, Hussein, a segnalare
la provenienza "non-wasp" (white, anglo-saxon, protestant) del primo
presidente nero americano. Impietosa e a suo modo esemplare la
radiografia del voto che lo ha portato nello Studio Ovale: il 95% degli
afroamericani e il 43% dei bianchi. Ma quattro anni più tardi solo il
39% dell'elettorato bianco aveva votato per il presidente, contro il 93%
dei neri. #BlackLivesMatter, le vite dei neri contano. È l'hastag e il
nome di un movimento nato all'indomani della morte del diciassettenne
Trayvon Martin, ed è un dito d'accusa puntato contro ciò che sopravvive
della discriminazionee della diffidenza razziale in America. La strada
da percorrere, come si vede in questi giorni è ancora molto lunga.